Zerocalcare sosteneva che l’invasione di Zombie, è l’unico evento per cui l’umanità si è preparata prima nell’immaginario che nella realtà. Alla Bara Volante infatti non abbiamo paura nemmeno delle psicosi di massa scappate di mano di questi giorni, perché abbiamo visto tutti i film giusti, come quello che oggi ci racconta Quinto Moro.
A volte ritornano
Lo so che questi non sono zombi, ma parlerò ugualmente del filone zombi, soprattutto di Romero e dei suoi film. Perché sì.
Era il lontano 2002, un bizzarro tipo inglese con un certo gusto per il grottesco e gli schizzi di sangue pensò di dare nuova non-vita ai non-morti. I tempi erano cambiati dal regno di Romero, il filone zombi sembrava dissanguato a sufficienza e ormai (non)morto e sepolto. Ci voleva un punto di vista originale per dare verve a nuove orde di corpi macilenti. Anche se quelli di “28 giorni dopo” non sono zombi, hanno contribuito a rilanciare con prepotenza il genere, restituendogli un pizzico della vecchia critica sociale.
Qui il contagio non è quello lento e sonnacchioso di romeriana memoria, ma rapido, istantaneo. Gli zombi di Romero nascevano sull’onda lunga delle paranoie americane post-belliche, rivelando tutte le magagne interne della società, per poi affinarsi in una critica sociale sempre più forte, in cui i veri zombi eravamo noi.
“28 giorni dopo” non è un film politico, o almeno non sembrava alla sua uscita, ma inquadrato nei cambiamenti dell’ultimo ventennio fa un altro effetto. La sceneggiatura è di Alex Garland, uno che a partire da questo film è andato via via raccontando diverse tonalità di sfacelo dell’umanità, da Sunshine (sempre con Boyle), al sequel “28 settimane dopo” per poi affermarsi con Ex Machina (e fermarsi con Annientamento). I suoi infetti non sono apatici e ciondolanti ma veloci e aggressivi, schizofrenici, e chi meglio di un regista dotato di stile ed estetica schizofreniche per raccontarli?
Molti guardarono con scetticismo ai non-morti isterici di Boyle e Garland. Lo stesso Romero disse di “non essere spaventato dalle cose che mi corrono incontro”, anche se in quel caso si riferiva al remake di Dawn of the dead diretto da Zack Snyder. Zack non ha mai inventato niente ma aveva capito che quello era il futuro del genere zombesco. Non è un caso se dopo il film di Boyle i non morti siano tornati ad uscire dalle fottute pareti, rimodellando l’immaginario attraverso tutti i media. Anche se Robert Kirkman lavorava già da tempo a The Walking Dead, fumetto dal 2003 e serie tv dal 2010, è innegabile che il film di Boyle abbia preparato il terreno, contaminando sempre più l’immaginario anche attraverso i videogiochi (il primo Left 4 Dead su tutti, 2008).
La primissima scena, quella del caos per le strade, mi ha sempre mandato fuori di testa per quanto sia geniale: sembra di trovarsi già nel mezzo dell’apocalisse, invece sono scene di ordinaria follia umana. Poi passano 28 giorni, e quelle prime inquadrature sono una descrizione verosimile di quanto è successo con l’epidemia.
L’infezione è una forma della rabbia simile all’ebola. Per rendere più credibile la furia rabbica degli infetti non vennero ingaggiate semplici comparse ma veri e propri atleti. Le loro movenze a scatti, gli occhi rossi e i grugniti li rendono caratteristici, schifosi e seriamente minacciosi, anche perché il nostro manipolo di sopravvissuti non se ne va in giro armato sino ai denti. Ci si arrangia con bastoni, machete e molotov. Anche perché se non lo sapete, nel Regno Unito l’acquisto delle armi è proibito per legge (ma si ammazzano allegramente come e più del resto d’Europa, storia vera).
