Torna l’appuntamento con titolo Springsteeniano, con le ultime serie viste di recente, non perdiamo altro tempo, via via via via viaaaaa!
Dahmer (2022)
Stagione: Miniserie (dieci episodi)
Dove la trovate: Netflix
Da ragazzino mi leggevo tutto quello che riuscivo a trovare su serial killer (storia vera), sono un fanatico di Horror penso che sia normale no? Ditemi che è normale, vabbè diciamo allora che forse anche Ryan Murphy era in fissa con il cannibale di Milwaukee, Jeffrey Dahmer.
Già portato al cinema, impersonato da Jeremy Renner oppure nel 2017 con “My Friend Dahmer”, tratto da un fumetto che raccontava la storia da un compagno di scuola dell’assassino, il serial killer, alcolizzato, omosessuale e cannibale che prese diciassette vite terrorizzando il Wisconsin, era già comparso nella serie più famosa di Murphy, mi riferisco ovviamente ad American Horror Story, dove nella stagione Hotel, era interpretato proprio dal talentuoso Evan Peters, che qui riprende il ruolo per una biografia dove Murphy, sempre in coppia con il sodale Ian Brennan, riesce piuttosto bene ad asciugare alcuni dei suoi manierismi, spesso barocchi e rococò, per una trama più asciutta e diretta, dall’aria malsana, malgrado la ben poca violenza mostrata sullo schermo.
Grazie ad alcuni episodi diretti da Jennifer Lynch (figlia di cotanto padre) e da Greg Araki, “Dahmer” parte dalla fine, il primo episodio è quello della cattura del pericoloso assassino, straniante, volutamente distaccato, alienante nell’andamento, quasi quanto guardarsi a ripetizione L’esorcista III come faceva Dahmer (che per altro è anche uno dei miei capitoli preferiti. Ditemi che è normale), la prima puntata ci cala subito nel putridume che è la vita di Jeffrey Dahmer, per dare il via ad una lunga confessione nel secondo episodio, espediente perfetto per scavare nel passato del personaggio, non nel tentativo di trovare una spiegazione alle sue azioni, quando per dare voce ai personaggi intorno a lui.
Se una irriconoscibile Molly Ringwald interpreta il ruolo della matrigna di Dahmer, Shari, nella parte di suo padre Lionel troviamo uno dei miei preferiti, un Richard Jenkins in grande forma, capace di tratteggiare un personaggio che è un cortocircuito di menzogne, specialmente a se stesso, a volte in mancanza di risposte, a volte nel tentativo di ergersi a monito per gli altri genitori, altre più semplicemente per auto assolversi, dall’avere dato alla luce e il proprio cognome ad un figlio che verrà ricordato per sempre si, ma non per i motivi che un genitore (o chiunque altro) spererebbe.
“Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story” ha un ritmo lento, a tratti lentissimo eppure è una serie che si segue alla grande, non è un caso che sia già diventata tra le più viste di sempre su Netflix. Il ritmo narrativo va di pari passo con la flemma del suo protagonista, Evan Peters dietro a quegli occhiali giganti (che per me sono quelli ufficiali del serial killer, almeno nell’immaginario) offre una prova maiuscola, distaccato, quasi un alieno che ci osserva per capirci e nel caso, pronto a sezionarci (nei casi migliori), qui l’attore fa nuovamente sfoggio del suo talento, il bello della storia – che poi bello non è affatto – sta nel vedere come Dahmer a tratti, sia quasi incurante di coprire le sue tracce, ma fosse comunque al centro di una tempesta perfetta di omertà, per cui se a sparire, sono giovani omosessuali proveniente dai quartieri più poveri, beh, scrollata di spalle no?
Questo emerge benissimo in episodi claustrofobici come “Cassandra” (1×07) dove nessuno crede alla vicina di casa di Dahmer e dove un panino regalato per ragioni di buon vicinato, può essere più spaventoso di che so, un colpo di mannaia in faccia mostrato in primo piano, una puntata talmente opprimente che pare quasi di poter sentire la puzza di carne morta provenire da casa di Dahmer.
La serie racconta molto bene il muro di omertà contro la quale anche l’accusa ha dovuto imbattersi per accusare Dahmer e il suo impatto sulla cultura popolare, forse solo nel finale Ryan Murphy scivola di nuovo un po’ in quelle sue trovate barocche, sovrapporre i volti delle vittime all’uscita di scena del titolare, sembra quasi un modo per restituire pan per focaccia all’assassino, ma è davvero una critica di poco conto la mia, “Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer” resta una serie ben fatta, che sa dare valore anche ad un ritmo lento e che sfrutta al meglio il solito formato delle serie, dieci episodi da un’ora, dove qui nemmeno un minuto è da buttare via.
