Non so come faranno i ragazzi più giovani, ma per fortuna faccio ancora parte di quella generazione che è cresciuta con i racconti di guerra dei nonni che avevano la capacità di rendere molto vicina e quasi tangibile la guerra, qualcosa di orribile e sempre di moda, specialmente per chi ha interessi a farne scoppiare una.
Sam Mendes arriva da una generazione precedente alla mia e suo nonno Alfred Hubert Mendes (a cui il film è dedicato) gli raccontava dei tempi in cui combatteva “la prima” servendo nella 1st Rifle Brigade sul fronte francese. Da qui è nata la storia, sceneggiata a quattro mani in coppia con Krysty Wilson-Cairns, che fa da base al suo ultimo lavoro “1917”, un film piuttosto in linea con la filmografia del regista.
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«Immaginate, è tipo come American Beauty, solo che su di noi, invece che una pioggia di petali di rosa, cade una gran pioggia di… Vabbè ma facciamo prima a girarlo» |
Sì, perché Mendes è sempre stato il regista intimista capace di raccontare l’anima dei suoi personaggi, titoli come “American Beauty” (1999) e “Revolutionary Road” (2008) sono ottimi esempi, l’unica guerra che aveva raccontato il buon Sam al cinema, era stata quella moderna in Kuwait nel film “Jarhead” (2005) e lo aveva fatto con una stile molto classico, la scena simbolo di quel film per me resta Jake Gyll… Gyllen… Donnie Darko che agli elicotteri che sparano Creedence, urla che in questa dannata guerra, nemmeno della musica “loro” possono permettersi.
Le ultime sortite al cinema Mendes le ha fatte tutte nei panni dell’agente 007, firmando l’ottimo “Skyfall” (2012) che prima di essere un buon film di James Bond, era un’ottima storia sul tempo che passa e l’ultimo fiacco e stanco Spectre dove, però, abbiamo potuto vedere la più grossa esplosione della storia del cinema. Se volete sapere la mia (tanto ve la dirò comunque!) un momento piuttosto deludente che, però, deve aver fatto risvegliare in Mendes la voglia di cinema d’azione.
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War. What is it good for? Absolutely nothing. Say it again. |
Anzi, ad essere proprio onesti “1917” fa pensare al fatto che probabilmente Mendes deve aver visto roba tipo Birdman oppure The Revenant, si sia messo a gridare fortissimo: «Anche io piano sequenza! Anche io!». Ecco, “1917” dà la sensazione di essere un lunghissimo piano sequenza di 119 minuti, in realtà se avete l’occhio un po’ allenato, è facile notare i vari “trucchetti” che Mendes ha utilizzato per creare questa illusione, ad esempio il salto nel vuoto (e in acqua del protagonista) è uno di quei raccordi creati utilizzando la post produzione digitale che permette al film (e a noi spettatori) di continuare a seguire passo dopo passo il caporale William Schofield, anche se di fatto lo stacco è avvenuto, almeno durante le riprese del film.
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Tu salta, poi noi raccordiamo il tutto in post produzione, tranquillo! |
La premessa di “1917” è semplice: il caporale Schofield (George MacKay visto in Captain Fantastic) e il suo compare Dean-Charles Chapman (Tom Blake che ha recitato in Giocotrono) sperano in una breve licenza premio, ma in realtà vincono una missione impossibile ovvero attraversare la terra di nessuno oltre la trincea, in pieno territorio nemico, per consegnare un dispaccio al colonnello Mackenzie, con l’ordine di fermare l’attacco ed evitare così di sprecare le vite di un intero reggimento, in quella che è evidentemente una trappola tesa dai Tedeschi. Ok, lo so che volete dirlo, dài diciamolo in coro allora: «It’s a trap!» (cit.).
Sam Mendes sceglie un approccio estremamente realistico e totalmente anti-glorioso, la missione non si concluderà con medaglie o encomi, le possibilità di sopravvivenza sono poche come il tempo a disposizione e il fatto che tra gli uomini ci sia il fratello di uno dei due protagonisti, serve solo a motivarli di più. Anche il valore umano e di crescita rappresentato dal viaggio, viene ridimensionato dalle condizioni stesse, i due protagonisti attraversano una landa desolata fatta di cadaveri ammonticchiati, ratti grossi come cani di grossa taglia, la descrizione di un inferno fatto dal punto di vista di chi ci si è ritrovato immerso fino al collo, nonno Mendes testimone di un’intera generazione di nonni che ci hanno insegnato che Rambo III è una cosa, la realtà un’altra.
