Quante strade deve percorrere un uomo prima che lo si possa chiamare uomo? Beh non lo so, 42? Allora diciamo che la risposta, amico mio, sta soffiando nel vento, anzi per comodità oggi soffia nel nuovo capitolo della rubrica… Coen, storia vera!
Ho la sensazione che tutto quello che è stato prodotto dal regista a due teste dopo il loro classico istantaneo sia passato un po’ sottotraccia o dato per scontato, anche se in generale “Inside Llewyn Davis” ha raccolto critiche anche molto positive. Iniziamo ad inquadrarlo partendo dalla filmografia di cui fa parte: anche qui abbiamo la storia di un uomo che ci prova a cambiare il suo stato, lo fa mettendosi a caccia di soldi, nel suo caso di royalities sui suoi pezzi visto che è un musicista perennemente spiantato, che si imbarcherà in un’Odissea personale che è istintivo associare a quella dei protagonisti di Fratello dove sei? Perché ci troviamo al cospetto di un altro film estremamente musicale, la cui colonna sonora è stata curata ancora una volta da T-Bone Burnett, proprio come i pezzi folk della precedente fuga dei tre carcerati.
Anche qui troviamo una riuscita miscela di pezzi tradizionali e almeno una canzone da radio, orecchiabilissima, come “Please Mr. Kennedy”, armonia a tre voci cantata dai personaggi di Oscar Isaac, Justin Timberlake con la barba da Abramo e Adam Driver che oltre ad essere BELLISSIMO anche con il cappello da cowboy (un classico dei Coen un personaggio che lo indossa) sa anche cantare, perfetto, P-E-R-F-E-T-T-O!
A livello di continuità tematica, ancora una volta due precisi e rigorosi nel dirigere e scrivere come i fratellini Coen, fanno emergere il loro lato beat, una certa mai celata affinità con rivoluzionari fricchettoni in lotta con il sistema, di cui ovviamente Dude resta il personaggio più rappresentativo, ma forse l’elemento più significativo di “Inside Llewyn Davis” è l’ennesimo genere che i Coen dimostrano di aver pienamente compreso, tanto da poterlo smontare e ricostruire a loro piacimento, per altro prima che si diffondesse a macchio d’olio, da noi sarà anche uscito con l’abbastanza generico “A proposito di Davis”, ma resta la parola forse definitiva sulle biografie dei cantanti.
Senza sbandierarlo ai quattro venti, barricandosi dietro un realismo che al cinema non dovrebbe mai essere l’obbiettivo finale (non stiamo parlando di documentari), il film si ispira alla vita del cantante folk Dave Van Ronk, attivo nella scena musicale di New York negli anni ‘60, infatti il titolo originale del film, fa chiaro – ma non così spudorato – riferimento al disco “Inside Dave Van Ronk” del 1964.
I Coen riesco a trasportarci tutti nel freddo inverno del 1961 e nel fermento del Greenwich Village di quel periodo, senza citare apertamente nessuno di loro – o meglio, uno sì, ma solo di sponda – i Coen non solo ci parlano di Van Ronk ma anche delle dinamiche di coppia tra Bob Dylan e Joan Baez, che immagino prendesse a male parole il menestrello come qui fa Jean (Carey Mulligan nel periodo in cui era in tutti i film), ma anche gli scazzi artistici tra Paul Simon e Art Garfunkel, evocati nel duo musicale saltato per aria di cui faceva parte Llewyn Davis, uno che vaga alla ricerca di qualcosa, forse della sua metà, quel pezzetto che gli manca per fare il salto di qualità. Posso dirlo fuori dai denti? Immagino siate su questa Bara perché vi interessa il mio parere, ma questo è il titolo che avevo più voglia di rivedere come il deludente A complete unknown, polverizzato dai Coen con dodici anni d’anticipo, suggerendo bene, là dove altri invece strimpellavano e urlavano concetti, un esempio? C’è più Bob Dylan nella locandina del film dei Coen che in tutta la biografia ufficiale sul cantante diretta da James Mangold.