Anzi, l’ultimo episodio si apre con una scena che chi è appassionato delle vicende dei Serial Killer conoscerà bene, l’omicidio che ha fatto iniziare le indagini su John Wayne Gacy, indicato qui come uno di quelli che hanno in qualche modo seguito le orme di Dahmer, quasi un po’ ci spero che Ryan Murphy faccia come ha fatto per American Crime Story e renda antologica questa serie, una seconda stagione su Pogo il clown la guarderei molto volentieri e il titolo chilometrico, in tal senso lascia sperare che possa davvero essere così.
Non sarebbe affatto male, visto che ormai Ryan Murphy può contare su una factory, tra attori e registi sempre più vanta e talentuosa, inoltre sarebbe il punto di equilibrio ideale tra il Crime e l’Horror delle sue due serie “americane”, anche perché si potrebbe dire che non c’è nulla di più americano dei serial killer e della torta di mele, con l’eccezione che la seconda l’hanno ereditata dagli inglesi, quindi tirate voi le giuste conclusioni.
Commento in breve: bravo Ryan, quando sai essere così asciutto ti apprezzo.
Chi ne ha scritto meglio di me: tipo beh, tutto l’Internet!
This England (2022)
Stagione: Miniserie (sei episodi)
Dove la trovate: Sky Atlantic
«Quest’aiuola beata, questa terra, questa Inghilterra» (cit.)
Chissà che avrebbe pensato il Bardo Bill Shakespeare della sua isoletta e di tutti quanti noi oggi? In tutta risposta gli abitanti di Albione utilizzano la fiction per riflettere sulla storia, in questo passo appena dietro le spalle, visto che “This England” racconta dell’elezione e della sua fallimentare gestione della crisi pandemica da parte di Bojo, meglio noto come Boris Jonhson. Il cui “cadavere” (politicamente parlando) era ancora caldo quando questa miniserie è andata in onda.
Sarò franco (anche se sono Cassidy), avrei sperato in meno scalpore, meno scene di anziani soli nella case di riposo e più approfondimento, basta dire che non si fa quasi menzione della propensione di Bojo a diffondere notizie create ad arte, quando faceva il giornalista e non era ancora l’inquilino del “Numero 10”, stessa cosa sulla sua famigerata «Preparatevi a perdere i vostri cari», giusto qualcuna delle sue tante sparate viene mostrata, in una miniserie che ama snocciolare numeri mentre vive e muore sue due elementi, il primo poter raccontare eventi appena passati. Perché tanto è tutto finito no? Bastava smettere di parlarne vero? Vabbè passiamo al secondo punto forte della serie.
Sessioni di trucco e parrucco ogni giorno, per trasformare il protagonista in Bojo, un trucco così efficace che in certi episodi, tanto poco compare il personaggio e tanto risulta mascherato, lì sotto avrei potuto esserci anche io, con la differenza che io non avrei saputo imitare parlata e camminata di Bojo perché io non sono Kenneth Branagh.
Mi è stato presto chiaro perché “King Ken” abbia accettato questo ruolo, il suo primo ministro in fissa con Churchill, cita Shakespeare ad ogni piè sospinto, quindi quasi me lo immagino, affrontare la parte difficile del compito (le sedute di trucco), perché tanto citare a memoria il Bardo per lui è semplice come per me trovare una scusa per scrivere di Carpenter.
Tra musiche opprimenti alla Gomorra e ricordi freschi, la serie risulta angosciosa e fin troppo tecnica, ma se siete fanatici di King Ken e volete sentirlo recitare Shakespeare in vesti comunque grottesche, sapete cosa fare.
Commento in breve: non proprio Riccardo III ma quasi.
Chi ne ha scritto meglio di me: qualcuno l’ha vista? Ho bisogno di pareri.
The Midnight Club
Stagione: 1
Dove la trovate: Netflix
Quali sono i tratti distintivi di un autore? Un tema chiave che come un filo rosso unisce tutte le sue opere, sicuramente è tra questi. Mike Flanagan è OSESSIONATO dalla morte, dal suo primo “Absentia” (2011) passando per Midnight Mass, che non ha solo la mezzanotte nel titolo, ma anche la piattaforma in comune con la nuova “The Midnight Club” sbarcata da poco su Netflix.
La storia è quella di un gruppo di ragazzi, in linea con i casting di Netflix che altrimenti la serie non te la finanzia nemmeno, ma qui entra subito Flanagan a gamba tesa: Kinghianamente non a caso, sono sette, sono anche perdenti perché hanno tutti malattie terminali, si ritrovano in una villa isolata, una comunità per paziente che attendono – si spera il più serenamente possibile – la fine, gestita da Georgina Stanton (la mitica Heather Langenkamp di Nightmare), per riempire il tempo giocano a carte scoperte come questa serie, l’omaggio non solo è alle storie (quindi di nuovo un tema caro a King e di conseguenza a Flanagan) ma anche a Mary Shelley che proprio chiusa in una villa, di fatto creò robetta, la letteratura horror per come la intendiamo ancora oggi.