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«Ma non era meglio mandare Chuck Norris per questo!?» |
Non sono così illuso da credere che alla base del film, non ci sia anche un po’ di quel vecchio e sano spirito che dice: «Fai un film in piano sequenza, ai tizi dell’Accademy è roba che tende a piacere!». Però è altrettanto chiara la volontà di Mendes di portare il pubblico in una trincea, seguendo i suoi soldati in un modo che sta a metà tra “Orizzonti di gloria” (1957, il titolo di Kubrick che non si può non citare davanti ad un film come questo) e un “Call of Duty” ambientato durante la Prima Guerra Mondiale.
Quello che potremmo definire “Effetto C.O.D.” è piuttosto forte in certi momenti, viene stemperato solo da passaggi della storia che servono a far tirare un po’ il fiato al pubblico e ai protagonisti, come la scena delle madre che arriva a metà film, ma in generale più che una svolta da film d’azione, è chiaro che a Mendes interessi il realismo aldilà dell’azione pura. Sì, perché tutte le svolte chiave, avvengono spesso lontano dallo sguardo del protagonista impegnato, ad esempio, a fare altre cose altrettanto importanti come prendere dell’acqua, un modo di mantenere l’azione fuori dalla scena, che è diretta conseguenza della volontà di realismo del film e che in alcuni momenti fa un po’ a pugni con l’effetto C.O.D. (l’aereo che precipita proprio dove si trovano i protagonisti).
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«Non bastavano le bare volanti no! Ora anche questo!» |
Spesso gli eventi importanti accadono mentre siamo impegnati a fare altro e durante una guerra è importante mantenere alta la guardia se si vuole portare a casa la pelle, infatti in alcuni momenti la tensione di “1917” ti fa venire voglia di aggrapparti ai braccioli, mentre in altri diventa chiaro che sono proprio le azioni dei protagonisti a portare avanti la storia, in questo allora “1917” è davvero un film d’azione.
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«Ovunque andavo, io ci andavo correndo» (Cit.) |
Una delle scene più riuscite (la corsa del protagonista per coprire quei trecento metri mancanti) non solo porta avanti la storia, ma regala al film uno dei suoi momenti più di grande respiro, perché di epica ne troviamo ben poca, anche nella saggia scelta degli attori.
Ho trovato molto azzeccata l’idea di scegliere attori famosi per i personaggi di contorno (Mark Strong, Andrew Scott, Richard Madden, Colin Firth e Benedict Cumberbatch) e di affidare a due quasi sconosciuti la missione (e di conseguenza il film), in questo “1917” è molto simile a Dunkirk, però (per nostra fortuna) molto meno retorico e narrato anche meglio, in cui a fare la parte del leone è quella Rockstar di Roger Deakins.
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Roger Deakins spiega alla troupe i rudimenti di sasso-carta-forbici. |
Il lavoro di ricostruzione dei luoghi è curato e dettagliatissimo, ma la capacità di Deakins di illuminare alla perfezione tutti i luoghi attraversati dai protagonisti è micidiale, si passa dal buio dei cunicoli fino a spazi enormi come la trincea innevata nel finale che sono una gioia per gli occhi, malgrado siano posti desolanti pieno di fango, freddo, ratti e cadaveri. Fresco del suo primo Oscar (dopo 14 nomination e poi qualcuno ancora sforna meme su Leonardo Di Caprio) Deakins trasforma ogni fotogramma in un’opera d’arte e al pari di The Revenant è bello trovarsi davanti ad un film che ti fa grattare la testa pensando: «Come hanno fatto a girarla questa scena?»
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A grande richiesta il ritorno dell’inquadratura che insegue i protagonista, la NUCam! |
Il dubbio era che un film così potesse essere un grosso esercizio di stile, con un ritmo che procede a strappi (e che, ammettiamolo, non è il suo punto di forza), per fortuna il risultato finale è piuttosto riuscito al netto di un paio di momenti che mi hanno brevemente tirato fuori dall’illusione della storia. Ad esempio, la CGI utilizzata in alcuni momento di racconto (e per animare i topastri) fa un po’ a cazzotti con il dettagliato realismo della messa in scena. Inoltre, ho un grosso sospetto che richiede una doverosa parentesi.
“1917” è chiaramente pensato per essere apprezzato su uno schermo gigante e con un impianto sonore adeguato, dove risulta un’esperienza niente male, ma rivedendolo in condizioni diverse come sarà? A mio avviso, Dunkirk perdeva moltissimo e temo che sarà lo stesso per il film di Mendes. Questo potrebbe essere materiale di discussione per i difensori della sala cinematografica a tutti i costi, ma anche motivo di riflessione, io, ad esempio, sono convinto che la validità di un film si misuri sulla lunga distanza, se rivedendolo migliora o resta uguale sono punti a suo favore, ma se, invece, ci perde? Meditate gente, meditate.