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8 milioni di modi per morire (1986): il tuo stile di vita determina il tuo stile di morte

Dicono che ci siano otto milioni di storie nella “città nuda”, invece sapete qui cosa abbiamo? Otto milioni di modi per morire e anche se il post non è abbastanza lungo per raccontarli tutti e otto milioni, almeno qualcuno di questi terrà banco nel nuovo capitolo della rubrica… Like a Stone!

L’anno 1985 di Oliver Stone comincia con un pupo che gattona sul tappeto del soggiorno di casa, il suo nome è Sean, scelto perché suona come John ma meno banale e omaggia lo 007 preferito dal nostro Oliviero Pietra (storia vera), una gioia in un anno tormentato di super lavoro, in vista del 1986, che per Stone è l’anno zero della sua carriera. Ancora intento a cercare qualcuno davvero volenteroso di produrgli quella storia che gli stava tanto a cuore, la sua verità sul Vietnam intitolata “Platoon”, Oliver Stone si conferma come uno di quei professionisti con l’abitudine di portarsi il lavoro a casa.

Figlio di Louis Stone, un agente di cambio che aveva combattuto durante la seconda guerra mondiale e di una mamma francese decisamente meno corrucciata del signor Stone, il nostro Oliver è sempre stato figlio di due mondi, di un padre ebreo e di una madre cattolica, metà americano e metà francese, ancora oggi c’è chi lo etichetta come un comunista oppure come un ultra conservatore, di solito in base alla critica (il più delle volte sensata) al presidente in carica contro cui punta il dito. Detta fuori dai denti? Amo proprio questo di Stone, in un mondo dove se non ti piace Barbie devi essere per forza un maschilista, il nostro Oliviero si è sempre schierato dalla parte della verità, argomentata, spesso descritta con sfoggio di pungente satira, ma mai banale perché frutto di una raccolta di informazioni, non una presa di posizione “Voi contro di noi” per partito preso, insomma uno giusto, ovviamente scomodo, come tutti i registi che piacciano a questa Bara.

Il nostro Oliviero Pietra, più o meno anno 1986.

Parliamo di uno che giovanissimo, si è arruolato volontario in Vietnam e che non ha mai nascosto di aver votato per Ronald Reagan, prima di essere deluso dalla sua politica e di aver cambiato punto di vista, grazie a quella propensione al cercare la verità, andare alle fonti e di beh, portarsi il lavoro a casa. Una delle persone che per sua stessa ammissione (nell’autobiografia “Cercando la luce” lo dice a chiare lettere) che lo ha cambiato è stato frequentare Ron Kovic, ex reduce come Stone ma inchiodato su una sedia a rotelle, attivista e scrittore impegnato per la pace di cui il nostro ha tradotto in sceneggiatura la sua vita, “Nato il quattro luglio” era un’altra di quelle verità che ad Hollywood, nessuno voleva raccontare, o ancora di più produrre.

Con due film horror di scarso successo alle spalle e un Oscar conquistato molto giovane, nel 1985 Stone era un quasi quarantenne che come regista, nessuno prendeva sul serio forse anche perché la passione con cui ha sempre cercato e inseguito la verità, lo rendeva qualcuno poco avvezzo ai compromessi, o forse nessuno voleva avere a che fare con il pazzoide che Stone si portava dietro in quel periodo, quell’impiastro di Richard Boyle, uno che sta al giornalismo più o meno come Oliviero Pietra ai canoni di Hollywood.

Irlandese di origine, quindi geneticamente predisposto alla bevuta a livello olimpionico, con addosso un’etichetta di scroccone nato, ma anche con un talento nel raccontare i teatri di guerra più sanguinosi, in una sorta di eterno “gonzo journalism” decisamente più arrabbiato ma non per questo dal tasso alcolico minore. La sera che Stone a cena a casa sua aveva questo irlandese irridente e il vero Stanley White, il poliziotto di Los Angeles che era stato d’ispirazione per lui per il protagonista di L’anno del dragone, ancora un po’ e il soggiorno di casa Stone non ha rischiato di trasformarsi nel ring di un match di boxe (storia vera).

Intanto beccatevi il libro, che sto per entrare finalmente in argomento (abbiate fede)

Stone frequentava Boyle per le stesse ragioni per cui conosceva Kovic, motivi di studio per storie controverse che gli stavano a cuore, nel frattempo però bisognava mettere qualcosa in tavola tutte le sere o pagare i pannolini al piccolo Sean, e qui arriva un lavoro “alimentare” ok, ma comunque importante per Stone, sempre più convinto che per non essere scavalcato durante la produzione di un film, l’unica era avere più controllo possibile sull’opera, l’adattamento del romanzo di Lawrence Block intitolato “8 million ways to die” poteva essere buon allenamento, anche se nelle 8 milioni di storie con cui ho introdotto il post di oggi, una è più sentita delle altre, quella di Hal Ashby.