Va subito raccontato come Mike Flanagan sia entrato nel Guinness dei primati con questa serie, qualcuno gli ha fatto notare che alla regia, utilizzava troppi pochi “Salti paura” (anche noti come “Jump scare”) per la moda degli Horror contemporanei, perché? Perché per sua definizione gli fanno platealmente schifo come trovata, ma questo non vuol dire che non li sappia fare, quindi ne ha piazzati ventuno (giuro, li ho contati) solo nel primo episodio guadagnandosi il nuovo record da battere (storia vera).
Ma questa notizia di colore potrebbe distrarre dalla vera natura di “The Midnight Club”, che in realtà è una sorta di Misery in piccolo, dove Annie Wilkes è rappresentata dalla morte che aleggia sui sette protagonisti, che come lo scrittore interpretato nel film da James Caan, prova a sfuggiare o a riflettere sulla sua condizione scrivendo, elaborando dolori in storie che i ragazzi si raccontano, appunto a mezzanotte, nel loro club (quasi) segreto.
Più che al film però, Flanagan si rifà proprio al libro di King, dove era bellissimo vedere come la condizione del protagonista, influenzasse il contenuto della sua prosa, un dettaglio sparito dal film di Rob Reiner che non ci faceva sbirciare il contenuto del romanzo, cosa che invece Flanagan fa con generosità, in sette storie di sette tipologie (e generi) differenti. Ora però non fatevi distrarre dai paragoni e dai ventuno “BUU!” nel primo episodio, “The Midnight Club” parte dall’horror per parlare del tema sempre nel cuore di Flanagan ma anche del processo creativo, asciugando quella verbosità che aveva un po’ azzoppato Midnight Mass almeno nei primi episodi (nel corso delle puntate si torna a chiacchierare un sacco), risultato finale? Vorrete bene a questi sette ragazzi, garantito al limone.
Siamo lontani due spanne dal suo capolavoro, che per me resta Hill House, ma il cognome Flanagan ormai è garanzia di solidità, uno dei nomi che stanno scrivendo la storia del genere Horror (inteso anche in senso più largo) oggi come oggi.
Commento in breve: Mike Flanagan è un grande autore e lo conferma ancora una volta. Purtroppo è logorroico.
Chi ne ha scritto meglio di me: riunione a mezzanotte (o quando volete voi) In Central Perk, Lisa ha una storia da raccontarci.
The Watcher (2022)
Stagione: Miniserie (sette episodi)
Dove la trovate: Netflix
Di recente ho pescato Naomi Watts alle prese con il remake di Goodnight Mommy, ottimo solo se siete in vena di film che semplicizzano tanto (troppo) lo trovate su Prime Video, ma io vi consiglio di più l’originale. Inoltre ho ritrovato l’attrice anche nello scarsissimo “Gypsy” sempre su Netflix, del tutto dimenticabile. Bobby Cannavale invece aveva un ruolo ingrato in Blonde, insieme sono la coppia alle prese con un classico inizio da Horror: il trasloco.
La nuova casa in questione è quella al 657 Boulevard di Westfield, New Jersey, dove si sono svolti per davvero i fatti tratti da questa… Storia vera! anche questo un classico degli Horror. La famiglia Brannock, ricconi Newyorkesi si trasferiscono oltre il fiume per godersi un villone e la tranquillità della provincia, che verrà infranta da vicini troppo appiccicosi, sinistri e fin troppo attenti alla bella villa ma soprattutto, da una serie di lettere anonime o meglio, firmate da un tale osservatore, che sostiene di stare (appunto) osservando la casa dagli anni ’70 o forse da prima, ma soprattutto dimostra di conoscere tutto dei componenti della famiglia.
Una premessa tutto sommato già vista, che lui, sempre lui, il solito attivissimo Ryan Murphy, trasforma in una miniserie abbastanza avvincente, in cui tra i vicini di casa più invadenti troviamo Jasper (Terry Kinney) e Pearl Winslow (Mia Farrow), vestiti come se fossero usciti da “Gotico americano” di Grant Wood e questa è la cosa più normale che accade ai Brannock.
Difetti? Essenzialmente solo uno per quello che mi riguarda, la lenta discesa nella paranoia della famiglia, le liti interni dettate dallo stress e dalla paura di essere osservati, ogni tanto procedono con un balzo in avanti perché i protagonisti, reagiscono come dei veri tonni. Aver investito i soldi di una vita intera in una casa che sembra una trappola senza uscita è solo in parte una scusa, visto che spesso il personaggio di Bobby Cannavale carica a testa bassa, oppure quello di Naomi Watts, salta a conclusioni palesemente troppo affrettare, insomma una cosa sono protagonisti di cui possiamo comprendere la condizione ma anche un pelo antipatici, ben altra dover patteggiare per dei tonti che fanno scelte sbagliate ignorando i segnali più chiari.
