Torniamo ad occuparci della Brexit rabbia in terra d’Albione e dei suoi effetti a lunghissimo termine. Ungetevi di tintura di iodio e seguite il nostro Quinto Moro per una scampagnata tra prati verdi e mostri schifosi.
Ne è passata di acqua sotto i ponti, o se preferite di sangue sotto i denti, dall’ultima volta che i maratoneti infetti di Danny Boyle ed Alex Garland ci hanno fatto accapponare la pelle. 28 giorni dopo aveva dato nuova linfa al filone apocalisse zombi, e sebbene il sequel del 2007 avesse incassato bene, il terzo capitolo ha impiegato un’eternità a vedere la luce, soprattutto a causa dei diritti di distribuzione della saga, con la Sony (ma va?) e la Disney a litigarsi l’osso.
A non arrendersi mai è stato il fido Andrew MacDonald, produttore di fiducia di Danny Boyle, e soprattutto Alex Garland, che ci ha sempre creduto e che torna a firmare la sceneggiatura.
“28 settimane dopo” finiva con un cliffhanger niente male: l’infezione si preparava a devastare Parigi, l’Europa, il mondo. Solo che nel frattempo di film e serie tv a tema apocalisse zombi ne abbiamo avute in abbondanza, così “28 anni dopo” invece di buttarla sul già visto del post-apocalisse globale, fa un passo indietro. Si ritorna alle origini, all’idea della Gran Bretagna abbandonata a se stessa del primo film: un’isola in quarantena, lasciata a morire mentre il mondo è andato avanti. Il che mantiene l’identità tutta britannica della saga, non solo per location ma anche per tematiche e spirito.
In breve: il film merita d’essere visto in sala, ha parecchie frecce al suo arco – non è solo una metafora. E’ cruento al punto giusto, visivamente interessante, non banale per sviluppo e temi. Ma è pure parecchio strano, dopo una sola visione a caldo è difficile giudicarlo. Da fan della saga (e di Danny Boyle) me lo sono goduto, con qualche riserva, perché è pericolosamente vicino alla struttura narrativa di una serie tv.
Aver visto i primi due non è obbligatorio ma caldamente consigliato. Più che il terzo capitolo di una saga vecchia di vent’anni, questo nasce come primo di una nuova trilogia. Sento sempre puzza di bruciato in queste operazioni già al lancio del capitolo uno, e infatti il film non è immune dai brutti vizi di tutte le operazioni del genere, con personaggi introdotti e abbandonati, cose lasciate in sospeso perché poi si vedrà, e un finale che grida forte: «Hey! Devi vedere il prossimo episodio!»
Danny Boyle parte subito con qualcosa di terrificante: una puntata dei Teletubbies in tv. Dando per spacciati i bimbi davanti allo schermo – cerebralmente morti – slega gli infetti perché gli diano una morte dignitosa, e ci ricorda subito perché questa saga è mancata tanto: schizzi di sangue à gogò, zie, mamme e preti che vomitano sangue, il tutto nei primi cinque minuti. L’incipit ricorda il film del 2007, pur senza la stessa carica emotiva, ed ha l’unica funzione di introdurre un personaggio che ritroveremo soltanto nel finale. Non è un problema, ma è una forzatura per dirci che c’è tanto ancora da scoprire in questo mondo a rotoli, e gli sviluppi da venire si annunciano interessanti. Il sequel me l’hanno già venduto, perciò missione compiuta, ruffiani maledetti.
I protagonisti li incontriamo 28 anni dopo lo scoppio dell’epidemia, mentre tirano a campare in perenne quarantena, collegati da un istmo alla “terraferma” – cioè la Gran Bretagna, vabbé – da cui traggono parte delle risorse sfidando i pericoli dell’infezione sopravvissuta negli anni. Ricordiamoci che questi non sono zombi, sono umani pazzi furiosi che vivono allo stato brado e che ora si riproducono alla vecchia maniera, non solo spruzzando sangue in faccia alla gente.
La storia inizia col rito di passaggio del giovane Spike – un convincente Alfie Williams – figlio di sopravvissuti, alle prese con la prima scampagnata in terra infetta a fare pratica di uccisioni, armato di arco e frecce sotto la supervisione di papà Aaron Taylor-Johnson.
