He who breaks the law, goes back to the house of pain, il campionamento di un dialogo di “L’isola del dr. Moreau” (1977) fatto dal quasi omonimo gruppo, riassume alla perfezione tutto il senso del nuovo capitolo della rubrica… Above and beyond!
Non so voi, ma nessuna tipologia di film mi suscita ansia come quelli carcerari, infatti negli anni li ho affrontati tutti proprio per tentare di superare questo panico, da Fuga da Alcatraz, passando per “Sorvegliato speciale” (1989) oppure OZ, fino all’angosciatissimo (a mia memoria) “Un uomo innocente” (1989), mi sono fatto del male con tutti questi titoli, ma l’ansia non mi è passata, anche perché uno come me in carcere durerebbe pochi minuti, finirei per fare incazzare l’ergastolano più cattivo e nel caso migliore, malamente accoltellato per non diventare la sua nuova amichetta di nome Mary, insomma: meglio rigare dritto nella vita.
Il filone carcerario ha una tradizione lunga e prolifica in cui è impossibile per me non citare “2013 – La fortezza”, anche perché se siete più o meno della mia leva, ricorderete di certo quando veniva trasmesso a ripetizione su Italia 1, roba che oggi un film del genere sarebbe vietato ai minori di 43 anni (non accompagnati), mentre allora potevo guardarmelo e riguardarmelo senza problemi, alimentando inconsapevolmente la mia ansia per la galera, ma anche la mia passione per Stuart Gordon.
A mani basse, “Fortress” è il film del buon Stuardo che ho visto più volte nella mia vita, seguito a ruota da From Beyond che, invece, passava più che altro sulle tv locali, complici le grazie di Barbara Crampton. Un film assolutamente di culto che avrebbe tantissimi elementi per risultare uno sbaglio (a partire dal protagonista), invece, incredibilmente, funziona. Un film che ha fatto un lungo giro, perché inizialmente avrebbe dovuto essere un progetto di ben altra portata, proporzionato alle dimensioni del suo protagonista… Arnold Schwarzenegger.
Sì, perché, per un certo periodo, due dei prediletti di questa Bara come Stuart e Arnold hanno rischiato di lavorare insieme, state pur certi che la carriera del regista di Chicago avrebbe preso una piega diversa se così fosse stato, ma andiamo per gradi, cominciamo dal fiuto per il talento di Schwarzenegger. La quercia austriaca ha mandato a segno una prima parte di filmografia che andrebbe conservata in un museo, il frutto di scelte brillanti dettate del notevole intelletto di Arnold, ma anche di una certa capacità di capire al volo i registi giusti, quelli in grado di farlo brillare. Il nome di Stuart Gordon era finito sul personalissimo cartellino di Arnold dopo Re-Animator, film in cui recitava Peter Kent, uno che a lungo era stato la controfigura di Schwarzenegger.
Il nostro Arnie aveva capito al volo che Gordon era uno bravo per davvero, la possibilità di farsi dirigere da lui è arrivata in “Fortress” ed ora, come direbbe Lucius per restare in tema con Schwarzenegger, prenotiamoci tutti un viaggetto alla ReKall per farci impiantare il ricordo di “2013 – La fortezza” con Arnold al posto di Christopher Lambert. Eh lo so, fa male, ma mai come 30 anni in cella con l’enorme ergastolano che ti chiama Mary.
Perché questa grande collaborazione non è diventata realtà? Secondo Stuart Gordon, Schwarzenegger ha abbandonato il progetto per via del budget, i dodici milioni di fogli verdi con sopra facce di ex governatori della California presidenti defunti secondo Arnold erano robetta, un film così avrebbe avuto bisogno di sessanta o settanta milioni almeno, ma bisogna capirlo Arnie arrivava da Atto di Forza, era al massimo della sua fama e infatti preferì tornare da Jimmy Cameron, il resto come si dice in questi casi, è storia (del cinema).
Passare da Schwarzenegger a Christopher Lambert nel ruolo del protagonista, è un po’ come scendere da un Harley-Davidson e salire su un triciclo, con quella sua aria da stocco bagnato il francesino porta con sé ben pochi vantaggi, uno in particolare: grazie ai suoi precedenti ruoli in Highlander e rispettivo seguito, l’ex Connor MacLeod era molto popolare in Australia che poi è proprio dove hanno girato buona parte di “2013 – La fortezza”, per la precisione nel Queensland (storia vera).
