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A Venezia… un dicembre rosso shocking (1973): cinquant’anni per un classico che fa davvero paura

Ho aspettato l’ultimo mese del 2023 per festeggiare i primi cinquant’anni di un film incredibile dal titolo italiano in linea con la moda nostrana degli anni ’70, chilometrico, descrittivo nel tentativo di “venderlo” al pubblico e il più delle volte un po’ pacchiano, quindi mettiamola così, la gag di scrivere un post su “A Venezia… un dicembre rosso shocking” e di pubblicarlo proprio a dicembre l’ho fatta, da qui in poi userò il suo titolo giusto ovvero “Don’t Look Now”.

Nicolas Roeg è tra i registi inglesi più amato dai suoi colleghi e conterranei, fate il nome di un regista proveniente da Albione, uno a caso, e molto probabilmente sarà facile pescare una sua intervista dove decanta le lodi di Roeg. Parliamo di uno che si è fatto le ossa come direttore della fotografia di vabbè, robetta, Lawrence d’Arabia, “La maschera della morte rossa” (1964) di Roger Corman con cui ha dei punti in comune, “Fahrenheit 451” (1966) di François Truffaut, “Via dalla pazza folla” (1967) e “Petulia” (1968) di Richard Lester, così, giusto per darvi un’idea.

I suoi film da regista sono “Sadismo” (1970) co-diretto con Donald Cammell e il decisamente più personale e sperimentale “Walkabout” (1971), ma prima di dirigere il suo film che preferisco, quello del cuore per me con David Bowie come protagonista, Roeg pensa bene di mandare a segno il suo titolo più riuscito, pistola alla testa sceglierei “Don’t Look Now” senza pentirmi mai della mia scelta.

Nemmeno gli attori si sono pentiti, anche se hanno dovuto sudarsela.

La londinese Casey Productions e la romana Eldorado Films avevano combinato per un adattamento del racconto “Don’t Look Now” pubblicato all’interno della raccolta “Non dopo mezzanotte e altri racconti” (1971) e scritto da Daphne du Maurier. Fu proprio lo sceneggiatore Allan Scott, responsabile insieme a Chris Bryant del copione tratto dal racconto, a proporlo al regista. La selezione dei protagonisti invece si completò piuttosto velocemente, Julie Christie recitava in quasi tutti i film di cui Roeg aveva curato la fotografia, ma soprattutto con questo film completa una doppietta mitologica, visto che era fresca fresca di un Western fantastico, sicuramente uno dei più dimenticati, ovvero “I compari” (1971) di Robert Altman.

Donald Sutherland invece era la prova vivente che negli anni ’70 gli attori americani potevano avere i ricci, dichiarati fuori legge nei film dopo i primi anni ’80. L’attore sperava che il regista si convincesse a dare una visione (ah-ah) più positiva della chiaroveggenza all’interno della trama, ma su questo Roeg fu irremovibile, posso dirlo? Aveva ragione lui e questo non minò il rapporto tra i due, e se volete una nota di colore per voi amanti degli spetteguless, il primo figlio di Sutherland nato nel 1974, si chiama proprio Roeg (storia vera).

Non fare così! Basta giuro che ho finito con lo spetteguless!

Ormai sono una sorta di Nonno Simpson che vede la nera signora dietro ogni angolo (… AH! La morte!) e che ripete sempre le stesse cose, nel mio infinito cantilenare vi ho fatto due maroni così con la storiella dei cinque minuti iniziali di un film, quelli che ne determinano tutto l’andamento, ci sarebbero tanti esempi, ma i primi cinque di “Don’t Look Now” di sicuro appartengono a questa categoria, gli sceneggiatori di Roeg hanno eseguito rispetto al racconto originale una piccola ma sostanziale modifica, che il regista ha cavalcato alla grande come un campione del toro meccanico, la figlia dei protagonisti nel racconto muore per via di una malattia, nel film per un tragico incidente. Mentre mamma Laura (Julie Christie) e papà John (Donald Sutherland) sono in casa impegnati in dialoghi apparentemente quotidiani, in realtà già rivelatori sull’andazzo della storia («Niente è come sembra»), fuori la loro figlia Christine avvolta nel suo cappotto rosso gioca in cortile vicino al laghetto, troppo vicino, tanto che ci cade dentro perdendo tragicamente la vita. Ora, io ve l’ho raccontata così, oppure potete farvela raccontare (meglio) da Roeg che aumentando il numero di stacchi di montaggio, rende la sequenza frenetica, ansiogena, un crescendo di dramma, che già introduce quel minimo di preveggenza genitoriale, che segnerà la fine di uno dei due protagonisti, infatti è proprio papà John Baxter a precipitarsi fuori di casa senza motivo apparente, ma comunque troppo tardi per salvare Christine.

Primi cinque minuti, importanti e appena appena drammatici.

