Anche se il titolo italiano è molto ingannevole, oggi aggiungiamo un nuovo capitolo alla rubrica… Blog of the apes! So di avere un’insana passione per le scimmie al cinema, ma il fascino che i nostri progenitori esercitano sull’umanità nel corso dei secoli ha influenzato vari campi dell’arte, il cinema sicuramente, ma anche la scultura, Emmanuel Fremiet è stato uno dei più celebri “Scimmiologi”, lo scultore francese celebre per la statua di Giovanna d’Arco presente a Parigi, ha farcito di scimmie la sua arte.
Sua è la satirica “Gorilla che rapisce una donna” esposta la prima volta al Salon di Parigi nel 1887, criticata ai tempi perché considerata grottesca, ma comunque capace di anticipare il mito di King Kong. Commissionata dal museo di storia naturale di Parigi, pochi anni dopo nel 1895, Fremiet scolpì “Orangutan che strangola un selvaggio del Borneo”, statua che mi è tornata in mente guardando questo film, dopo che mi è stata segnalata da Giocher, quindi ora sapete chi ringraziare per questo momento di cultura in pillole.
La statua di Fremiet rappresenta, con dovizia di dettagli, la natura che si ribella all’uomo, ma a differenza del forte gorilla che rapisce una donna, qui abbiamo un selvaggio del Borneo, strangolato da una scimmia storicamente considerata buffa a mansueta, anche per via del cinema, pensate al Re Luigi del “Libro della giungla” disneiano, oppure a Clyde, il compare di Clint Eastwood in Filo da torcere e Fai come ti pare.
Una scimmia mansueta a cui iniziano a roteare gli ammenicoli, che poi è il tema del quarto capitolo della saga, anche se gli incassi e le settimane di permanenza nella top ten anche del capitolo precedente sono in costante discesa, il produttore Arthur P. Jacobs non ha nessuna intenzione di mollare l’osso (o la banana, fate voi) e, malgrado l’enorme successo del primo capitolo, la 20th Century Fox ancora naviga in cattive acque, quindi il budget a disposizione scende ulteriormente a poco meno di due milioni di ex presidenti defunti stampati su carta verde e tutto il cast viene confermato, bisogna fare un altro film e per girarlo in tempi record viene chiamato J. Lee Thompson che non è certo l’ultimo della pista, autore di bombe come “I cannoni di Navarone” (1961) e di tanti film con Charles Bronson.
Per mantenere al minimo i costi, vengono saccheggiati i set già pronti di film e serie tv di Irwin “The Master of Disaster” Allen, tutta la sala di controllo del cattivissimo governatore Breck (Don Murray) è un riciclaggio dei set della serie tv “Kronos – Sfida al passato”, mentre nel cast tornano praticamente tutti, la veterana Natalie Trundy, nuovamente sotto chili di make up, questa volta nei panni della scimpanzé Lisa, ma soprattutto lui, Mr. Scimmia onoraria Roddy McDowall che dopo aver interpretato Cornelius per due film in fila, qui interpreta sua figlio Cesare.
Anche la sceneggiatura sembra pensata per riciclare situazioni i personaggi ed è firmata sempre da lui, Paul “casino ambulante” Dehn che prosegue lungo il percorso iniziato con il film precedente, in cui Cornelius ci raccontava con dovizia di dettagli (lasciatemi l’icona aperta che ripasso…) della rivolta delle scimmie, quindi perché non farci su un intero film? Concordo con Lucius Etruscus quando scrive che Dehn del romanzo originale di Pierre Boulle ha capito solo quello che voleva lui ed è stato colpito soltanto dal concetto di scimmie in rivolta, anzi già che ci siete vi consiglio il pezzo del Zinefilo dedicato a questo film!
Ora, ditemi cosa volete, ma io voglio un gran bene a “Conquest of the Planet of the Apes”, lo dico senza vergogna, è il mio capitolo preferito di tutta la saga, ad ovest del film originale del 1968, anche rivedendolo confermo la mia posizione e capisco perché fin da bambino mi piaceva così tanto, di tutti i capitoli è quello che sposta spudoratamente l’ago della storia in direzione scimmiesca, se nel capitolo precedente si tifava solo per Zira Mondaini e Cornelius Vianello, qui è impossibile non prendere le parti di tutte le scimmie e di Cesare il loro rivoltoso capo.