Oltre al filone carcerario, grazie ad un bizzarro titolo italiano, il film appartiene anche a quella cerchia di film di fantascienza dal titolo ormai post-datato che mi piacciono tanto, i film distopici, dove il futuro è buio, senza speranza e di solito compare proprio Arnold. Anche se bisogna essere chiari: il titolo italiano del film è brutto, devono aver dato del Barbera al posto del caffè di chi ha curato l’edizione nostrana, perché intitolare “2013 – la fortezza” un film ambientato nel 2017? Scaramanzia per il numero 17? Ma anche il 13 gode della stessa fama, almeno nei Paesi di lingua inglese. Chissà se da quelle parti conoscono anche il Barbera, qui da noi di sicuro.
Ma il problema principale di questo film, non era l’assenza di budget che ha messo in fuga Swarzy, quanto più che altro l’abbondanza di idee, sì, perché quello che non viene mai detto dei vecchi film d’azione è che erano donatori sani di trovate. Guardate un film d’azione moderno, di norma è basato su un’idea gustosa su cui viene basata tutta la trama, quelli che uscivano fino agli anni ’90, invece, erano un frullato di trovate gagliarde, volete un esempio pratico? Il fighissimo “Crank” (2006) parla di un protagonista che non può smettere di correre, 1997 fuga da New York (a proposito di titoli post-datati) di un protagonista che non può smettere di correre, mentre atterra su New York con un aliante, in un’isola prigione da cui deve portare fuori il presidente («Il presidente di che?») per evitare una guerra nucleare. Ho reso l’idea?
“2017 2013 – La fortezza” è tutto così, un film distopico su un futuro senza speranza, un Prison movie con tutte le caratteristiche di questo sottogenere, ma anche un titolo d’azione realizzato alla grande. Un’abbondanza di materiale, idee e trovate che spesso fanno anche a pugni tra di loro nella storia e che sono sicuramente imputabili all’orgia di sceneggiatori che si sono occupati del copione, ben quattro (Troy Neighbors, Steven Feinberg, David Venable e Terry Curtis Fox). Questo spiega come mai molti personaggi sembrano avere un lungo passato che, però, viene solo accennato e altri, invece, sono degli archetipi narrativi fritti dell’olio del già visto, oppure perché ci siano personaggi assolutamente minori, con sottotrame inutilmente articolate (la ragazza nera incinta, rinchiusa nella sezione femminile del carcere), insomma ricapitoliamo: un divo che ha rinunciato, sostituito da una cernia surgelata nel ruolo del protagonista, un budget troppo basso e una sceneggiatura con troppi padri. Ci sono tutti gli ingredienti per il disastro, no? Sì, ma abbiamo la soluzione: Stuart Gordon.
Tutto il calderone di trame e sotto trame, viene elaborato dal regista di Chicago in un film di 92 minuti (durata perfetta) che passa agilmente dalla fantascienza distopica, al film carcerario a quello d’azione senza perdere un colpo. Come abbiamo già visto nel corso della rubrica, il filo rosso che unisce tutta la produzione di Gordon è la sua capacità di portare in scena l’orrore e le brutture dell’animo umano, un teatro del grottesco in cui più i personaggi sono schematici, più Gordon di puro talento sapeva come imprimere loro la scintilla della vita. Ci sarà un motivo se il nostro Stuardo era un grande amante dei “Mad doctor” in stile Frankenstein, no? Gordon sapeva come prendere la materia (cinematograficamente) morta e riportarla a nuova, grottesca e orrifica vita.
“Fortress” inizia su un ponte al confine tra Stati Uniti e Canada, la coppia di protagonisti fighi e biondi composta dal marito John Henry Brennick (Christopher Lambert) e sua moglie Karen B. Brennick (Loryn Locklin, bellissima e scomparsa in mille produzioni televisive) stanno cercando di passare il confine con un carico esplosivo. John è un ex militare che ha perso il suo plotone ed evidentemente non crede più in un sistema oppressivo che impedisce alle coppie di avere più di un figlio, a causa di una limitata disponibilità di risorse e una sovrappopolazione mondiale galoppante. Karen, invece, sotto una sorta di poncho alla Clint Eastwood indossa un giubbino in piombo che dovrebbe fregare il metal bimbo detector, perché la donna aspetta il secondo figlio della coppia che, poi, sarebbe il primo visto che il primogenito è morto dopo un aborto spontaneo, ma tu vallo a spiegare ai ciechi burocrati questo cavillo legale. Non sappiamo altro dei due protagonisti, non ci serve sapere altro per patteggiare per loro, ma come insegna “Fuga di mezzanotte” (1978) altro grande titolo che ha contribuito alla mia ansia da film carcerari, attraversare il confine non è semplice, infatti i Brennick finiscono al gabbio.
