Ci sono due modi per approcciarsi a questo “A Working Man”, il primo, quello da penna stipendiata che non ha un cazzo da dire, morto dentro perché guarda quarantacinque film al mese ma il suo vero interesse è la formula uno e figurati se poi gli può interessare una roba tutta picchia picchia, spara spara, per di più scritta da quello con la pelliccia di Barbie. Non Ken, l’altro. Quello bravo.
Queste penne stipendiate riguardo al titolo di oggi, potrebbero al massimo essere interessate alla dietrologia, film d’azione, con Giasone Statham, diretto da uno ormai specializzato (visto che pare aver gettato alle ortiche le velleità da autore) come David Ayer, tratto dal primo di una serie di romanzi scritti da Chuck Dixon, uno che sulla fine degli anni ’80, primi anni ’90, si è fatto un nome sfornando uno dei cicli di storie più mitici del Punitore per la Marvel Comics, il tutto, adattato per il grande schermo da Sylvester Stallone, recentemente nominato suo uomo sul campo, dietro le linee nemiche di Hollywood dal presidente in carica degli Stati Uniti, storia vera, qualunque cosa questo titoli comporti.
Insomma uno di quei film con così tanto testosterone dentro, da farti crescere la barba e i peli sul petto anche se non sei nato con il cromosoma Y, insomma, una bella rimestata alla teoria del gender che guarda caso, si traduce in un film che ha avuto il “primato” (se di tale possiamo parlare) di scalciare via dal primo posto nella classifica degli incassi, un film come “Biancaneve”, che non ho visto, perché con la merda live action con cui la Disney si para le chiappe da cause legali ho chiuso da tempo, ma che è diventato il bersaglio, se non il titolo simbolo di quella cultura dei piatti cucinati con il Woke che sembra il male supremo del nostro tempo. Un’economia messa in ginocchio da scelte economiche almeno bislacche, conflitti aperti in luoghi caldi del mondo, lavoro che non si trova, interi settori a picco, il riarmo venduto come soluzione a tutti i problemi, ma se due uomini o due donne si danno un bacetto perché si amano, o decidono di scegliersi il pronome… APOCALISSE!
Poi ci sarebbe l’altro modo per approcciarsi a questo “A Working Man”, il secondo, quello giusto, quello della Bara Volante, perché “Levon’s Trade” è un bellissimo titolo, ma “A Working Man” è un titolo anche migliore, che per altro era nel mirino di Stallone da tempo, che con la sua Balboa Productions avrebbe voluto farne una serie tv, finendo poi per produrre invece un film anche grazie al coinvolgimento di David Ayer che nel frattempo, è diventato il regista preferito di Jason Statham.
Seguitemi per un momento nel giochino dei gradi di separazione, perché qui sono meno dei soliti sei, quando Stallone ha una sceneggiatura per le mani, non abbastanza tosta per recitarci, ma comunque molto riconoscibile nello stile e nei contenuti, di solito la passa al suo delfino Jason Statham, volete un esempio? Tornate con la mente al 2013 a “Homefront” Giasone nostro che picchiava quel cattivone di James Franco, quando non era di moda farlo. Zio Sly profetico.
Altro giro di dadi, Statham quando può si sceglie registi che conosce e predilige, ultimamente il suo nome di punta è quello di David Ayer, che ha abbandonato il suo cinema di soldati e poliziotti, rifugiandosi dietro ai muscoli di Giasone, proprio per questo “A Working Man” potrebbe essere riassunto così: un seguito di The Beekeeper (senza esserlo) mescolato con “Homefront”.
I tre film non hanno legami, nemmeno personaggi comuni se non un protagonista scarsi crinito e molto incazzato che risolve a pugni un altro problema sociale, in “Homefront” era James Franco, in The Beekeeper le truffe informatiche ai danni degli anziani in “A Working Man” la tratta degli esseri umani.
Levon Cade (Giasone), un ex agente Black Ops dei Royal Marines, conduce una vita pacifica come operaio edile. I suoi problemi? Emanare delle vibrazioni da padre single, divorziato da una stronza (il film non lo dice, ma lo fa capire), con un lavoro onesto ma non abbastanza conto in banca per poter mantenere l’affidamento della figlia.