In Texas, 28 giorni dopo un’epidemia del genere avremmo assistito a grasse risate e racconti splatter intorno ad un barbecue, con abbondanza di birra, hamburger e T-shirt ricordo con la scritta “I survived rabid idiots”.
Una separazione
Per tutta la prima parte non si vede una pistola o un fucile. Il che serve a rendere più forte il pericolo per questi quattro sfigati inseguiti dagli infetti assatanati. Armi a parte, il protagonista Jim non ha certo l’aspetto dell’eroe. Doveva interpretarlo il quasi-attore feticcio di Boyle, Ewan McGregor, che però era rimasto offeso per il mancato ruolo in “The Beach”, e non volle lavorare con Danny per diversi anni (storia vera), sino a Trainspotting 2.
Mi immagino così la telefonata della separazione:
Danny: “Hey Ewan, ti ricordi quella vacanza tropicale di cui ti avevo parlato?”
Ewan: “Ah sì, per quel film, The Beach? Non vedo l’ora, mi ci vuole un po’ di sole. Ti ricordi com’ero ridotto in Trainspotting? Non te l’ho mai detto ma non era vero che passavo dal trucco per farmi impallidire, ero proprio così”
Danny: “Oh beh… ah-ehm… c’è sempre chi sta peggio…”
Ewan: “Ma hai visto com’ero nel primo Star Wars? Sembravo una mozzarella aliena. C’è mancato poco che George Lucas mi scurisse la faccia in CGI, chi può stare peggio?
Danny: “Ma… non so… Leo DiCaprio per esempio”
Ewan: “Quello di Titanic? Ma se è diventato una fottuta star?”
Danny: “Sì, ma ti ricordi come finiva no? Lui congelato, aveva un color cera… anche a lui farebbe bene un po’ di sole”
Ewan: “Cosa cerchi di dirmi?”
Danny: “Beh, quelli del marketing pensavano a vendere il film tipo un sequel di Titanic, qualcosa come “il risveglio di Jack”. Pensa: DiCaprio ancora congelato, trasportato dalle mareggiate su quest’isola che sembra un paradiso, si scongela e si leva la maglietta bagnata. Le ragazzine sverranno entro i primi dieci minuti, torneranno a vedere il film dieci volte e tempo un mese gli pisciamo in testa agli incassi di Cameron. Solo che, tu capisci, per fare questa cosa ci vuole DiCaprio”
Ewan: “Per te mi sono vestito da donna, mi sono fatto investire da una macchina, ho ficcato mani e testa dentro un cesso, e in spiaggia porti DiCaprio?”
Danny: “Ma il nostro prossimo film insieme sarà anche meglio vedrai! Un’apocalisse sull’Inghilterra, cupa e drammatica”
Ewan: “Sono scozzese, me ne sbatto dell’Inghilterra!”
Danny: “Appunto, vedrai come la ridurremo! Ti muoverai in una Londra lercia e schifosa, gireremo sommersi dai cadaveri, spargeremo topi morti qua e là, la puzza sarà vera, faremo vomitare la crew e pure la gente in sala. Nella tua scena più drammatica ti vomiteranno in faccia litri di sangue infetto e… Ewan, ci sei ancora? Ewan?”
“Tuut…tuut…tuut…”
28 mesi dopo questa conversazione, venne preso in considerazione per il ruolo di Jim pure Ryan Gosling, che avendo una sola espressione per mostrare interesse o disinteresse, lasciò la produzione nel dubbio e infine costretta a ripiegare su Cillian Murphy. Un ottimo ripiego per fortuna.
Segnali dal futuro
Boyle è uno che sa leggere la società, guarda lontano e alla distanza ci vede piuttosto bene. Me lo immagino chiuso in un alveare di tv a tubo catodico, ciascuna sintonizzata su un canale diverso alla maniera di Ozymandias, o come la scimmia all’inizio del film.