Il film è iniziato da cinque minuti e Stuart Gordon ci ha già legati mani e piedi alla sua storia, quando arriva il momento di introdurre il carcere, il film guadagna ulteriori punti, la fortezza del titolo è composta da trentatrè piani, però tutti sottoterra (a Dante Alighieri piace questo elemento), un posto dove se concepisci un secondo figlio ti becchi trentuno anni, ma se falsifichi un assegno sarai ospite per sei perché? Perché la MenTel Corporation, solita multinazionale cattiva del futuro, guadagna 27 dollari al giorno per ogni prigioniero dietro le sbarre, insomma, come in un pezzo dei System of a Down diventa subito chiaro perché i conti della MenTel non sono mai in rosso ed è un elemento della trama che viene buttato così, in un mezzo dialogo in corsa durante la storia, alla faccia degli anemici film moderni.
Fuggire dalla fortezza è impossibile non solo per la sua collocazione sotterranea, ma anche per via di una precauzione presa dalla MenTel, una simpatica sonda sparata giù in gola ai prigionieri chiamato “Fibrillatore gastrico”, la versione da bruciori di stomaco del solito collare esplosivo che ha reso grande questa tipologia di film. Se superi la linea gialla a terra, il fibrillatore va in fibrillazione e ti procura dolori lancinanti, se superi la linea rossa, la MenTel non riceverà più i suoi 27 dollari al giorno, ma fosse solo questo.
Le celle sono sovraffollate e con sbarre laser in grado di folgorarti e di notte se provi a sognare, la MenTel può controllare anche i tuoi sogni, visualizzati su un monitor e supervisionati dal viscido direttore del carcere e dalla sua fantascientifica tecnologia, il super computer senziente chiamato Zeta-10 (Zed-10 in originale) che parla con la voce della solita Carolyn Purdy-Gordon, attrice preferita e moglie del nostro Stuart. Vi avevo detto che questo film si porta dentro tanta di quella roba da poterla donare ai film meno fortunati e più scarsi di idee, no?
Già perché non può esistere un film carcerario, senza un direttore stronzo che qui è interpretato da una delle tante e notevoli facce da bastardo (e da cinema) che popolano il film. Sì, perché il direttore Poe (e nella scelta del cognome, ci vedo lo zampino di Gordon) è interpretato dal mitico Kurtwood Smith, quello che pochi anni prima aveva ammazzato Robocop e qui a sua volta è una sorta di uomo-macchina che studia la natura umana e decide che la moglie di Brennick e il suo bambino devono diventare proprietà della MenTel e poi sua. Ricapitoliamo: futuro distopico, super prigione, super computer, direttore meta-umano, il tutto il 92 minuti, come si fa a non voler bene a questa cornucopia di cinema di genere, tutto insieme, tutto così figo? Come dico io?
John Brennick è pronto ad affrontare questo inferno, solo perché sa che sua moglie è libera, ma quando scopre che anche lei è “ospite”, dovrà fare di tutto per salvarla, facendo a capocciate con un sistema oppressivo e con il resto dei carcerati, sì, perché alla pari del direttore stronzo, non può esserci un film ambientato in una prigione senza l’enorme ergastolano che vuole fare di te la sua dolce Mary che qui si chiama Maddox ed è interpretato (dopo essere stato proposto a Robert Z’Dar che si era già esibito nella specialità) dal mitico Vernon Wells, non potete mancarlo, è quello grosso con il numero 187 tatuato sulla fronte («187 sai cos’è?», «Non il tuo quoziente d’intelligenza»).
La minaccia della violenza sessuale, sta ai film carcerari come le sbarre e le guardie, non può mancare e contribuisce all’ansia, qui Brennick per puro spirito di eroismo anche in questo inferno per uomini, interviene a salvare il giovane Nino Gomez (Clifton Collins Jr.) dalle attenzioni fin troppo intime di Maddox, anche se non è proprio chiarissimo se sia arrivato in tempo o no, in ogni caso ricordo che io questa roba la guardavo comodamente sulla tv di casa in prima tv, giusto per far capire quanto siano cambiati i tempi.
Stuart Gordon senza alzare mai il piede dall’acceleratore ci fa rimbalzare da una scena mitica all’altra, la rissa quasi da gladiatori, con la passerella mobile ricoperta di sangue, tra Brennick e Maddox è un momento d’azione riuscitissimo, per altro grondante sangue come solo un regista horror saprebbe fare. Ma nel suo procedere con l’avanti veloce, anche i personaggi di contorno sono mitici e tutti assegnati all’attore giusto.