La svolta arriva quando Jenny (Arianna Rivas) la figlia adolescente del suo capo viene rapita da trafficanti di esseri umani che vorrebbero avviarla sulla via del lavoro più vecchio del mondo. Il recensore stipendiato di cinema. Siccome Levon ha un gran rapporto con la famiglia del suo capo (Michael Peña che rappresenta la quota attori pretoriani del regista) dall’uomo riceve soldi e carta bianca per fare quello che lui, padre della nuova scuola, non ha i mezzi per fare, giusto il denaro per finanziare. Capite che tutto questo non è proprio in linea con quello che si aspetta di vedere qualcuno che va in sala a vedere “Biancaneve” no? Bene, andiamo avanti perché poi peggiora.
Il fatto che Jenny venga rapita dopo la disco, dopo aver ballato “Born to be alive” (ma che, davvero?) e dei balli irlandesi (che cazzo di discoteca è?) vi fa capire quanto di base questo film sia rivolto al pubblico della mia età o più, cioè la GenZ ci va ancora in discoteca? Miei dubbi a parte, va detto che per tutto il film la rapita Jenny sembra più preoccupata del tempo che non passa mai in cattività della sua condizione, perché il vero fuoco del film, la vera battaglia, è interna.
“A Working Man” è una sceneggiatura Stalloniana fino al midollo, non si concede alleggerimenti comici, come da abitudini di zio Sly, inoltre oppone un ruvido ex soldato contro un problema sociale più o meno caldo e stringente, il tutto intinto in quell’aurea da eroe proletario che comunque è comune a quasi tutti i personaggi Stalloniani. Così come il rapporto del protagonista con il veterano Gunny Lefferty (David Harbour, gustosamente sopra le righe) molto in stile Sly, primo strato del film, passiamo al secondo.
Il “Film di Jason Statham” ormai è un genere, potremmo dire che è così già da tempo, prima era “Film di Sylvester Stallone” o ancora prima “Film di Charles Bronson”, nulla di male in questo, quindi Giasone fa Giasone, senza bisogno di spogliarsi restando a petto nudo, mena come un fabbro, sfida qualcuno con il coltello e utilizza la grande stampella di sostegno degli eroi d’azione (fucili d’assalto e armi varie), insomma tutto il suo campionario solito e solido, ormai comprovato che qui si traduce in tizi pestati con secchi pieni di chiodi e quant’altro, e anche il secondo strato del film è andato, via con un altro?
Non mancano nemmeno ammazzamenti articolati, come la tortura della sedia, con Jason Flemyng tenuto in equilibrio (precario) sul bordo di una piscina, che non può non far pensare al tocco di zio Chuck Dixon, lui che faceva torturare i criminale al suo Punitore, usando una saldatrice, una frase ben argomenta e beh, un ghiacciolo. Chi lo sa lo sa, chi lo sa, leggeva bei fumetti negli anni ’90. Terzo strato portato alla luce, via con l’ultimo!
David Ayer, non è mai più stato lo stesso dopo le scoppole prese dalla Warner per il suo Suicide Squad, ma è inutile piangere sul latte sparato (forse ho sbagliato il proverbio…), il nostro è rimasto all’interno del cinema di genere, facendo un mezzo passo indietro, forse in attesa di tempi migliori però è chiaro che se il capo dei motociclisti a cui si rivolge Levon, sta seduto su un trono cromato e la sua banda, invece del classico casco da moto, utilizza elmi da vichingo e da samurai, beh questo è il tocco di Ayer.
“A Working Man” dura 116 minuti, forse anche qualcuno di troppo perché in certi momenti il ritmo rallenta, non sarà mai considerata la sceneggiatura più scintillante di Stallone o il più memorabile film di Giasone e Davidino, ma per questo trio, tutti al servizio di un vecchio leone con Chuck Dixon, possiamo dirlo è una normale giornata di duro lavoro, che poi sia comunque meglio di una roba fatta dalla Disney per evitarsi cause legali, a questa Bara interessa meno di niente. Certo se uno dei momenti chiave, la “frase maschia” del protagonista è una roba tipo «Tu non hai figli, tu non puoi capire» come l’ultimo dei genitori che lascia urlare e smoccolare il figlio al cinema o al ristorante, vuol dire che le idee sono finite, ma comunque bastano per battere una roba cucinata con il Woke. Siamo proprio messi male, voi che dite? Io per oggi, come Giasone, il mio lavoro l’ho fatto.
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