“28 giorni dopo” più che un horror, è un film ambientato nel futuro. Che poi sarebbe il nostro presente. Inizia così: una banda di estremisti animalisti penetra in un centro di ricerca e per liberare un branco di scimmie, nel disperato tentativo di impedire lo sviluppo di un vaccino per il coronavirus che potrebbe rendere autistici – o peggio ancora europeisti – l’1% dei futuri figli del Regno Unito. E siccome i buoni vincono, i cattivi perdono e l’Inghilterra domina, una delle scimmie infettata da una particolare forma di rabbia (nota come Ukip), morde l’eroico liberatore di primati, che inizia a spruzzare sangue da tutti gli orifizi.
Vomitando rabbia e sangue in faccia al prossimo, l’infetto inizia a trasferire il proprio sangue puro 100% britannico ai suoi compagni, sputazzandoglielo in faccia. Il contagio è immediato e si sparge a macchia d’olio. Chi è infetto diventa istantaneamente un hooligan assatanato, anche il più radical chic smette di perdersi in chiacchiere e inizia ad esprimersi con mascolini grugniti.
Ignaro dell’imminente apocalisse Jim, un 28enne stanco della vita da rider precario, si fa investire da un’auto per smettere di lavorare e possibilmente far causa al suo capo, o restare parzialmente invalido così da vivere di assistenza sociale. Trascorre così 28 giorni in ospedale pagato dagli onesti contribuenti britannici, cui ha pure fregato il letto col tempismo dei veri arrampicatori sociali, essendosi fatto trovare in coma mentre l’infezione si diffondeva.
Jim si ritrova ad attraversare una Londra deserta in piena post-Brexit, con gli europei scomparsi dalla City e tutti a chiedersi dove siano finiti: volantini, messaggi disperati e foto affollano le bacheche improvvisate agli angoli delle strade. Ma gli europei se ne sono andati. Nessuno raccoglie più le cartacce per strada, serve più ai tavoli né lava i piatti nei ristoranti. Chi è rimasto è stato contagiato e trasformato in un rabbioso come tutti gli altri inglesi.
Mentre Jim ciondola con una busta di plastica, sporco e trasandato come un barbone, dopo aver rifiutato di convertirsi all’anglicanesimo viene inseguito da londinesi sbavanti, desiderosi di vomitargli in faccia il loro sangue e trasformarlo in uno di loro.
Jim s’imbatte in Mark e Selena, una coppia non sposata che vive nel peccato e nella dipendenza da snack ed energy drink dei distributori automatici. Mark è un hipster come Jim, soltanto più biondo e muscoloso, mentre la Selena, nera dunque immigrata e spacciatrice di sostanze stupefacenti, è pure irrispettosa delle gerarchie sessuali. Infatti non esita ad usare il suo arnese per impalare il compagno, non appena lei sospetta che abbia votato per la Brexit.
Jim, col fisico smorto e la faccia artritica di Cillian Murphy, ciondola e si sforza di correre giusto per scappare, lasciando a Selena (una cazzutissima Naomie Harris) il lavoro da uomini.
Contagion
Battute mordaci a parte, “28 giorni dopo” era davvero avanti sui tempi, non solo perché è stato uno dei primi film girati quasi interamente in digitale. È invecchiato bene perché ha letto e sfruttato le paranoie del nuovo millennio. Se uscisse nei cinema domani nessuno noterebbe la differenza, e darebbe ancora lezioni su come omaggiare il filone zombi senza eccessive strizzate d’occhio. È un film per tutte le stagioni, per tutte le epidemie. Pensate agli isterismi di massa per l’influenza aviaria, l’ebola, il Coronavirus, o della prossima brutta malattia che minacci il nostro mondo asettico.
Le epidemie sono una delle grandi paranoie del nostro tempo. Dovendo dare una brutta lettura sociologica (o sociopatica), se la paura ai tempi di Romero era quella di diventare zombi ciondolanti senza cervello, diventando una massa informe di consumatori rincoglioniti senza identità, oggi si ha paura di ammalarsi tanto da trasformare i vaccini stessi nello spettro di un’infezione indotta da occulti poteri forti. Forse dai tempi di Zio George non ci siamo evoluti granché.