Oh, lo dico subito: non è tutto pesche e crema, perché comunque Paul Dehn di non infarcire la trama di trovate sceme proprio non è capace, ma consoliamoci, perché in uno strambo Paese a forma di scarpa non siamo stati da meno, questo quarto capitolo è ambientato diciotto anni dopo quello precedente, ovvero nel 1991, quindi perché diamine qui da noi sia uscito con il titolo di “1999 – Conquista della Terra” non è dato sapersi, per quanto io ami i titoli di fantascienza retrodatati, l’unica spiegazione che ho è che i macachi del marketing abbiano pensato di mettersi in scia ad un certo film di Stanley Kubrick che, guarda caso, iniziava con alcune scimmie.
Pronti, via! Ritroviamo subito Ricardo Montalbán nuovamente nei panni del Señor Armando, il direttore di circo che ha preso in custodia il figlio di Zira e Cornelius, la scimmia intelligente e parlante Cesare, qui interpretato da un Roddy McDowall in stato di grazia che nemmeno le limitazioni della maschera riescono a contenere. Quindi, affrontiamo subito l’elefante il gorilla nella stanza, ma il figlio di Zira e Cornelius Vianello non si chiamava Milo?
Nel film precedente era stato battezzato così, la spiegazione che mi do è che Armando abbia cambiato nome alla scimmietta, per tenerlo ulteriormente nascosto, anche perché, come abbiamo visto, il piccolo Milo è stato ucciso insieme ai suoi genitori. Ok, ma a me questa cosa dei nomi ancora non mi sconfinfera Capitan Pasticcio Paul Dehn non ci aveva detto, sempre nel capitolo precedente, attraverso il racconto di Cornelius, che la scimmia a capo della ribellione dei quadrumani aveva il cazzutissimo nome di Aldo? Per assurdo, in questo film (e in quello successivo) c’è una scimmia di nome Aldo, qui interpretato da David Chow che, però, è un gorilla e di certo non è il capo della ribellione, boh insomma, ho capito perché da tanti doppiaggi il nome Aldo è sparito, un modo per cercare di stare al passo con i buchi di sceneggiatura pensare da quel “Casinaro” di Paul Dehn.
Di fatto, i primi minuti del film non sono altro che la trasposizione della profezia di Cornelius, Armando porta Cesare in città e ci propina nuovamente lo spiegone per cui una malattia ha sterminato tutti i cani e i gatti del mondo, lasciando gli umani senza animali domestici, per compensare all’assenza, le scimmie evolute hanno preso il loro posto, ma invece che essere coccolate come Dudù o il Chiwawa Toy di Paris Hilton, svolgono le mansioni più abbiette e vergognose, quelle che gli uomini si rifiutano di svolgere, compiti senza dignità come servire ai tavoli di ristoranti stellati, preparare cocktail, occuparsi dell’acconciatura di ricche signore… Sarà… Ma secondo me avere una laurea con il massimo dei voti, per lavorare in un call center per pochi spiccioli al mese è molto peggio, però il film sulla società dispotica lo sta scrivendo Paul Dehn mica io.
J. Lee Thompson si barcamena tra i vuoti della trama e un budget che è davvero poca cosa, ma dimostra tutto il suo mestiere, l’idea di mostrare i maltrattamenti subiti dalle scimmie in questa società popolata di celerini nero vestiti (perché sia chiaro il concetto), attraverso gli occhi del “ragazzo di campagna” Cesare Pozzetto è molto efficace, certo, alcuni maltrattamenti hanno ben poca logica, ma nei primi minuti del film da spettatori, capiamo subito l’orrore che Cesare prova nel vedere l’organizzatissima società degli umani per la prima volta. La prima mezz’ora procede per accumulo, con un montaggio volutamente frenetico, tra addestramenti fatti a bastonate e desensibilizzazioni al fuoco a colpi di lanciafiamme, è anche comprensibile se ad un certo punto Cesare si metta ad urlare “Dirty human bastards!”, provocando un sacco di guai ad Armando, portato via dalle guardie cripto-fasciste.
Certo, non è molto chiaro come mai gli uomini del cattivissimo governatore Breck interroghino il circense per ore, prima di decidersi ad utilizzare “L’Autenticatore”, una macchina che costringe l’utilizzatore a dire la verità (farlo prima? Brutto?), questo aggeggio sembra una lampada dell’Ikea e pur di non confessare il segreto di Cesare, Armando si suicida che poi è quello che volevo fare io l’ultima volta che ho guardato i prezzi delle applique da parete sul catologo Ikea.
La morte di Armando provoca una rabbia cieca in Cesare, la scena in cui piange disperato, ma senza nemmeno la possibilità di urlare la sua rabbia al mondo per non essere scoperto, è uno dei momenti più intensi della prova del grande Roddy McDowall.
