Quando si tratta di Michael Bay non ci sono mezze misure, nei suoi film proprio no, ma anche fuori. Perché il mondo si divide in due: chi vuole bene a Michele e chi lo odia con tutto il suo cuore, considerandolo la peggior piaga mai capitata al cinema dai tempi di J.J. Abrams delle interruzioni pubblicitarie.
Per quello che mi riguarda, l’unico modo per negare il fatto che dietro alla macchina da presa Michael Bay è un drago, è essere nati ipovedenti, oppure tanto tanto miopi, ma vi riconosco tutte le attenuanti generiche. Bay è un tamarro, al quale spesso la narrazione non interessa quasi per nulla, se escludiamo la saga dei Transformers (con cui io stesso ho un rapporto combattuto di amore e odio), i suoi film sono spesso operazioni che sacrificano TUTTO sulla composizione delle immagini, che siano le più stratosferiche, ultra patinate e, soprattutto, sparate ad un ritmo forsennato dritte giù per le cornee degli spettatori.
Quando Michele Baia tiene a bada (o almeno ci prova) il suo incontrollato bisogno di far roteare la macchina da presa, bombardando il pubblico con un montaggio sincopato fatto di singole inquadrature che durano al massimo tre secondi l’una, prima di passare subito a quella successiva, vengono fuori film, esagerati quanto volete, ma comunque di culto, roba come i due “Bad Boy”, oppure The Rock.
Se la pensate come Scorsese e lamentate l’assenza di autori in un cinema americano contemporaneo, fatto sempre più in massa, in cui la figura del regista è un nome intercambiabile quasi secondario alla riuscita della pellicola, vi posso capire, però dovreste avere almeno l’onestà intellettuale di riconoscere che Michael Bay non è certo un anonimo presta nome, ma ha i tratti dell’autore vero e proprio, uno che ha iniziato la carriera come alternativa giovane di Tony Scott (entrambi sono stati a lungo sotto l’ala protettiva di Jerry Bruckheimer), ma è anche l’unico che da quello giusto di casa Scott ha imparato il meglio: estetica immediatamente riconoscibile, montaggio sincopato applicato ad una realtà che sul grande schermo risulta spesso patinata, ma sempre amplificata.
Se Tony Scott con la sua post produzione digitale filtrava i colori della realtà per “vitaminizzarla” sul grande schermo, Michael Bay è il potere di Tony Scott, senza il fardello della responsabilità che quello giusto di casa Scott ha sempre dimostrato di avere, anche nei suoi lavori più Yankee nel midollo, lui che malgrado il berretto da Baseball, americano non era e forse la differenza è davvero tutta qui a voler semplificare.
Michael Bay è innamorato perso dei suoi tramonti pacchiani da cartolina, dei suoi elicotteri che volteggiano immancabili nei suoi film e delle bandiere a stelle e strisce che svettano sullo sfondo, a tutto, poi, applica le cose che ama vedere al cinema: esplosioni grosse, inseguimenti adrenalinici, belle figliole il più delle volte inquadrate ad altezza “Lato B” e trovate che vanno dall’umoristico al caramelloso, secondo un gusto tutto suo, il più delle volte imbarazzante. Devo stare qui a dirvi che tutto quello che piace a Bay è anche di mio gradimento? No, perché io stesso di tutte queste cosette piallerei via più di una buona metà, però è innegabile che Bay abbia una personalità e un punto di vista da autore che sta sotto il naso di tutti, è il tipo di personaggio che ti aspetti di vedere arrivare su un pick-up fiammante con i colori della bandiera americana, mentre spara fuochi d’artificio dal cassone e dalla casse pompo «America… FUCK YEAH!» mentre tira due sgommate in un piazzale, salvo poi scendere giù dal mezzo, in camicia a fiori, bermuda e calzini bianchi di spugna indossati con i sandali. Poi, magari, uno così ti offre anche da bere perché gli va di farlo, eh? Resta comunque imbarazzante, ma di cuore, sopra le righe e impossibile da ignorare. Prendere o lasciare.