Il nome a qualcuno potrà dire poco, ma parliamo di uno che nel 1968 ha vinto l’Oscar per il miglior montaggio per il film “La calda notte dell’ispettore Tibbs” di Norman Jewison e che in carriera, come regista ha diretto uno dei miei titoli di culto, “Harold e Maude” (1971) oppure il bellissimo “L’ultima corvé” (1973), per non parlare di “Questa terra è la mia terra” (1976), un dramma realistico sui reduci del ‘Nam come “Tornando a casa” (1978) e l’ottimo “Oltre il giardino” (1979) oltre ad un documentario sul mio canadese preferito, zio Neil Young. Ma la vita e la carriera di Ashby è stata ben riassunta dalle parole di Bruce Dern: «Ciò che è successo a Hal Ashby, sia quello che lui ha fatto a se stesso che quello che gli altri gli hanno fatto, è stata la cosa più ributtante che abbia mai visto nei miei quarant’anni anni di professione.»

Hal Ashby sul set di un film che amo molto di cui un giorno, mi deciderò a scrivere.

Un ex premio Oscar etichettato per i suoi atteggiamenti sempre più eccentrici e una discesa nelle dipendenze sempre più drammatica, trattato come un paria da Hollywood malgrado i premi. Non voglio fare il Freud della bassa padana, ma è difficile non pensare che Stone in Hal Ashby vedesse un riflesso di quello che avrebbe potuto diventare la sua carriera e forse anche la sua vita.

Per lui il nostro Oliviero Pietra sceneggia “8 milioni di modi per morire”, un noir ambientato in pieni anni ’80 che è stata una produzione più che disgraziata, un mezzo flop al botteghino e purtroppo, anche l’ultimo film della carriera di Hal Ashby, se guardato con gli occhi giusti, quasi un testamento per il regista, se non un auto biografia, anche se la PSO, la società di produzione del film, volle aggiungere parti prese dai romanzi di Lawrence Block alla sceneggiatura di Stone che al regista piaceva poco, risultato? Ashby licenziato per direttissima e poi reintegrato alla regia dopo comoda (si fa per dire) causa legale. Purtroppo a quel punto i vari rimaneggiamenti della trama avevano avuto effetto sul film e Stone non era più disponibile per un’ulteriore riscrittura, visto che era già partito per il Salvador. Anche perché il futuro regista di beh, “Salvador” nella sua autobiografia racconta della sua unica sortita sul set, avete presente Ulisse che torna a casa e trova i Proci a gozzovigliare? Una cosa del genere, visto che dalla trama che stanno girando non si parla quasi più di prostitute, ma sono tutti concentrati sulla sparatoria finale che Stone non aveva previsto, almeno da come gli riferisce Andy Garcia a sua volta, turbato dai molti cambiamenti (storia vera). La porzione di “Cercando la luce” dedicata a questo film scritta da Stone si conclude in maniera netta per l’uomo che lo aveva (in teoria scritto): «Addio ‘8 milioni di modi per morire’ a mai più rivederci», mi sembra riassuntivo riguardo a cosa pensi il nostro Oliviero del dimenticato risultato finale.

Goffredo Ponti nella posa degli eroi della Bara (e quando mi ricapita!)

“8 milioni di modi per morire” inizia in volo sulla città, letteralmente, ma poi si focalizza su una di quelle otto milioni di storie, quella del poliziotto Matt Scudder (Jeff Bridges in una di quelle prove che lo ha reso uno dei miei attori preferiti), uno sbirro dai modi spicci ma efficaci e purtroppo, dalla bottiglia facile, che durante un’irruzione fa una cazzata e con un ellisse narrativo gestito alla grande da Ashby, passa dal tunnel delle bottiglia e dei sensi di colpa alla medaglietta per i quattro mesi di sobrietà, sottolineata dal baffo di Goffredo Ponti, la più classica delle trasformazioni cinematografiche, un cambiamento di aspetto esteriore, per far arrivare al pubblico il cambiamento interiore del personaggio. Che poi a ben pensarci è un po’ come quando Hal Ashby, ripulito e passato alla New Age, si presentava alle feste di Hollywood con capelli tagliati e giacca sportiva, per cercare di far capire ai colleghi che era cambiato (storia triste, ma vera).

