La prima volta che abbiamo parlato della saga dei “28 qualcosa dopo”, nel tempo di uno starnuto ci siamo trovati chiusi in casa con una pandemia mondiale. Stavolta non potrà andar peggio, no? Vi lascio nelle mani sporche di sangue del nostro virologo di fiducia Burioni Quinto Moro.
Il 2007 è stato un buon anno per gli zombi, con tre uscite di tutto rispetto: dal mai abbastanza celebrato Diary of the dead di Romero, al primo capitolo della fortunata saga REC° fino a questo sequel di 28 giorni dopo. Ma se il film di Danny Boyle è ricordato per aver rivitalizzato il genere coi suoi zombi-che-non-sono-zombi centometristi e sbrodolanti sangue da ogni orifizio, “28 settimane dopo” viene ricordato per, beh, non viene ricordato abbastanza. Eppure il suo incasso all’epoca lo fece, pur senza scalfire i primati del film di Boyle, ma resta un horror efficace, con sequenze tesissime e a tratti splatteroso. Qualche difetto ce l’ha, ma avercene di sequel così, ed è un mistero che per arrivare al terzo capitolo di anni ne siano passati quasi 28. Avvertenza: ci saranno SPOILER qua e là.
Potreste non aver mai visto un horror e trovarvi coinvolti sin dalla prima scena in questo mondo a scatafascio invaso da matti che vomitano sangue, sbraitano e mordono a vista, trasformando a loro volta gli assaggiati in famelici assaggiatori di carne umana.
Danny Boyle e Alex Garland, i papà del primo film, erano lanciati verso il sole come Icaro nello sfortunato “Sunshine”, uscito nello stesso anno. Qui in mera veste di produttori esecutivi garantivano un minimo di continuità e la credibilità necessaria ad un upgrade del budget. Del reale impatto di Alex Garland è difficile sapere, visto che la sceneggiatura è un mostro a otto zampe sfornato dallo stesso Fresnadillo e soci, e la presenza di troppi sceneggiatori non è mai un buon segno. Il film non brilla per la scrittura in sé, non per i dialoghi o le dinamiche degli eventi, ma sotto la crosta di sangue rappreso e sporcizia c’è qualcosa di interessante.
Boyle s’era ormai fatto un nome e poteva spendere un po’ del credito acquisito fin lì, affidando la regia alle mani (in)esperte di Juan Carlos Fresnadillo, sconosciuto di belle speranze che sarebbe poi rimasto tale, nonostante il discreto lavoro fatto qui. Lo spagnolo comunque se l’è giocata bene, anche se non benissimo nell’uso della shaky-cam (vera epidemia dei primi anni 2000, del paziente zero Paul Greengrass abbiamo già parlato) e quando riesplode l’infezione la mattanza è troppo confusa per risultare coinvolgente, ma nel complesso Fresnadillo sforna ottime sequenze cariche di tensione e un ottimo senso dell’azione. Il buon montaggio del veterano John Harris limita i danni e ci accompagna in una cavalcata di 90 minuti netti in cui succede veramente di tutto. Cambi di scenario e di ritmo, fughe per i prati inglesi, guerriglia urbana, ansiogene sequenze in metropolitana. Sembra la sintesi di un’intera serie tv a tema, ma senza i tempi morti.
I primi dieci minuti sono pura dinamite e varrebbero da soli la visione. In poche battute, senza spiegoni, veniamo buttati nel post-apocalisse con un approccio più brutale e diretto rispetto al primo film, la cui visione non è necessaria per godersi questo sequel (ma a guardarlo vi fate un favore).
I titoli di testa riassumono l’accaduto delle 28 settimane precedenti: l’epidemia ha fatto il suo corso, tutti gli infetti sono morti e l’Inghilterra sta ripartendo da una ZONA SICURA (risate da sit-com in sottofondo), sotto la sorveglianza del venerabile esercito americano.
Se nel primo film i militari inglesi avevano un ruolo sinistro, nel 2007 con la guerra in Iraq in pieno svolgimento gli americani in mimetica non potevano che fare la parte dei guardiani di pace e giustizia (altra risata). Ma questi sono militari della scuola cameroniana, convinti di avere tutto sotto controllo e destinati a farsi prendere a calci nelle palle, oltre che a fare la cosa sbagliata in tutti i modi possibili.
Non sarà una fine satira anti militarista ma non è un caso se i “buoni” finiscono per essere i disertori. Se gli eventi – forzatissimi – che riportano a galla l’epidemia sono da guinness dei primati della sfiga e dell’incompetenza, la vera ciccia sta nel concetto della cosa giusta da fare quando tutto precipita, proprio com’era stato nell’incipit del film.
Il cast militare si gioca le facce giuste e all’epoca poco conosciute, da Rose Byrne ufficiale medico a Idris Elba nell’ingrato ruolo del capoccia militare monoespressivo e ottuso come un, beh, un capoccia militare. Si fa notare Jeremy Renner, cecchino prototipo dell’Occhio di Falco che sarà per la Marvel, quello che vorrebbe solo fare la cosa giusta e quantomeno ci risparmia la frase che chiunque si aspetterebbe, il “non mi sono arruolato per questo” che per fortuna non pronuncia.