Quando si tratta di splatterare Boyle non tira via la mano. Gli ammazzamenti abbondano soprattutto nella prima parte, quella più tesa e solida, ma anche più canonica nello svolgimento dell’azione. Il fido Jon Harris al montaggio mette insieme le millemila inquadrature di Boyle, ed è pazzesco che riesca a farle funzionare tutte senza rendere le scene caotiche. C’è anche spazio per un po’ di sperimentazione, inquadrature schizofreniche e un po’ stranianti (però fighe), con una tecnica tanto chiacchierata per l’impiego massiccio di una nota marca di smartphone (di cui non faremo il nome perché non ci pagano), ma che in fin dei conti è rubata al primo Matrix.
L’infezione che muta e crea varianti degli infetti ormai l’abbiamo vista dappertutto, in troppi videogiochi e serie tv, ma è apprezzabile come sono stati realizzati i nuovi infetti: luridissimi e rigorosamente nudi, alcuni striscianti, altri scattisti come da tradizione, e poi ci sono gli ipertrofici maschi Alfa, che non fanno tanto paura per le teste staccate con annessa spina dorsale (Yautja style) quanto per il minaccioso batocchio svolazzante.
Come in ogni film della saga, il contesto dell’infezione serve ad esplorare vicende umane più viscerali, i dubbi e le tensioni in un piccolo contesto familiare, con una spruzzata di sottotesto politico. C’è chi vuole vederci a tutti i costi una critica alla Brexit, ma siamo sicuri sia negativa? No perché al netto del wellfare carente (ma è così dai tempi della Thatcher) i sopravvissuti britannici se la passano bene dietro le loro mura, e la “terraferma” è piena di appestati schifosi. L’anima vera del film sta nelle ansie del giovane Spike, il rapporto col padre e la condizione della madre. E comunque sì, i metaforoni abbondano se la mamma malata si chiama Isla e la speranza risiede oltre i confini di un mondo chiuso. Per non parlare della neonata, un metaforone vivente.
Il film mette tanta carne al fuoco – letteralmente – a tratti in modo confuso, con cambi di ritmo e situazioni a volte forzate, l’infetto Alfa lasciato vivere e che poi vuol riprendersi la figlia mi ha acceso brutti ricordi. Se la prima parte è solida e coerente, la seconda pasticcia chiedendo allo spettatore una sospensione dell’incredulità sempre maggiore.
Sopravvissuto per miracolo alla prima spedizione, il giovane Spike si scopre eroe senza macchia per accompagnare la mamma malata in territorio infetto, alla ricerca del dottore che possa curarla, e della cui esistenza non è nemmeno sicuro (per essere eroe devi essere molto ottimista e un poco imbecille).
Oh, non è per fare il cinico, il modo in cui si conclude questa parte della storia, con l’entrata in scena di Ralph Fiennes e il tempio d’ossa, ha una bella carica emotiva e una sua profondità. Anzi, è la sola cosa che salva il film dal declino e dai troppi compromessi per mettere insieme questo romanzo di formazione che sembra scritto spuntando la lista delle cose da fare: scoperta dei pericoli del mondo, messa in discussione della figura paterna, disillusione e viaggio della speranza, comprensione della morte ad un livello più profondo, voglia d’indipendenza. Che va benissimo eh, non capita spesso di vederlo in un horror, ma un po’ meno didascalico, no?
La seconda parte va in ordine sparso: Boyle ci tiene un sacco a resuscitare il Sycamore Gap Tree e fa andare a zonzo Spike apposta per farcelo vedere due o tre volte. La scampagnata madre-figlio cozza con l’aura di pericolo incombente della prima parte. Aaron Taylor-Johnson sparisce a metà film e non ne sentiremo la mancanza. Spuntano militari dal nulla per una svolta di trama che invece non è. Un’infetta partorisce una bambina sana (vabbé). La mamma di Spike vaneggia, e devo dirlo: Jodie Comer è più convincente come svampita malaticcia che come personaggio lucido, nelle fasi più intime e drammatiche tra madre e figlio era lecito aspettarsi di più. Quando arriva Ralph Fiennes – che dovunque lo metti funziona – c’è la svolta filosofica della trama, che un po’ stranisce ma di fatto salva il film.
