Ormai ho abbracciato questo formato “antologico” in tutto e
per tutto, quindi sotto con il post dedicato alle ultime serie tv viste, ma
solo dopo la consueta sigla!
(miniserie da sei episodi)
Sky Atlantic
pane e strisce di Bonvi, di resistere ad una miniserie tv ispirata al romanzo
di Joseph Heller “Comma 22” (1961)? Poche lo so, anche perché prima che ci
pensasse George Clooney, uno dei pochi a rendere il famigerato Comma 22
protagonista di geniali gag, era stato proprio Bonvi dalle pagine delle strisce
di “Sturmtruppen”. A mio avviso l’opera che ha saputo meglio di tutti cogliere
la feroce critica all’assurdità delle guerra, raccontandola con abbondanti dosi
di umorismo (nero), proprio come nel libro di Heller.
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Sono cresciuto leggendo Bonvi e ne pago (orgogliosamente) le conseguenze. |
Non è la prima volta che “Comma 22” viene adattato, lo aveva
già fatto al cinema Mike Nichols nel 1970, ma questa miniserie di sei episodi,
ha molto più minuti a disposizione per raccontarci la storia di John “Yo
Yo” Yossarian (un perfetto Christopher Abbott) un giovane soldato che ha
scelto l’aviazione americana, perché l’addestramento per i bombardieri è il più
lungo, vedi mai che nel frattempo la guerra fa in tempo a finire.
accenna a terminare, un problema per uno come Yo Yo che ama la vita e si
spupazza anche la moglie del fanatico generale Scheisskopf (George Clooney, che
compare in due puntate e recita come gli hanno insegnato i fratelli Coen). I
tentativi del ragazzo di farsi riformare ricordano me durante la mia visita di
leva, solo elevati al cubo. Un’infermiera connivente può aiutare, ma fingersi
pazzo non servirà contro il terrificante Comma 22: una legge quasi Dogmatica
che costringe Yo Yo ad affrontare ogni volta sempre più missioni. Più va in
missione, più rischia di morire, e più fa missioni, più il numero di sortire
aeree richieste dai suoi superiori aumentano, il Comma 22 appunto, un cane che
si morde la coda e intanto fa anche il saluto militare.
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“I Coen!? Ci Sono i Coen? Quelli mi fanno sempre fare la parte dello scemo” |
Ambientato in Italia e girato tra Viterbo e la Sardegna,
“Catch-22” è una miniserie bellissima, che riassume alla grande il fatto che di
più assurdo della guerra – che trasforma tutti in nazisti come sosteneva Verhoeven – può esserci solo la
burocrazia, ben rappresentata dalla gerarchia militare con cui Yo Yo finirà a
fare a testate, portando avanti il testimone di tutti quei personaggi
dell’immaginario che mi scaldano il cuore, un po’ Nick e un po’ Sam Lowry.
asseconda mentre mette in discussione tutti (anche Dio) e finisce sempre mezzo
nudo, ma in condizioni del tutto diverse, nel mezzo perde compagni, amici e
rischia anche i “gioielli di famiglia”, circondato da personaggi e attori che
ben rappresentano quanto la burocrazia possa strangolarti, e quando una struttura
organizzata per gerarchie, è solo un manicomio in cui tutti si chiamano
“Signore”.
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“Vediamo di far volare questa bara anche oggi” |
Giancarlo Giannini è il gestore di un bordello, George
Clooney oltre a dirigere un paio di puntate presta facce e faccette ad un
personaggio tutto matto (in tutti i sensi), mentre l’ex Dr. House Hugh Laurie
interpreta un ufficiale molto più interessato a mangiare bene che ai suoi
soldati. Ma il migliore resta Kyle Chandler, che interpreta il colonnello
Cathcart come se fosse un risoluto cowboy, che però stringi stringi, non prende
una decisione che sia una, giusto forse se qualcuno gliela suggerisce, possibilmente
sibilata in un orecchio.
(tragi)comici come la nomina a maggiore, di un tipo che si chiama ehm, Maggiore
– tutto! Pur di non mettere in crisi l’intoccabile gerarchia militare – e morti
anche abbastanza strazianti. Una parabola anti bellica si, ma più che altro un
monito su quanto la vita umana valga davvero poco, se a tirare le fila sono i
burocrati più interessati a far rispettare regole folli.
Bonvi sarebbe orgoglioso di voi, bravi!
(miniserie da quattro episodi)
Netflix
Park, “When they see us” è una serie che vi farà incazzare, perché come avrebbe
detto Howard Beale in “Quinto potere” (1976), per prima cosa vi dovete
incazzare.
nel parco più famoso di New York nel 1989, può avere come colpevoli sono un
gruppo di ragazzi, quattro neri e un ispanico. Perché andiamo, chi altri
potrebbe prendersela con tale violenza contro una ragazza bianca di 28 anni? Kevin
Richardson (interpretato da Asante Blackk), Antron McCray (Caleel Harris),
Yusef Salaam (Ethan Herisse), Korey Wise (Jharrel Jerome) e Raymond Santana
(Marquis Rodriguez) come in “Il processo” di Frank Kafka, vengono messi sotto
torchio dalla polizia, interrogati fino ad ottenere deposizioni frammentarie
dettate dalla paura e dalla privazioni subite. Cinque ragazzini con la colpa di
essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma soprattutto con il
colore di pelle sbagliato, in un Paese in cui l’argomento conta, e nemmeno
poco.