Al netto dell’ottimo lavoro fatto sul Don di Robert Carlyle, gli altri personaggi sono abbozzati e c’è un continuo passaggio di testimone da un protagonista all’altro, banalmente perché crepano nei peggiori modi possibili, a scapito degli unici di cui ci frega meno in assoluto: i figli di Don, tipici ragazzini pronti a cacciarsi nei guai, e per cui non ci viene mai voglia di parteggiare. Passi Imogen Poots, che le sue carte se le gioca bene, ma non quella disgrazia vivente del fratellino, uno che dopo l’apocalisse in Inghilterra torna in patria sfoggiando la maglia del Real Madrid, andava bloccato alla dogana per principio.
Da appassionato degli schizzi di sangue, non ho mai digerito l’uso troppo allegro che ne viene fatto in questo film, considerato che il sangue è il vettore principale d’infezione ci sono davvero troppe situazioni che mettono alla prova la sospensione dell’incredulità. Però ho apprezzato che senza spiegoni sia reso più chiaro l’effetto del virus, anche rispetto al primo film dove la confusione era amplificata dall’uso nostrano del termine “rabbia”. Come spiegato a suo tempo da Doppiaggi Italioti, quelli della saga dei “28 giorni-settimane-mesi-anni-secoli dopo” non sono zombi anzitutto perché non sono morti, ma solo infetti. Infetti incazzati neri, tipo hooligan reduci da una maratona di bevute al Miglio Dorato, dopo l’ennesima sconfitta calcistica contro quei popoli latini che pensavano d’aver cacciato da Albione con la Brexit. Corrono come se volessero pestare i tifosi avversari. E’ quel tipo di rabbia lì, non quella canina.
Robert Carlyle si mangia la scena – e non solo quella. Il suo Don Harris è un personaggio autentico, rarità nel panorama horror, di cui infrange praticamente ogni convenzione. Rifugiatosi con la Signora Harris e pochi altri sopravvissuti in un fragilissimo rifugio di campagna (stile casa dei tre porcellini), si comporta come farebbe una persona normale in una crisi. Don non è l’eroe tutto d’un pezzo, è spaventato, lotta finché può ma in preda al panico si lascia la moglie alle spalle e al minuto cinque ci siamo beccati la prima mazzata, ma non l’ultima, perché ‘sto film è un viaggio nel pessimismo cosmico.
Eppure Don è l’unico a reagire quando gli infetti sfondano le finestre, cerca di salvare sua moglie, cerca di salvare il tizio sulla barca, cerca di dire la verità ai suoi figli. Carlyle fa trasparire la paura e la disperazione, si porta addosso la vergogna del sopravvissuto. E’ anche tramite lui che capiamo meglio gli effetti del virus, il significato della rabbia senza freni che lo trasforma in villain a caccia dei suoi stessi figli. Certo che dopo averlo visto tanto disperato e fallibile, ritrovare Robert Carlyle nei panni del pazzo maniaco fa tanto Begbie dei tempi di Trainspotting.
La colonna sonora di John Murphy, già monumentale nel primo film, torna col suo tema ansiogeno che accompagna degnamente tutte le scene più tese. Il make-up degli infetti è terrificante nel suo lerciume sanguinolento e non mancano i momenti di puro splatter. Niente finto sangue in CGI, solo i cari vecchi manichini con le teste esplosive riempite di pomodori pelati (storia vera). Dopotutto, che altro possono farsene gli inglesi dei pelati? Mica lo sanno fare il ragù (basti vedere al minuto uno come cucinano la pasta, ‘sti barbari).
La CGI si limita alle inquadrature di distruzione aerea, il resto è tutta vecchia scuola, soldi ben spesi. Pur con un budget raddoppiato rispetto al capostipite, i sette milioni e mezzo di regine (ormai defunte) stampate su fogli verdi, ovvero 15 milioni di dollari, sarebbero robetta da film indipendente. C’è da levarsi il cappello e grattarsi la testa per un film che incassando quattro volte il suo costo ha visto spegnersi le prospettive di sequel per un ventennio. Eppure le cose erano state fatte in grande, abbondanti scene in esterni, scene di massa, e un elicottero usato come tosaerba.
Amo questo film perché infrange la morale del “fare la cosa giusta”, mostrando come possa mandare in vacca il destino dell’umanità intera. La moglie di Don che apre la porta al bimbo sconosciuto mette a rischio tutto il gruppo. Va bene l’istinto materno e quelle fregnacce lì, ma benedetta donna se fuori il mondo è impazzito e qualcuno ti strilla alla porta, un istinto di conservazione dovresti avercelo. Non è un caso che sia proprio lei la portatrice del male che sopravvive, mascherato da speranza: il male del virus e la speranza della cura, ma pure il male sottile del senso di colpa e vergogna di Don che fa riesplodere l’orrore.
Come diceva Bruce Dickinson, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, e quando vediamo gli infetti correre verso la Tour Eiffel vien da pensare a come tutti i personaggi convinti di fare la cosa giusta abbiano contribuito alla catastrofe.
Ah, fateci caso, tutto ‘sto casino è innescato da due bambini: uno all’inizio e uno alla fine. I bambini distruggeranno il mondo.
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