Ci vediamo tra 28 settimane per l’annunciata parte 2: “Il tempio delle ossa”. Vi lascio con una menzione doverosa per la colonna sonora degli Young Fathers, molto nello stile dei film di Boyle, ma centellinata e poco invasiva. Il brano finale è una figata, di quelli che ti fanno stare a guardare i titoli di coda e lasciar sedimentare la visione.
28 Cassidy dopo – Un parere non richiesto e rafforzativo a supporto
Con Alex Garland ho un rapporto complesso, non sempre apprezzo tutto quello che scrive o dirige, anzi (primo estratto). Però è sicuramente un autore che sa guardarsi intorno, spesso con sguardo non proprio ottimista, anzi (secondo estratto).
Il copione di “Non lasciarmi” (2010), in parte il suo Dredd e sicuro Ex Machina, Annientamento e Men guardavano con non poca preoccupazione al presente o al massimo, ad un futuro che potrebbe essere se non mercoledì prossimo, al più tardi quello successivo. Con Civil War (e il suo fratellino minore “Warfare”) Garland ha cominciato a riflettere sul presente in maniera più spiccata, o forse semplicemente i nostri brutti tempi moderni si sono fatti avanti, sembra più vicini alla scrivania dell’autore, sta di fatto che il discorso continua anche con “28 anni dopo”, senza girarci attorno, uno dei titoli più attesi dell’anno, tanto che si è discusso fin troppo in rete se quello smilzo infetto era davvero Cillian Murphy. Non sono proprio passati ventotto anni dal primo capitolo, il capostipite 28 giorni dopo, ma in questi ventitré anni, la popolarità di Garland è cresciuta e quella di Danny Boyle leggermente diminuita o per lo meno, si è mantenuta.
Come ha ben spiegato Quinto Moro, questo “28 anni dopo” è il romanzo di formazione di Spike, in un mondo dove non esiste più innocenza e probabilmente nemmeno speranza, in questo senso il dottor Kelson (un Ralph Fiennes in una prova sciamanica) sembra una sorta di colonnello Kurtz, testimone di un’umanità che si è persa nel cuore di tenebra ben rappresentato dalla storia, in tutto questo memento mori emerge l’importanza dei legami, contrapposto al memento amoris.
Quello che ho amato di “28 anni dopo” è stata la prima parte, spiazzante nei confronti delle aspettative del pubblico, una versione cinica e malvagia di The Walking Dead che infatti, mi ha ricordato “Crossed” versione cento anni nel futuro di Alan Moore. Un’opera con echi politici, l’isolazionismo inglese ha echi della Brexit e 28 23 anni dopo il capostipite, siamo decisamente tutti più preparati su concetti come pandemia, post-pandemia e rabbia che essa si porta dietro, anche la scelta della poesia “Boots” di Kipling, già ossessiva di suo nella versione realizzata nel 1915 da Taylor Holmes e utilizzata da Danny Boyle, si porta nella pancia elementi di critica politica: il regista voleva usare originariamente il discorso del giorno di San Crispino dell’Enrico V, per sottolineare il patriottismo britannico nel resistere agli invasori, poi ha scoperto che la registrazione di questa poesia viene usata dai Navy Seals nel corso delle procedure di addestramento per resistere alla tortura, in loop a volume altissimo per sei ore, per sottoporre le persone allo stress di una vera procedura di tortura (storia vera).
Quello che ho apprezzato di meno del film è il solito problema Garland, ad un certo punto tutto quello che prima era solo evocato, diventa spiegone, va illustrato, cosa che succede nella seconda parte del film, anche se come detto, in questi ventritré anni sembra che in troppi si siano dimenticati di Danny Boyle, che è sempre stato una costante, anche qui grazie ad uno stile visivo che riesce ad essere acido, documentaristico e a tratti lisergico, tutto insieme, tanto da ricordami a volte “Sunshine” (2007), chi lo aveva scritto quello? Ah ok, ora mi è tutto chiaro.
Se deve essere l’inizio di una nuova trilogia questo film è il bentornato messo su da Boyle e Garland al mondo post-pandemia, non tanto coraggioso, che hanno creato un po’ meno di ventotto anni fa e che somiglia sempre di più al nostro. E non sono passati nemmeno ventotto anni.
We’re foot—slog—slog—slog—sloggin’ over Africa
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(Boots—boots—boots—boots—movin’ up and down again!)
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