Per la scena dell’affogamento, Sharon Williams che interpretava Christine si è fatta prendere giustamente dal panico, quindi è stato necessario sostituirla con la figlia di un locale, campionessa di nuoto che comunque, ha fatto la sua bella fatica ad uscire bene dai ciak di Roeg, ma come spettatori non possiamo dire si essercela passata meglio, perché il regista fa un utilizzo magistrale e sperimentale del montaggio. Sull’urlo disperato di papà Sutherland, il regista sovrappone piccoli flash, visioni del futuro, dell’interno di una chiesa (quindi un funerale) mentre il rosso del cappotto della bambina sporca letteralmente lo schermo, dando non solo indizi sul futuro che ci saranno chiari solo a fine visione, ma facendo un utilizzo espressivo del montaggio, ecco se dovessi dire un pregio di “Don’t Look Now”, uno soltanto tra i tanti che sfoggia, sarebbe questo: il film sul montaggio se non definitivo, quasi.

Il rosso che ha scatenato i titolisti italiani.

Il montaggio, questa pratica misteriosa anche presso molti cinefili, qui mette in chiaro dov’è che un film trova davvero il suo passo e il suo ritmo, “Don’t Look Now” ci dà dentro con la sperimentazione in puro stile anni ’70, ma è anche il titolo che mette in chiaro che un montaggio fatto come si deve, determina la differenza tra una storia già vista ed una in grado, ad ogni visione, di farti sperare che questa volta le cose andranno diversamente, mentre stai lì aggrappato ai braccioli della poltrona a gustarti per l’ennesima volta questo Classido. Un tocco di logo rosso è quello che ci vuole per questo film.

Un ellisse narrativo dopo, i coniugi Baxter sono a Venezia, ufficialmente per lavoro, ufficiosamente per cercare di lasciarsi (invano) il lutto alle spalle, può sembrare un dettaglio da niente, ma proprio il lavoro di John rappresenta un altro indizio, l’uomo deve ristrutturare un affresco che tutti sanno essere un falso, ma se non lo farà, salterà tutto il lavoro e i relativi finanziamenti. Si tratta di una riga di dialogo gettata nel mucchio, ma non fa altro che sottolineare il tema, o almeno uno dei temi ovvero «Niente è come sembra», infatti un attimo dopo al ristorante, entreranno in scena le due sorelle chiaroveggenti, di cui una non vedente, che portano un tocco di folklore italiano in una trama che è strapiena di presagi di morte.

La chiaroveggente cieca che sostiene di aver visto lo spirito di Christine, seduta accanto ai genitori e sorridente, l’enorme quantitativo di specchi, inquadrature riflesse in essi, ma anche superfici riflettenti spesso rotte, incrinate o spezzate, basterebbe dire che anche la locandina originale del film mostra una foto dei protagonisti all’interno di una vistosa cornice, oppure basterebbe l’atmosfera plumbea, grigia di Venezia a dicembre, mai ripresa nei suoi luoghi simbolo da cartolina, sempre fotografata dal lavoro di Anthony B. Richmond assolutamente impeccabile, anche nel far risaltare il rosso.

Gioco alcolico? Si beve ad ogni specchio nel film, avrete bisogno di un fegato da veneti, io ve lo dico.

Volete un altro dettaglio che fa atmosfera ma anche storia (del cinema)? “Don’t Look Now”, ci voleva un veneziano per comporre le musiche di un film tutto ambientato in laguna, Pino Donaggio arrivava dalla nostra musica melodica, questo spiega perché nella colonna sonora è presente anche un pezzo come I colori di dicembre cantato da Iva Zanicchi, anche se quello che conta è proprio il lavoro di Donaggio fatto sulle musiche, così efficaci che un ragazzo del New Jersey in cerca di un nuovo compositore, andava al cinema a (non) guardare “Don’t Look Now” (quindi rendendo onore al suo titolo), tenendo gli occhi chiusi solo per concentrarsi sulle musiche, quel signore era un tale di nome Brian De Palma, che in linea di massima con Donaggio, avrebbe messo su un sodalizio artistico che dura tutt’oggi (storia vera).

Togliete Roeg, le sue scelte espressive e sperimentali, togliete i collaboratori che si è scelto e “Don’t Look Now” si ridurrebbe ad una storia essenziale, il classico horror con americani in vacanza in uno strambo Paese a forma di scarpa, con il tema del lutto sulle loro spalle. Una trama se vogliamo già vista, infatti fin dai titoli ci viene chiesto di non guardare perché non può esserci lieto fine in una vicenda così, non quando una coppia che si ama, deve affrontare il dramma spacca schiena e spacca cuori definitivo, la perdita di una figlia.

Uccidiamo il chiaro di luna, le gondole placide sulla laguna (cit.)