Solo tra i compagni di cella del protagonista troviamo il già citato Clifton Collins Jr. nel ruolo del ragazzo giovane da salvare, ma anche il grande Tom Towles, il suo Stiggs è il classico cattivone redento, mentre Abraham (Lincoln Kilpatrick) il vecchio ergastolano di colore che normalmente avrebbe il volto di Morgan Freeman e che ancora un po’ ci spera che rigando dritto potrebbe tornare un giorno ad essere un uomo libero. Perdonate il gioco di parole con “Freeman”, mi è venuto fuori così, non so nemmeno come.
Il più colorito della compagnia è sicuramente D-Day, nerd, sociopatico, esperto di esplosivi e soprattutto, interpretato dall’attore feticcio di Stuart Gordon ovvero Jeffrey Combs che con le sue conoscenze scientifiche trova il modo di estrarre il fibrillatore gastrico dallo stomaco dei suoi compagni (in una scena al limite del body horror, quindi tutta roba dove Gordon può sguazzare tranquillamente), ma soprattutto con i suoi occhiali a culo di bottiglia, sembra la versione da film di genere del Dustin Hoffman di “Papillon” (1973).
Il nostro Christopher Lambert in tutto questo? La sicurezza dell’immobilità. Quando per motivi di trama il suo personaggio, sfidando il sistema, finisce in uno stato di semi coma per quattro mesi, solo la barba lunga posticcia ci fa notare la differenza con la solita mono espressione di Lambert, eppure posso dirlo? Per me resta la sua prova migliore. Stuart Gordon riesce a cavare sangue anche da un branzino sotto ghiaccio come lui, un attore talmente stereotipato nel suo totale immobilismo, da essere la perfetta tela bianca per Gordon. Infatti, Lambert qui funziona alla perfezione nel ruolo dell’eroe buono buonissimo, volete la prova del nove? Guardatevi (l’inguardabile) seguito di questo film, senza Gordon alla regia si vede tutto il vuoto pneumatico a cui Lambert ci ha di norma abituati.
Potrei stare qui tutto il giorno a raccontarvi ogni scena di questo film, voi non avete idea di quante volte io l’abbia visto e ogni volta m’incolla nuovamente allo schermo, in alcuni momenti tutte le idee degli sceneggiatori fanno un po’ a pugni tra di loro, ad esempio, aver reso Kurtwood Smith immune dal sesso, elimina la minaccia di natura sessuale per la signora Brennick, ma per un elemento andato perso, la trama si gioca subito un dettaglio buttato nel mucchio, spesso non spiegato che, però, fa percepire la vastità del mondo in cui è ambientato “2013 – la fortezza”, ad esempio i droni robot con braccio mitragliatore, all’inizio sembrano solo macchina, ma quando Brennick ne uccide uno portandogli via l’arma, sotto la maschera scopriamo che sono fatti di carne fusa con l’acciaio, il che fa piombare un’ulteriore ombra sulle azioni della MenTel: da dove prendono i corpi per i loro droni da guerra? Come spettatori è facile arrivare da soli alla nostra spiegazione.
La fuga finale, per tornar a vedere le stelle (o il sole in questo caso) è la naturale conclusione di un film carcerario, ma se pensate che il parto di Vanessa Kirby in “Pieces of a Woman” (2020) sia stato complicato è solo perché non avete visto quello di Loryn Locklin qui: in un capanno messicano, con Clifton Collins Jr. a dirle di spingere, mentre Christopher Lambert spara ad un camion pilotato da remoto dalla gelosa Zeta-10, tra esplosioni, smitragliate e un urlo disperato di Brennick che io ancora oggi mi chiedo come mai non sia diventato uno dei meme più popolare su Internet.
Insomma, “2013 – La fortezza” è un film che ha saputo trasformare ogni debolezza in pregio, questo lo dobbiamo quasi esclusivamente alla mano ferma e al talento cristallino di un regista come Stuart Gordon, uno che amava così tanto il film di genere da poterne maneggiare tutti gli elementi chiave nel modo più esplosivo possibile, firmare un film diventato giustamente di culto con Arnold Schwarzenegger è più facile, provate a farlo con Christopher Lambert come protagonista!
La prossima settimana, non mancate perché arriverà un altro titolo orgogliosamente di genere. Tra sette giorni qui, sempre con il nostro Stuardo!
Sepolto in precedenza venerdì 2 aprile 2021
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