La fotografia del nuovo arrivato Bruno Delbonnel, non fa rimpiangere il solito Roger Deakins perché da questo punto di vista i fratellini si sono sempre viziati. Delbonnel che tornerà anche nel corso dei prossimi capitoli della rubrica, opta per una fotografia in alcune scene volutamente meno nitida, come uno scatto degli anni ’60, come il ricordo di quel periodo, il tutto mentre i Coen portano in scena l’Odissea personale del loro protagonista, ennessima prova maiuscola di Oscar Isaac che recita facendoci arrivare tutto: i dubbi sul futuro del suo personaggio, i mal di schiena delle tante dormite scroccate sui divani altrui e persino l’affanno per la ricerca di quel cazzzarola di gatto, sempre in fuga, a ben guardare, come quello di Ladykillers. Segni di continuità.
A dirla tutta, “Inside Llewyn Davis” non ha nemmeno una vera è propria storia, i Coen giocano a carte scoperte, la scena iniziale e la scena finale rendono il film una parabola circolare, anzi, il finale è una versione estesa della sequenza di apertura, come a sottolineare il fatto che il protagonista abbia girato in tondo su se stesso, suonando sempre le stesse tre note, come gli critica il vorace personaggio di John Goodman, che da fermo si mangia tutte le scene in cui compare.
“A proposito di Davis” è la ballata del secondo classificato, il primo degli ultimi, uno che si muove in metropolitana – e ormai dovreste ben conoscere la mia teoria sulle scene in metro nei film – che non ha un letto, una casa e nemmeno un cappotto, un irresponsabile che si ritrova per le mani un micio rosso, mentre cerca di barcamenarsi tra soldi che mancano sempre e una specie di fidanzata che lo odia, in quanto fratello scemo di Re Mida, con i poteri che funzionano al contrario.
In questo film abbiamo assistito a tutte le scene diventate negli anni canone delle “Biopic” musicali, il protagonista che suona il suo pezzo, quello della vita, davanti al potente produttore musicale, in questo caso il signor Grossman (F. Murray Abraham) e invece di convincerlo e firmare per il disco che lo lancerà, viene respinto con perdite e rimandato a cercare il prossimo divano su cui dormire.
Una soluzione visiva ricorrente scelta dai Coen per riassumere la condizione del protagonista mi piace molto, le continue simmetrie centrali che mostrano Llewyn Davis in un corridoio, spesso con una o più porte al fondo, tanti vicoli ciechi in cui il nostro puntualmente va ad infilarsi da solo, con le sue scelte di vita brillanti (lo fa allontanandosi dalla macchina da presa) e da cui per brevi periodi riesce ad uscire (quando invece cammina verso la macchina da presa) il più delle volte… seguendo il gatto!
I fratelli Coen hanno candidamente ammesso di aver scritto “Inside Llewyn Davis” come al solito, aggiungendo scene al copione per poi farlo “raffreddare” per metterne alla prova la solidità. Riletto dopo qualche mese, questa sceneggiatura sembrava solo quello che è, un vagare senza meta tra scenette quasi scollate, aggiungere il micio alla trama ha fatto da collante, da filo rosso pronto ad unire tutte le scene e spero non vi sfugga il fatto che ancora una volta i Coen abbiano scelto di avere un agente (del Caos e di suo fratello, il Caso) direttamente sul campo, in questo caso a fare da funzione narrativa con coda e baffi.
“Inside Llewyn Davis” è un ottimo film, generalmente apprezzato ma ricordato a mio avviso troppo poco, ora che le biografie musicali infestano il cinema contemporaneo, sarebbe giusto ricordare di più quella volta in cui i Coen avevano già detto tutto su questo sottogenere, prima che diventasse tale. Tra sette giorni invece, affronteremo un altro capitolo della rubrica… Non mancate!
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