Va detto che Laura e John si amano per davvero, nel senso non platonico del termine, infatti Roeg su questo non tira via la mano, anzi, il film si è passato i suoi bei guai proprio per la scena di sesso, famigerata, ultra chiacchierata e malgrado le numerose smentite di Sutherland, la scena ancora oggi ha fama di essere non completamente simulata, un motivo ci sarà no? Roeg voleva proprio quello, la carnalità, la passione, voleva che fosse chiaro che questa coppia era unita in tutto, certo, aver chiesto ai suoi attori di girare proprio questa torrida sequenza al primo giorno di riprese, deve essere stato un modo per rompere il ghiaccio non proprio usuale, ma era quello di cui aveva bisogno il film, unire i suoi protagonisti, legarli insieme per poi passare il resto dei 110 minuti totali del film a dividerli, anzi, a tenerli proprio separati.

Venezia in questo film diventa quasi un non luogo, certo è Venezia, ci sono i locali che urlano «Ostrega!» quando un cadavere viene pescato da un canale perché sì, a tutto questo si aggiunge una sotto trama su quello che oggi chiameremmo un serial killer in azione nella laguna, che in realtà è un tassello, una tessera del mosaico messo su da Roeg perché per lui Venezia diventa il teatro perfetto per una storia di incomunicabilità, in cui i protagonisti spesso, non capiscono una parola di cosa gli viene detto dai locali (in originale le parti in italiano non sono sottotitolate) perché è un film che va visto proprio così, dal punto di vista di due inglesi, anche se poi la trama ci concentra molto su John, perché questa è una storia di lutto da affrontare sì, ma dal punto di vista maschile.

La faccia di Sutherland mentre cerca di capire le invocazioni all’Altissimo dei locali (anche quello è folklore locale)

Un esempio? Quando Laura scompare e John la cerca ovunque, nel commissariato di polizia l’attore Renato Scarpa che interpreta il commissario Longhi, non parlava una parola di inglese, si limitava a ripetere i suoni che aveva imparato a memoria, anche questo contribuisce all’astrazione, anche se l’arma segreta di Roeg resta il montaggio.

Avete presente quei registi che amano farlo strano (il montaggio dei loro film) solo per sentirsi dire dal pubblico quanto sono intelligenti? Si Chris Nolan, sto parlando con te, proprio tu che sei uno di quelli che ad ogni piè sospinto tessi le lodi di Roeg nelle interviste anche se poi, quanto ti ricordi di seguire la lezione per davvero, vengono fuori i tuoi titoli più efficaci. “Don’t Look Now” è un esempio purissimo di come, con un montaggio non lineare si possa davvero raccontare, scavare nei personaggi, utilizzare le immagini per portare sullo schermo i loro sentimenti ed emozioni. Roeg ci riesce così bene che ad un certo punto sembra quasi che Venezia, questa città in cui tutti i vicoli sembrano uguali (per uno straniero), sia un luogo alieno, lo sfondo perfetto per una storia dove i protagonisti inesorabilmente, finiscono per scivolare via uno dall’altra, sovrapposti come se si muovessero su due piani diversi, due realtà parallele in cui chi decide di non guardare seguendo il monito del titolo, forse potrebbe avere una possibilità.

Un paio di presagi sinistri sparsi qua e là questo film in linea di massima, li avrebbe anche.

Questo ci porta al finale, segnato dall’ossessione, quell’impossibilità anche emotiva che traspare dal montaggio di volersi lasciare alle spalle il lutto, segnerà il destino di uno dei due coniugi, e anche se sempre secondo il principio di nonno Simpson, mi ritrovo a ripetere sempre le stesse cose, questa devo dirvela: trovo più spaventoso qualcosa che ad una prima occhiata non risulta per forza minaccioso (ma “strano” alla vista sì), come accade nella sequenza finale, che funziona anche presa fuori contesto, ma che fa doppiamente paura come apice degli archi narrativi dei personaggi.

Ho visto il film parecchie volte nel corso degli anni, ogni volta che arrivo a quella scena è una delle poche (si contano sulle dita di una mano) in grado di strapparmi un brivido, nulla mi toglie dalla testa che in qualche modo, abbia ispirato il mio Dario Argento preferito, ovvero “Phenomena” (1985) di sicuro è lo shock che tanto piaceva ai titolisti italiani.

Sapete cosa fa davvero paura? Che questa potrebbe essere una gif animata.

Alla sua uscita “Don’t Look Now” non è stato un grande successo, ma siccome Padre Tempo è il miglior critico cinematografico del mondo, si è costruito il suo stato di culto negli anni, ad oggi viene ricordato come un classico, uno dei migliori titoli horror degli anni ’70, parte di un’ideale trilogia, con due vertici su tre britannici, di titoli usciti uno a ridosso dell’altro, in cui la trama prevedeva una bambina in pericolo. Visto che vi ho messo la pulce nell’orecchio ed ora non potrete più pensare ad altro, il secondo titolo, uscito a brevissima distanza dal film di Roeg era The Wicker Man, l’ultimo invece, dovreste averlo intuito, era L’esorcista. Doveva esserci qualcosa nell’aria, negli ultimi mesi dell’anno 1973 e non è detto che non sia ancora in circolazione.

Sepolto in precedenza venerdì 15 dicembre 2023

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