Quando decide di stare lontano dai Transformers e scende dal letto con il piede “action”, arrivano i già citati Bad Boys e The Rock, la sua idea di fantascienza (parola da usare con le pinze qui più che mai) è Armageddon, oppure “The Island” (2005), mentre se ingoiando Alka seltzer riuscite a digerire il fatto che per quanto riguarda la politica Bay potrebbe far passare Donald Trump per un moderato, “13 Hours” (2016) resta un film solidissimo, capace di mostrare un conflitto dove spesso non si capisce proprio chi ti sta sparando addosso, buoni o cattivi restano ben distinguibili solo nei discorsi elettorali, non nei campi di battaglia.
Il problema che riscontro sempre più spesso è che chi riconosce del talento sotto tutta quella tamarraggine diffusa, è già disposto a farlo, tutti gli altri, invece, non si smuovono di un millimetro dalle loro posizioni e molto spesso trovano i film di Bay solo delle enormi fagiolate in grado di provocarti un attacco epilettico, oppure una gran noia da accumulo immotivato di roba su schermo. Ecco perché penso che il suo film migliore sia ancora “Pain & Gain” (2013), perché è quello dove diventa chiaro che Bay sa utilizzare i simboli (anche pop) dell’America contemporanea spingendoli al massimo per raccontare una storia, quello è l’unico film in cui Dwayne “The Rock” Johnson sembrava ancora un attore in grado di recitare dei personaggi e non solo la parte di se stesso (in perenne campagna elettorale, per altro). Decisamente il suo film più “spendibile”, passatemi il termine, quello in cui per una volta Bay ha provato a fare il narratore, non solo il generatore di immagini ultra patinate, per certi verso quello che “6 Underground” NON è quasi per niente.
Parlando di un altro nome molto controverso che fa storcere nasi, Netflix, l’ex servizio streaming più amato da tutti ora paragonato alla peggior cosa capitata al cinema dai tempi di J.J. Abrams Michael Bay le interruzioni pubblicitarie quelli che masticano il Pop-Corn rumorosamente. È chiaro che il canale di streaming le stia pensando tutte per cambiare la percezione presso il grande pubblico dei film prodotti con la grande “N” rossa, considerati (anche giustamente) il più delle volte delle belle fregature.
Se Netflix non ha battuto ciglio nel consegnare una valigetta piena di 150 milioni di fogli verdi, con sopra le facce di altrettanti ex presidenti passati a miglior vista a Martin Scorsese, per permettergli di fare quello che voleva (anche ringiovanire i suoi amici con la CGI), la stessa politica (e lo stesso budget) è stato applicato anche a Michael Bay che, infatti, ha fatto quello che voleva libero anche dai vincoli della censura, questo spiega tutto il sangue, i morti ammazzati e gli occhi staccati che trovate qui.
“6 Underground” non è il film che vi farà cambiare idea sul regista perché è Michael Bay al 100%, se vi piacciono delle cose (o tutto) del suo cinema, vi alzerete dal divano esaltati, se vi faceva schifo anche prima, statene tranquillamente a distanza, anche se i primi venti minuti sono da cineteca, parafrasando Indy dovrebbero stare in un museo, se non fosse che in un museo Bay ci entra proprio. Con una Alfa Romeo verde fluorescente, a 150Km/h in derapata e con una versione tamarrissima della classica “O Fortuna” in versione remix.
Deadpool senza maschera (che per convenzione chiameremo Ryan Reynolds, ma l’allitterazione nel nome lo conferma come personaggio dei fumetti vivente) interpreta “Uno”, uno (ah-ah) che un giorno ha deciso che si può fare di più come cantavano Morandi, Ruggeri e Tozzi e per farlo, decide di inscenare la sua morte e utilizzare i soldi delle sue geniali invenzioni per risolvere i torti del mondo. Insomma Ryan Reynolds Deadpool senza maschera è Bruce Stark Tony Wayne che assembla la sua squadra di ultra specialisti, chiamati con enorme fantasia Due, Tre, Quattro e via dicendo, per sottolineare che la trama sarà anche stata scritta dai due tipi che ci hanno regalato Zombieland (e il suo seguito), ma i personaggi a livello di caratterizzazione non vanno oltre la complessità dei loro nomi di battaglia.