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“Tirami il dito”, “Ok confesso sono colpevole!” |
Gli adulti attorno ai nostri protagonisti rispondono agli
eventi come possono e in base al ruolo, Vera Farmiga è l’avvocato dell’accusa
che esegue, anche se non condivide i piani della procuratrice Felicity Huffman,
che i suoi colpevoli li ha già scelti. Geniale l’utilizzo di John Leguizamo e Michael
K. Williams, due padri che reagiscono in modo diverso alla condanna dei loro
figli. Funziona per contrapposizione vedere due che normalmente interpretano
dei “tipi tosti”, andare sotto con perdita in una situazione così.
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Il buon vecchio John, lontano dai soliti ruoli in cui siamo abituati a vederlo |
No sul serio, “When they see us” fa incazzare perché
racconta una fatto di cronaca davanti alla quale non si può restare placidi e
rilassati, perché cinque ragazzi si sono ritrovati segnati a vita e qualcuno di
loro, quella stessa vita l’ha passata dietro alle sbarre, per di più da
innocente, che è forse l’unico modo possibile per peggiorare il carcere. “When
they see us” è una serie che fa incazzare perché racconta alla perfezione la
spocchiosa ottusità di chi è convinto di avere ragione, ma anche quella di
qualche riccone di New York che davanti ad un’accusa montata ad arte, per quei
cinque ragazzi invocava il ritorno della pena di morte nello stato, il fatto
che quell’illuminato (si fa per dire) al momento sia il 45esimo presidente
degli Stati Uniti, beh non vi fa incazzare? A me sì.
lotteria, il giorno stesso in cui sei nato. Bruce Springsteen invece cantava che per la tua pelle (nera)
americana, potresti anche essere ucciso. Ava DuVernay (regista di Selma), ribadisce alla grande il
concetto, prendendo un brutto fatto di cronaca del 1989 per ricordarci che
trent’anni dopo non è cambiato niente, e questo si che dovrebbe farvi
incazzare.
Commento in breve: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!» (Cit.)
2
Amazon Prime
perché “Fleabag” (letteralmente: sacco di pulci, insomma niente di carino) è
molto più che la risposta Inglese a quella serie, di fatto è costruito attorno
al talento di Phoebe Waller-Bridge, autrice della serie e interprete della
protagonista, accreditata come appunto “Fleabag” anche se nessuno la chiama mai
davvero così nei dodici episodi che compongono le due stagioni di questa serie.
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“Perché mi chiamano porcellino d’India? Non sono porcellino, non sono nemmeno mai stato in India” (Cit.) |
Mi è stata consigliata un po’ da tutti, e posso capire
perché abbia fatto parlare così tanto di se, la storia di una donna adulta e
emancipata nel 2019, che fa sesso perché semplicemente le piace farlo,
incredibile ma vero, fa ancora parlare di se. Phoebe Waller-Bridge mescola alla
grande momenti grotteschi, commedia e tragedia, poi ogni tanto fa una mossa che
mi piace un sacco, guarda in camera e ammicca rivolgendosi verso il pubblico, come faceva
Frank Underwood in House of cards,
oppure come una delle mosse finali di tutti i protagonisti dei film di John Landis, insomma tutta roba che mi
trova molto ben predisposto.
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“Non trovate anche voi insopportabile Cassidy, quando cita a caso John Landis?” |
La nostra protagonista gestisce una caffetteria che ha come
mascotte un porcellino d’India, ha una sorella opposta a lei, in taglia di
reggiseno – dettaglio che la ragazza ci tiene a sottolineare spesso – ma
soprattutto per stile di vita: sessualmente repressa e sposata con un coglione,
senza nessuna voglia di divorziare perché il gesto potrebbe far discutere.
vita sessuale disinibita delle protagonista, che ha fondamentalmente una mossa
segreta per conquistare gli uomini (la utilizza nel primo minuto del primo
episodio, ve la lascio scoprire) e li riduce tutti a poveri complessati
lacrimevoli ben poco “mascolini”, il tutto raccontato in modo spigliato e
realistico, quindi senza per forza la bandierina del #MeToo da sventolare a
tutti i costi, perché ehi! Siamo nel 2019 e bisogna fare così.
la tragedia tiene banco ma per capirla dovrete aspettare l’ultimo episodio
della prima stagione, intanto in questa strana storia dove i personaggi non
hanno quasi un nome, ma sono identificati per ruolo, godetevi la matrigna di Olivia
Colman. Gente quell’altrice è fenomenale, sul serio da Broadchurch a scendere, non
ricordo di averla vista una volta risultare anonima, non vedo l’ora di vedere
la nuova stagione di The Crown, quasi solo per la sua presenza.
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A mani basse la più brava di tutta la serie (MVP! MVP!) |
Due parole sulla seconda stagione, che perde molto della sua
sagacia perché si appiattisce attorno ad un personaggio, il “prete sexy” di cui
si invaghisce la protagonista, che però è interpretato da un fenomeno come Andrew Scott, quindi se non altro il ruolo è stato messo in cassaforte. Ho trovato la
seconda stagione meno efficace della prima, ma il primo episodio (2×01) non
esito a definirlo un capolavoro: odiate anche voi le cene in famiglia? Ecco,
allora non potrete non riconoscervi nelle dinamiche di una puntata che ruota
tutto attorno ad un tavolo di ristorante, in cui convenevoli di circostanza e
cattiverie ringhiate dietro a falsi sorrisi non mancano, penso di aver
patteggiato per la protagonista più in quel singolo episodio, che in tutte le
due stagioni della serie.
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Dovesse andare male Andrew, sei già pronto per Preacher. |
Commento in breve:
Carrie Bradshaw levati, ma levati proprio.