La società moderna è veloce e non teme la morte, ma la malattia, che poi è la perdita del proprio benessere, delle comodità: la mancanza dell’acqua corrente, del buon cibo, idee semplici poco esplorate da Romero. Boyle e Garland parlano più alla pancia che al cuore. Persino il rapporto con le donne è trattato diversamente.
Zombi, donne e conservatori impauriti
Ok, chiamatemi Facciadicuoio, perché queste sono motoseghe mentali. Ma pensate: in “Dawn of the dead”, portare avanti una gravidanza era un problema etico. Certo, il mondo stava finendo eccetera, ma nel mondo reale cresceva la discussione sull’aborto. Dawn of the dead esce nel 1978. La legge sull’aborto in Italia è del 1978. Una donna che deve decidere se abortire trascende il contesto apocalittico.
Nel 1985, con “Day of the dead” Romero racconta una società maschilista e militarfascista per cui la donna di turno è solo una preda sessuale, un oggetto. Di contro, c’era spazio per l’idea di ricominciare e ripopolare il mondo con un messaggio positivo, di speranza.
Nel 2002 di “28 giorni dopo”, le donne vanno a subire la nuova paranoia europea, nata col nuovo millennio ed oggi è più forte che mai: l’assenza di futuro per il calo delle nascite. Siamo sempre più abituati a sentire che crescono le morti e calano le nascite. Nel film il concetto è portato all’estremo (come in “The Handmaid’s Tale” ma senza i suoi eccessi di scrittura).
Le paranoie romeriane e quelle di Boyle/Garland sono differenti. Romero guarda alla riflessione personale della donna e della coppia, con gli zombi sullo sfondo a fare da metafora delle difficoltà di crescere un figlio in un mondo incasinato e ostile. Boyle e Garland intercettano le paure sulla sopravvivenza della specie, che poi è un paradosso in un mondo sovrappopolato. Ma i militari di “28 giorni dopo” sono uomini spaventati da una società senza futuro (la loro), che deve appellarsi ad una visione conservatrice: le donne non sono solo oggetto sessuale ma àncora di salvezza forzata per una società che non ha più figli. La donna oggetto da inseminare per la conservazione della propria identità, per placare le inquietudini di chi non riesce a vedere altro futuro, di chi non vede altro che il suo piccolo mondo che crolla.
L’idea più brillante la spara l’unico soldato che ragiona col cervello e non con la pistola (o il pistolino): l’apocalisse non è totale, nonostante tutti i drammi il mondo non è finito, perché là fuori gli aerei volano ancora, e c’è vita e società da qualche altra parte. C’è tutto un mondo al di fuori dell’Inghilterra decadente. Rivoltate quest’idea come un calzino, applicatela ai temi della natalità e/o dell’immigrazione e ci troverete tutte le contraddizioni e paure dell’Occidente.
Oh, magari sono solo io a vederla così, ma penso a com’è cambiato il mondo in questi anni, a come certi temi fossero là, latenti ed oggi più vivi: dagli ecoterroristi che scatenano l’apocalisse fregandosene dei rischi per mancanza di fiducia nella scienza, alla frenesia dei nuovi zombi famelici, alla paura del contagio e di estinguersi per mancanza di nascite, con la ribalta di vecchie idee conservatrici.
Uscisse oggi, sarebbe perfettamente inserito nel filone post #metoo. Tanto la volitiva Selena quanto la giovane Hannah farebbero sfigurare molte eroine preconfezionate e toste per forza. Selena è un personaggio fortissimo, le basta una frase per smontare tutti i cliché del filone apocalittico: “vuoi che troviamo una cura e salviamo il mondo o che ci innamoriamo e scopiamo?”
È una sopravvissuta pura, mantiene sempre l’iniziativa, ma non è invincibile né è in grado di affrontare il nemico da sola. Hannah benché ragazzina dimostra con poche battute di avere personalità.