Avete presente i reduci del Vietnam, accusati ingiustamente, evasi che vivono in clandestinità pronti ad aiutare il prossimo con il loro furgone fiammeggiante e i loro mitra che fanno le scintille dell’A-Team? Stessa cosa, Bay filma la Bay-Team che nelle budella si porta qualcosa dei personaggi con caratterizzazione dello spessore della carta velina e i nomi posticci di La Casa di Carta (infatti tutto si risolverà con un Paese che nel giro di nove secondi decide di seguirli nella loro rivoluzione perché lo dicono loro).
Originalità sotto i tacchi, applicata a principi molto Yankee. Sì, perché Deadpool senza maschera ha la possibilità di fare qualunque cosa per risolvere i torti del mondo e cosa decide di fare? Il solito: andare in [PAESE-MEDIORIENTALE-CHE-FINISCE-PER-STAN] a portar loro la democrazia in puro stile Yankee, rovesciando il dittatore attuale, per far salire al potere uno deciso da lui, però buono e bravo e anche di bell’aspetto, perché Bay non ha tempo di caratterizzare personaggi, quindi il dittatore cattivo è un ciccio bastardo pelato con lo sguardo iniettato di sangue, mentre suo fratello (descritto come “amante della Democrazia” fine della caratterizzazione) è un signore che potrebbe far affermare alla casalinghe di Voghera «Ma che bell’uomo», un generico Carlo Cracco senza i meme imbarazzanti.
I personaggi attorno a Deadpool senza maschera, sono la bellissima “Due” (Mélanie Laurent che buca lo schermo per il semplice fatto di esistere, se le facessi una foto io con lo smartphone, mi troverei un buco nel telefono, quindi immaginate cosa può diventare diretta da Bay) un’agente della CIA da quanto sappiamo di lei dalla scritta in sovraimpressione, che nel poco tempo libero si orizzontalizza “Tre” (Manuel Garcia-Rulfo), una sorta di sicario sì, ma simpaticone che fa molto del lavoro sporco.
“Cinque” (Adria Arjona) è la dottoressa del gruppo, anche se ammazza più gente di quella che rattoppa, “Quattro” (Ben Hardy) è l’esperto di parkour, disciplina che permette a Bay di inventarsi le inquadrature più matte, mentre “Sei” è Dave Franco con dei capelli tinti imbarazzanti, a mio avviso, un tentativo di renderlo una parodia dell’altro Ryan (Gosling) in Drive, ma tranquilli il fratello di James resterà sullo schermo il tempo di prendere parte alla porzione migliore del film, per poi lasciare spazio a “Sette” (Corey Hawkins) il cecchino che rappresenta la quota “Soldati americani con la testa sulla spalle” nei film di Bay. Mi rendo conto solo ora che i personaggi si chiamano tutti come i vecchi pupazzi delle reti Mediaset (allora Finivest), Four, Five e Uan. Un giorno scopriremo che anche Bay è cresciuto con “Bim Bum Bam”, il che spiegherebbe tutto, di Bim, BOOM e soprattutto BAAAM nei suoi film ne troviamo sempre tanti.
Se dico sempre che i primi cinque minuti di un film ne determinano tutto l’andamento, quelli di “6 Metropolitani” sembrano Bay che prende questo concetto alla lettera, applicandolo alla sua idea di cinema esagerato e sopra le righe, quindi i primi cinque minuti lievitano fino ai primi venti minuti e sono oggettivamente stratosferici.
Bay ci presente i pupazzi Five, Four e UAN in corso d’opera, nel mezzo di un’operazione disastrosa in una generica città toscana che è in parti uguali Siena e Firenze. Agli amici toscani che vorranno lamentarsi di questo uso indiscriminato delle location voglio solo dire che in “Giallo” (2009) Dario Argento trasformava la topografia della lineare (e a pianta Romana) Torino in un casino mai finito di luoghi storici distanti tra loro, mescolati assieme, quindi avete tutta la mia solidarietà, ve lo ricordate che mezzo disastro era “Giallo”? Ecco, dài, poteva andarvi peggio, insomma.