Finito a fare da servo proprio per Breck (ma tu guarda?), se non altro, Paul Dehn si fa perdonare la forzatura, con quella che è la mia scena preferita del film e anche uno dei momenti più iconici di tutta la saga, ovvero quando Breck chiede allo scimpanzè di scegliersi il proprio nome da un libro, il nostro sfoglia le pagine facendo film si stare facendo a caso e poi indica proprio il nome Cesare (“Un re” come dice Breck) guardandolo con aria di sfida, scena bellissima, peccato che poi a Dehn, questa storia dello sguardo di Cesare scappi leggerissimamente di mano.
Motivato dal suo nome e dalla morte di Armando, Cesare si aggira per la città fissando, come Nicolas Cage quando fa lo sguardo intenso avete presente? Lui fissa, fissa una scimmia e quella dopo un breve cenno di intesa, inizia a compiere piccoli atti di rivolta, tipo ribaltare i cestini della monezza, oppure peggio, attaccare il chewing gum masticato sotto il banco. Ma anche cose ben più gravi, tipo Cesare fissa un orango e quello poi non rilascia scontrino fiscale, oppure non ti dà indicazioni stradali se ti vede girovagare senza meta, roba forte, roba da “No justice no peace!” Eh?
Cesare guarda le scimmie e le scimmie guardano nel sole, mentre il mondo, piano piano, va in rovina, dove si andrà a finire signora mia se tutte queste scimmie continueranno a non rispettare la fila alla posta dico io! Oh, io ci scherzo, perché il film ha alcune facilonerie (quasi tutte imputabili a Paul Dehn) che è impossibile non notare, ma è uno dei miei capitoli preferiti della saga, non è un caso se per il reboot del 2011, abbiano pescato a piene mani zampe da questo film, perché è quello con i temi più interessanti.
“Conquest of the Planet of the Apes”, malgrado le banalità, è il capitolo più cupo e scimmia-centrico, Cesare compie un arco narrativo che lo porta ad essere una scimmietta cresciuta nella bambagia del suo circo, a mostrare un livore impossibile da nascondere nei confronti degli uomini, il dialogo chiave è quello con McDonald (Hari Rhodes) che non è uno che fa panini, ma è il tizio nero che lavora all’interno del sistema (nero, ma per diverse ragioni) della società umana. All’uomo Cesare prima dice che tutto quello che credeva era sbagliato, perché si basava sulla convinzione che gli uomini fossero buoni e quando parla della rivoluzione delle scimmie, gli dice: “Tu più di chiunque altro dovresti capire”.
Qui Paul Dehn e J. Lee Thompson sganciano il metaforone e riportano la critica sociale al centro dei temi della saga più scimmiesca del cinema, malgrado fosse inglese, Dehn si è ispirato al movimento per i diritti civili, non è certo un caso se dei cinque milioni di ex presidenti spirati (tutti bianchi!) stampati su carta verde, portati a casa dal film, molti arrivassero da una porzione di pubblico afroamericano che in Che(sare) Guevara e i suoi poteva riconoscersi.
Oltre al titolo italiano post-datato, il film in sé anticipa anche tanta fantascienza distopica che negli anni ’70 ha fatto la storia del cinema, il finale quasi alla Carpenter mi compra ogni volta, tra fuoco e fiamme si consuma la ribellione delle scimmie, anche se bisogna dire che l’immancabile discorso motivazionale del condottiero Che(sare) alle truppe, è palesemente diviso in due tronconi.
Il primo finale ipotizzato prevedeva Breck ucciso sotto i colpi dei calci dei fucili dei gorilla, dopo un ordine diretto di Cesare, ma la prima metà di discorso, in cui il leader dei rivoltosi prevede tutto il futuro dell’umanità (e la trama degli altri film) lascia pochi dubbi sulle sue intenzioni. La svolta caritatevole è stata inserita dopo (e doppiata da Roddy McDowall richiamato in fretta e furia), risulta un po’ forzata, ma la difendo, perché è quella con cui Cesare si dimostra migliore dei suoi oppressori.
Insomma, “Conquest of the Planet of the Apes” non è particolarmente ben fatto, ma comunque così efficace e a tratti anche intenso da convincermi ad ogni visione, riesce ad istigarmi alla rivolta anche senza bisogno che Cesare inizi a fissarmi, proprio come la statua scolpita da Emmanuel Fremiet in qualche modo parla all’inconscio, ricordandoci che siamo in testa alla catena alimentare. Per ora.
It’s time to change
It can’t stay the same
Revolution is my name
Sepolto in precedenza martedì 20 giugno 2017
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