Jim è un ragazzo comune, stordito dagli eventi, perciò ogni altro personaggio sembra sovrastarlo, almeno sino al finale. Il padre di Hannah è il gigante buono Brendan Gleeson. Il Governatore capo militare ha la faccia rassicurante di Christopher Eccleston, ma sfaccettato quanto basta per non risultare una macchietta.
Non sto nemmeno a fare le pulci sulle similitudini tra il film e la trama, gli eventi e i personaggi di The Walking Dead. Che non è una critica ai camminamorti, ma semplicemente la serie propone schemi e temi coerenti col postapocalittico e il tema zombi, ma con tempi dilatati all’eccesso, mentre il film di Boyle condensava tutto in meno di due ore.
Né Jim né Selena sono eroi classici: la prima non esiterebbe a lasciare indietro gli altri, lui non lo farebbe mai. Ma se durante il viaggio vediamo Selena cambiare atteggiamento, Jim ha semplicemente l’occasione di dimostrare con le azioni il suo modo di essere. Jim è un cane di paglia, ma alla Dustin Hoffman, messo alle strette diventa una specie di Roy Batty che gioca coi soldati come il gatto col topo (o con l’infetto).
Un’apocalisse finita male
Con i se e con i ma la storia non si fa (cit.) e non si dovrebbe parlare di quel che non finisce nel montaggio finale. Però porca vacca infetta. Io non l’ho mai digerito il finale. [SPOILER] Se l’happy ending sembra posticcio e fuori contesto, è proprio perché è stato girato in un secondo momento, e malvolentieri dallo stesso Boyle. La produzione pensava che il film venisse accolto male perché troppo cupo. Peccato che il finale originale fosse una bomba, sia per la carica emotiva e la bravura delle attrici, che per la chiusura della vicenda di Jim. Boyle anziché imporre la volontà di autore – come avrebbe dovuto essere – ha accettato i condizionamenti della produzione a causa dei test screening. Negli anni ’90 o nel post #metoo poteva andare diversamente (vedi il finale di “A quiet place”), ma nel mondo scosso dall’11 settembre 2001 non c’era voglia di veder morire gli eroi. Così ci siamo beccati il finale filo-militarista col caccia bombardiere che va al salvataggio delle fanciulle. Tra l’altro Jim avrebbe dovuto morire in ogni versione alternativa, ma non nel montaggio definitivo! È un paradosso: sarebbe stato un film migliore se fosse finito “male”. E per finire meglio, è finito peggio. [FINE SPOILER]
A Boyle la cosa doveva rodere, tanto che grazie al buon successo commerciale, in un’epoca in cui le scene post credit non erano ancora di moda, a distribuzione inoltrata venne aggiunto ai titoli di coda anche il finale alternativo, con la tagline “…what if”. E siccome qui alla Bara siamo sovversivi il vero finale ve lo spariamo qua sotto:
“What do we gonna do now?” – “We move”. Non hanno solo tolto a Naomie Harris una delle migliori scene, ma hanno tolto alla storia del cinema due final girl d’annata. Non tutte le ciambelle del #metoo sono uscite col buco, ma mi piace pensare che un finale del genere oggigiorno non sarebbe stato scartato in favore di quella schifezza buttata lì.
Certo non è l’unico difetto, ci sono incongruenze sparse, con alcune scelte di montaggio non brillantissime ma lo stile di Boyle è anche questo: scene messe insieme per correre verso il finale, e a me sta pure bene così perché l’atmosfera e il ritmo vincono su tutto il resto. È il tipico film che oggi sarebbe un prodotto Netflix di media fascia, ma all’epoca aveva detto la sua (e ha ancora da dire). In poco più di un’ora e mezza è riuscito a mettere dentro tutti gli elementi di un’apocalisse zombi. Ma senza gli zombi.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI. Vi ricordo anche i post di Doppiaggi Italioti dedicati all’adattamento del film, e al suo formato in Blu-Ray.
Sepolto in precedenza mercoledì 26 febbraio 2020
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