Basta un attimo per fare un errore letale.

In ogni noir che si rispetti, ci vede essere una “Femme fatale” che fa girare la testa al protagonista, in questo caso è la prostituta Sunny, interpretata dalla bellissima Alexandra Paul nella porzione della sua carriera a metà tra Carpenter e Baywatch. Sunny vorrebbe cambiare vita e Matt è il “pollo” giusto per salvarla dal suo ricco e viscido protettore, Angel Moldonado interpretato da un diabolico Andy García.

«Bei baffi Drugo», «Bel codino Corleone»

Nel calderone di questo noir con tutte le sue classiche pedine al suo posto, metteteci anche l’altra prostituta, quella un po’ più scafata che giudica tutti (anche Matt) dalle scarpe, ovvero Sarah, interpretata da quella sensuale di casa Arquette ovvero Rosanna e più o meno, se avete familiarità con il noir, l’andamento della storia dovreste averlo giù intuitolo, solo che qui troverete molte più scene di nudo di Alexandra Paul e i dialoghi firmati da Stone che filano via lisci, perché il nostro Oliviero fa parlare i suoi personaggi in modo forbito (usano il suo stesso vocabolario), in un modo che risulta realistico e cinematografico in parti uguali.

La sempre notevole Alexandra Paul.

Finché resta focalizzato sui personaggi, “8 million ways to die” funziona molto bene, il fatto che poi il film condivida almeno una location (la villa con scalinata infinita) con Omicidio a luci rosse di Brian De Palma, non fa altro che contribuire all’atmosfera di questo noir anni ’80, in cui gli inseguimenti finiscono con le auto che perdono i cerchioni e sul più bello (o più brutto, dipende dai punti di vista), il protagonista ha una drammatica ricaduta nella dipendenza, recitata da Jeff Bridges come si fa in paradiso.

Forse alla sua uscita nessuno poteva o voleva capirlo, ma “8 milioni di modi per morire” è tanto un noir quando un dramma estremamente sentito da parte del suo regista, Hal Ashby sapeva bene cosa voleva dire perdere tutto, anche professionalmente, infatti ci mette il carico nel mostrare il martirio del suo protagonista, uno ad un bicchiere dal camposanto molto ben impersonato da Bridges che non ci risparmia bava, tremori e tutto il repertorio.

Quando la mattina dopo la sbornia pensi di essere nel bagno di casa tua.

Il finale in mano ad un altro regista, o con una produzione alle spalle meno disgraziata, forse sarebbe stato un tentativo di strizzare l’occhio ai polizieschi, decisamente più muscolari di William Friedkin, però ribadisco, questo film andrebbe guardato come l’opera testamento di un regista dalla vita e dalla carriera complessa. Quando Matt, tiene al guinzaglio il personaggio di Andy Garcia nella sparatoria nel magazzino finale, minacciando di dare fuoco al suo prezioso carico di droga, faccio fatica a non pensare ad una presa di posizione da parte di Hal Ashby, rispetto alla sua ritrovata sobrietà e al suo rapporto con sostanze che conosceva fin troppo bene, un po’ poco per trasformarsi in un successo al botteghino, ma se per caso vi servisse un’altra prova sul talento di Jeff Bridges e se vi piacciono i noir e le atmosfere anni ’80, ora sapete cosa fare, anche se come potete immaginare, nel momento in cui vi scrivo il film non si trova su nessuna piattaforma di streaming. Tanto per cambiare.

Quella scalinata ormai è un classico dei Thriller.

“8 milioni di modi per morire” è buona palestra per Stone, in condizioni diverse, sarebbe stato in trincea spalla a spalla con Hal Ashby a combattere per il film e la sceneggiatura, ma il 1986 era alle porte, a quel punto Stone non poteva fare altro che cavalcare l’onda. L’esperienza del film di Ashby gli aveva confermato che l’unico modo a questo punto della sua carriera, era avere il controllo sul film e giocarsi il tutto per tutto, a quarant’anni sono stati in pochi i registi a sfondare, forse era ora di seguire il bianconiglio Richard Boyle giù nella sua tana e raccontare quelle verità scomode che nessuno nell’industria cinematografica era disposto a finanziare.

Ci sono otto milioni di storie ad Hollywood, in una di queste puoi finire come Hal Ashby in un’altra, puoi giocarti il tutto per tutto e diventare Oliver Stone per come lo intendiamo oggi, ma di questa storia, ne parleremo qui tra sette giorni. Non dimenticatevi il passaporto, si vola giù fino al Salvador.

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