Per fortuna, il mistero del giallo è tutta farina del sacco di Murphy, visto che nella realtà i Brannock non hanno mai scoperto chi era il loro persecutore, nella serie invece ci viene fornita una soluzione che non è affatto male, non voglio rivelarvi troppo perché i sette episodi di “The Watcher” beh, si guardano abbastanza in scioltezza, se volete un altro esempio di Ryan Murphy virtuoso dopo “Dahmer”, ve lo consiglio.
Commento in breve: chi controlla i controllori Brannock?
Chi ne ha scritto meglio di me: avete capito l’antifona, se ne avete scritto, segnalatelo nei commenti vi aggiungerò volentieri.
The Bear (2022)
Stagione: 1
Dove la trovate: Disney+ (Star)
Gli ZZ-Top cantavano che Gesù aveva lasciato Chicago.
Lip Gallagher invece è tornato, anzi è rimasto nella città del vento.
Jeremy Allen White, uno dei fratelli Gallagher di “Shameless”, serie di cui sono reduce da una lunga maratona e di cui potrei anche decidermi a scriverne, visto che l’ho apprezzata non per forza poco (finale escluso), torna ad interpretare un talento con le maniche arrotolate, questa volta dietro ai fornelli di un locale fatiscente, ereditato dal fratello defunto (occhio a chi lo interpreta, una faccia nota).
Carmen “Carmy” Berzatto ha quasi lasciato la sanità mentale nei migliori locali stellati del pianeta, un giovane genio della cucina che torna a casa portandosi dietro “l’orso” della sua ansia, giusto per trovarsi incastrato in una cucina minuscola, dove per muoversi tutti devono gridare «Passo!» e dove il ragazzo cercherà di convincere tutti a chiamarsi vicendevolmente Chef come forma di rispetto, anche se tante volte i vari «Si Chef» vengono pronunciati come dei «Vaffanculo Chef» nemmeno tanto mascherati.
Perché il vecchio locale è un casino, chi lavora in cucina al massimo apre confezioni di pelati per servire spaghetti annacquati. Può il metodo e le tecniche dell’alta cucina stellata aiutare un locale in crisi, gestito dal cugino del protagonista, Richard “Richie” Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach), con la propensione a mettere mano al ferro e nessuna intenzione di modificare “il sistema”.
Lo so cosa state pensando, abbiamo bisogno di un altro programma che parla di cucina, proprio ora che le nostre televisioni sono piene di gente che prepara da mangiare tirandosela come se non ci fosse un domani? Se volete una serie con un pilota tesissimo, con un montaggio quasi da film d’azione per una corsa contro il tempo per l’apertura, allora sì. Jeremy Allen White recita davvero alla grande, ci sono momento in cui con lo sguardo fisso fa capire quanta rabbia repressa stia ingoiando il suo personaggio, in otto episodi fa sfoggio di talento, in una serie che negli Stati Uniti ha fatto furore.
Forse perché parla del lavoro dalla parte di chi deve sporcarsi le mani, gli unici precedenti che mi vengono in mente sono “E.R. – Medici in prima linea” ma solo perché la città d’ambientazione era sempre Chicago. “The Bear” ha tantissime ottime idea, poi purtroppo si gioca una sotto trama con dei mafiosi che francamente, sta su solida come un post-it incollato alla portella del frigorifero, prima del finale che promette migliorie per il futuro.
Inoltre verso metà, la serie gira un po’ a vuoto, forse per dare ancora una volta spazio all’ansia del protagonista, tema che sono sicuro farà parecchia presa su una buona porzione di pubblico. Anche se secondo me le parti migliori di “The Bear” sono nel modo realistico in cui costruisce la tensione, la preparazione al momento di super lavoro in cucina, con i personaggi e le loro dinamiche che si consumano per ovvie ragioni di corsa, spesso urlandosi le frasi in faccia nemmeno fossimo in un vecchio poliziesco. Insomma la serie di Christopher Storer ha dei numeri, non so bene se riuscirà a confermarsi come qualità per la seconda annata, ma la prima ti convince a tornarci in questo ristorante, anche se ha ampi margini di miglioramento ben visibili.
Commento in breve: attendo il voto che può confermare o ribaltare il risultato.
Chi ne ha scritto meglio di me: questa la so! Passate a trovare Lisa, dopo il pranzo ci vuole il caffè.
Sepolto in precedenza mercoledì 2 novembre 2022
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