L’inizio del film è la prova che quando si tratta di comporre l’immagine, pochi al mondo sono più virtuosi di Michael Bay, una capacità invidiabile di dare forma al caos (delle situazioni del film) gestita con un rigore mostruoso. Provare a contare il numero di stacchi di regia è un’impresa folle, termini adrenalinico e muscolare si sprecano per una scena così, la strapotenza visiva di Bay al suo meglio, lontana ancora anni luce dalla capacità di George Miller di raccontare una storia usando solo l’azione, ma se parliamo di azione pure fine a se stessa, difficile trovare qualcosa di meglio in circolazione oggi, se gli inseguimenti al cinema sono il sale del cinema, Bay ha rinunciato alle diete povere di sodio.
Il montaggio viene totalmente sconvolto dalla mania di Michael Bay di non far durare ogni inquadratura più di tre secondi, eppure il numero di dettagli che balzano letteralmente agli occhi in una scena così aumenta esponenzialmente e, poi, se “O Fortuna” dei Carmina Burana è da sempre sinonimo di epica allo stato puro, della sua versione Remix Michael Bay fa dell’epica tamarra al cinema, come solo uno come lui potrebbe fare.
Il resto del film è una serie di momenti più o meno comici, in base a quanto vi sta simpatico Deadpool senza maschera, oppure determinati da quello che Bay trova divertente, tipo i travestimenti da tennisti famosi con tanto di naso di gomma, roba che probabilmente fa ribaltare dal ridere Bay, a me un pochino meno, ma ormai lo conosco il vecchio Michele, quindi so anche cosa aspettarmi.
La scena iniziale esagerata a Firenze Siena in Toscana è il modello che viene replicato all’infinito per tutto il film, nella girandola di luoghi in cui la trama si sposta (alla moda di xXx per capirci), ogni nuovo posto del mondo visitato richiede una scena d’azione grossa, quindi si fanno fuori i generali del dittatore cattivo a Las Vegas e poi si vola ad Hong Kong per salvare Carlo Cracco il fratello buono dal suo attico che è una prigione con piscina.
“6 Underground” è un frullatore di generi che passa dal thriller di spionaggio all’Heist Movie senza soluzione di continuità, ma resta il fatto che la scena di estrazione del fratello buono è un altro trionfo visivo in cui Bay alza ancora una volta l’asticella dell’azione, anche perché dopo la piscina sull’attico svuotata in testa ai cattivi, l’unico modo per andare ancora più su, è inventarsi la trovata dei magneti sullo Yacht («Mi sento un Jedi!»).
In definitiva “6 Metropolitani” è un film che predica ai convertiti, se Michele Baia vi è anche solo simpatico probabilmente vi divertirete un casino con un film che ha tutto per essere brutto (e discutibile anche a livello etico), che sarà strapieno di smarchettate per assecondare gli sponsor paganti, ma risulta uno spasso e, soprattutto, una gioia per gli occhi lo stesso.
Se, invece, Michael Bay vi fa schifo questo film non vi smuoverà di una virgola rispetto alla vostra attuale posizione, se facevate parte di #Bay-Team buon divertimento, perché lasciatmi aggiungere un’ultima cosa, forse siamo davanti ai primi veri candidati per il ruolo di concorrenza a Toretto e famiglia, anche perché appeso al muro Deadpool senza maschera aveva messo nove potenziali bersagli, ma con questo film sono riusciti a mandare KO solo il primo, quindi abbiamo il potenziale per altre nuove missioni, con altrettante nuove aggiunte alla squadra, volete che perdano l’occasione per intitolare i prossimi film “7 Underground”, “8 Underground” e via dicendo? Per quello che mi riguarda, potrebbe anche andarmi bene!
Sepolto in precedenza lunedì 13 gennaio 2020
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing