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Ai confini della realtà (1983): vuoi vedere una cosa che fa davvero paura?

C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce, è quella in cui si chiede a Cassidy di scrivere in contemporanea di quattro dei suoi registi del cuore, portando la sua Bara in una regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere: è la regione dell’immaginazione, una regione che potrebbe trovarsi “Ai confini della realtà”.

«Questa è la storia di Cassidy, un blogger che ora dovrà scrivere di quattro dei suoi registi preferiti. Tutti insieme»

Se dovessi indicare il prodotto d’intrattenimento, con il peso specifico equivalente a quello dell’oro in termini di portata, influenza e capacità di imprimersi a fuoco nella cultura popolare e nel cuore di due, forse tre generazioni di spettatori, non avrei dubbi, l’appassionato di storie (se strambe tanto meglio) che è in me sa benissimo di dovere tutto a Rod Serling e alla sua “The Twilight Zone”, andata in onda dal 1959 al 1964 e ancora oggi, con tutte le sue cosine al suo posto per rendervi spettatori migliori. Sul serio, per me tutti una volta nella vita dovrebbero affrontare il formato antologico e le storie fantastiche, horror, beffarde, ciniche, qualche volta tenere e piene di strambe creature di “Ai confini della realtà”.

Spielberg lavora per la polizia di Los Angeles. Il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco (cit.)

Basterebbero i nomi degli spettatori che come e più di me, nel corso dei decenni, si sono lasciati incantare, ve ne cito solo quattro: John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante e George Miller. Il fatto che siano quattro dei miei preferiti è già un regalo, metteteci poi che nel mio anno di nascita questi quattro cavalieri abbiano unito le forze per omaggiare al cinema la serie di Rod Serling e davvero sembrerebbe una di quelle combinazioni curiose alla base di una puntata di “The Twilight Zone”.

Potete essere fighi, ma non sarete mai fighi come Joe Dante con una Panavision.

I due mattatori dell’iniziativa sono stati i “Due amigos” Landis e Spielberg, che ai tempi facevano comunella avendo messo su un bel rapporto d’amicizia, tanto che ognuno compariva (anche come attore) nei film dell’altro. Quando però hai a bordo uno come zio Steven è un attimo calamitare talenti, in quel periodo l’astronauta Joe Dante, uscito dalla galassia Corman era entrato nell’orbita di Spielberg, mentre allo stesso modo, il buon Steven aveva messo gli occhi su un Australiano pazzo armato di gran talento, che avrebbe fatto comodo per volare ai confini della realtà, insomma radunati i “Fantastici quattro” si poteva decollare verso un’altra dimensione.

Prologo (regia di John Landis)

In un film i primi cinque minuti sono fondamentali, in un horror ancora di più e qui lo dico e non lo negherò mai, in un’ipotetica classifica delle migliori partenze a freddo di sempre della storia del cinema, per me il prologo di “The Twilight Zone: The Movie” resta un gioiello, tra i migliori dieci mai visti di sempre o giù di lì.

Il mio amico John Landis e l’arte del prologo.

Dan Aykroyd (pretoriano di Landis) e Albert Brooks guidano di notte in auto e si cantano felici Midnight Special nella versione dei Creedence Clearwater Revival (segni di continuità Landissiana e ottimo buon gusto musicale), quando l’autoradio si mangia il nastro si passa al gioco indovina la sigla, che è un modo sfizioso per arrivare ad introdurre quella celebre di “Ai confini della realtà” ricordando vecchi episodi, come quello con Burgess Meredith, che qui nel film ricopre il ruolo di voce narrante.

The Blue Brother.

Quella frase pronunciata dal sornione Dan («Ehi, vuoi vedere una cosa che fa davvero paura?») per me è leggenda, la prima volta che ho visto il film e il prologo, con quel suo ritmo tutto paciarottone, tipo gita tra amici, seguito da quella trasformazione, ho voluto tantissimo bene a Landis che con una trovata folle ha saputo riassumere alla perfezione come l’elemento fantastico sapesse entrare a gamba tesa sulle caviglie del pubblico, rispettando in pieno lo stile di Rod Serling, basterebbe questo inizio a fare di “Ai confini della realtà” un classico anzi… un Classido!

Il mio amico John Landis si prende in carico anche il compito di dirigere il primo episodio del film, l’unico totalmente originale (oltre al prologo) quindi… Parliamone!

Primo episodio: “Time Out” (regia di John Landis)

Bill Connor, interpretato dall’attore e regista Vic Morrow ha un problema, è un razzista di merda. Uno di quelli che oggi passerebbe le sue giornate a vomitare bile sui Social-cosi con commenti che iniziano con “Io non sono razzista però…”, nel 1983 invece si limitava a far irritare tutti con le sue frasi ignoranti al bar, salvo poi varcare la soglia per ritrovarsi nella Francia occupata dai Nazisti, in piena seconda guerra mondiale e costretto a fuggire dai soldati della SS pronti ad eliminarlo, perché lo vedono come un ebreo.

Un personaggio identico a tanti leoni da tastiera che infestano i Social-Cosi (e le urne)

La corsa di Bill però non termina qui, sempre più spaesato e terrorizzato viene scambiato per un nero da alcuni fanatici del Ku Klux Klan pronti ad appenderlo per il collo ad un albero, fino a ritrovarsi non si sa come, nella giungla vietnamita, preso a mitragliate dai soldati Yankee ai cui occhi compare come uno dei “Charlie”. Insomma puro Landis, che restituisce pan per focaccia alla categoria di popolazione americana che da sempre rappresenta il suo bersaglio preferito: americani bianchi, ottusi, economicamente agiati, razzisti e di conseguenza, molto spesso Repubblicani.

Il finale dell’episodio sembra un po’ tirato per i capelli: Bill fa un giro completo e si ritrova alle prese con i Nazisti (non dell’Illinois), basta il suo urlo, mentre il treno diretto ad uno dei campi parte, a far raggelare il sangue, anche se il protagonista è uno schifoso bastardo, Landis riesce nel suo intento mandando a segno il secondo momento più spaventoso del film dopo il prologo. Anche se beh, volete sapere una cosa che fa davvero paura? Allora dobbiamo proprio parlare del perché quel finale, inventato in corsa per concludere l’episodio, per quanto efficace, sembra così tirato per i capelli.

Era più facile fare il nostalgico quando quelli in divisa nera non cercavano te, vero?

I piani originali del segmento di Landis erano differenti, Bill avrebbe dovuto redimersi portando in salvo due bambini vietnamiti dal bombardamento americano sul loro villaggio, purtroppo i fatti hanno cominciato ad andare come in un episodio di “Ai confini della realtà”. Rendendo onore alla sua fama di artista delle scene “spaccatutto”, Landis voleva girarne una di notte, omettendo però di informare la produzione, che gli avrebbe vietato di far lavorare Myca Dinh Le (sette anni) e Renee Shin-Yi Chen (sei anni), visto che i minori per contratto non possono lavorare nottetempo.

Con quel suo atteggiamento scherzoso, tipico di chi, quasi da solo, ha tenuto alta la torcia dello spirito degli anni ’80, Landis ha girato la scena lo stesso e qui, come in un capitolo a caso di “Final Destination”, una serie di sfortunate decisione, miste a sfiga e ad una catena di errori, hanno portato al peggio: l’elicottero volava troppo vicino a terra, le cariche necessarie a simulare le esplosioni sono esplose troppo presto e troppo vicino alle pale dell’elicottero che precipitando, finì prima per decapitare Vic Morrow e Myca Dinh Le e poi per poi colpire con uno dei pattini Renee Shin-Yi Chen.

Ve lo avevo detto che era una cosa che faceva veramente paura.

Il processo che ne seguì vedeva tra gli imputati accusati di omicidio preterintenzionale il regista John Landis, i produttori George Folsey Jr. e Dan Allingham, il responsabile degli effetti speciali Paul Stewart e il pilota dell’elicottero, Dorcey Wingo. Furono necessari nove mesi di processo per determinare cause e responsabilità, alla fine dei quali tutti vennero assolti perché nessuno aveva manifesta volontà di uccidere, purtroppo è stato un caso emblematico di errori a cascata che ha portato alla modifica di molti regolamenti ad Hollywood, sull’impiego degli elicotteri e dei lavoratori sui set, oltre alle norme di sicurezza.

Il momento più difficile della vita e della carriera del mio amico John.

In attesa di giudizio, Landis continuò a lavorare e a sfornare film, continuando a sfoggiare il suo atteggiamento sornione, ora, badate bene, questo non vuol dire che Landis non sia stato pesantemente toccato dall’errore compiuto sul set o che se ne sia andato in giro vantandosi di aver involontariamente portato alla morte di uno dei suoi attori, però senza fare il Freud da supermercato è anche abbastanza chiaro che uno con lo spirito di Landis, si sia aggrappato a tutto pur di non perdere la testa, anche perché quella ancora oggi la rischia nel caso dovesse mai incontrare per strada Jennifer Jason Leigh, figlia di Vic Morrow, che non ha mai perdonato il regista di Chicago, inoltre proprio per la sua reazione, l’amicizia tra Landis e Spielberg è andata in pezzi, tanto che il papà di E.T. non ha mai più voluto frequentare il vecchio amico. Ve lo avevo detto che era una storia (vera) che faceva paura no? A proposito di zio Steven, passiamo a qualcosa di più leggero.

Secondo episodio: “Il gioco del bussolotto” (regia di Steven Spielberg)

Come si riassume, ormai da decenni, il cinema di Spielberg? Con una frase: persone ordinarie in situazioni straordinarie. Che a ben guardare si adatta alla perfezione anche all’opera più famosa di Rod Serling, infatti dopo gli orrori di Landis (dentro e fuori il film) ci pensa il regista di Cincinnati a portare un po’ della sua melassa, quella che è l’unica e questa si davvero stucchevole critica dei suoi detrattori.

In un modo o nell’altro, il cinema di Spielberg è sempre ad altezza bambino.

L’episodio scelto è un rifacimento dalla puntata 3×21 (“Calcia il barattolo”) scritta ai tempi da George Clayton Johnson. Il segmento è tutto ambientato nella casa di riposo di Sunnyvale, dove grazie ai misteriosi poteri del signor Bloom, un gruppo di anziani tornano – letteralmente – bambini e se esiste un soggetto più spielberghiano di questo vi prego, segnalatemelo, perché questo trionfo di “Spielberg face” che fa scomparire le rughe meglio dei filtri è puro zio Steven al 100%.

Attori non scelti certo a caso presenta: Scatman Crothers.

Anche perché secondo voi è un caso che il magico signor Bloom, colui che trasforma tutti in bimbi (sperduti) sia interpretato da Scatman Crothers, lo stesso che aveva in precedenza interpretato un personaggio magico per Kubrick? Zio Steven che rende omaggio al vecchio Stanley, ribadisco, puro Spielberg, per un episodio dall’atmosfera sognante e davvero molto riuscito, che idealmente si collega alla perfezione al successivo, anche quello con protagonista un bambino.

Terzo episodio: “Prigionieri di Anthony” (regia di Joe Dante)

Bisogna sottolinearlo, il Joe Dante di questo episodio era un regista che nel 1983 aveva appena firmato quella bomba di L’ululato, ma non era ancora quello che aveva regalato al mondo Gizmo. Il regista del New Jersey stava lasciando l’ala protettiva di Roger Corman per trasferirsi sotto quella di Spielberg e “Prigionieri di Anthony” è il miglior biglietto da visita, oltre che un segmento in equilibrio tra lo spirito di entrambi i “padrini” di Dante. Rifacimento della puntata 3×08 “Un piccolo mostro”, basata su una storia breve di Jerome Bixby, la storia inizia con la maestra di scuola, Kathleen Quinlan, che fermandosi in una tavola calda, chiede indicazioni a… Dick Miller!

State viaggiando nel Dante-verso.

Ripartendo con l’auto quasi investe il piccolo Anthony (Jeremy Licht), sentendosi in colpa decide di riaccompagnarlo a casa ed è qui che farà la conoscenza della famiglia, fin troppo ossequiosa nei confronti del bambino, tanto da guardare a ripetizione tutti insieme sempre lo stesso cartone animato, il preferito di Anthony. Tutti pronti a festeggiare ogni giorno il non-compleanno del bambino, con pranzi a base di hamburger con burro d’arachidi, una porcata che potrebbe amare solo un bimbo, però servita con contorno di patatine fritte.

Buono una volta, due, poi ringrazi di non avere più la bocca.

«Succedono cose incredibili nei cartoni», la frase esce dalla bocca di Anthony ma è il “manifesto programmatico” di Joe Dante, Maestro ed enciclopedia vivente dei classici di genere, cresciuto con i Looney Tunes e Mel Blanc nel cuore, il nostro Mighty-Joe qui per la prima volta in carriera, fa una cosa che diventerà una mossa ricorrente nel suo cinema, ovvero trasformare gli attori in cartoni animati. I poteri semi divini di Anthony, utilizzati senza alcuna responsabilità sono un elemento horror che Dante sfrutta alla perfezione, quindi muovendosi alla grande su questi due binari, vediamo sorelline punite per aver parlato troppo a cui è scomparsa la bocca, come quando a Daffy Duck cade il becco.

That’s all folks! (quando il coniglio non è troppo felice di uscire dal suo cilindro)

Oppure assistiamo all’entrata in scena di spaventosi conigli horror usciti dal cilindro insieme ad altri mostri da piccolo schermo che mettono in chiaro molto della direzione che prenderò la filmografia di Mighty-Joe, oltre a mandare in scena l’episodio più folle di tutto il lotto. Joe Dante è una fede, si può sempre contare su di lui, mi piace anche il finale, con una spolverata di critica sociale che Dante sa sempre gestire bene senza risultare bacchettone, insomma un vero spettacolo nello spettacolo che ci conduce per mano al gran finale.

Quarto episodio: “Terrore ad alta quota” (regia di George Miller)

Il terzo episodio della stagione finale di “Ai confini della realtà” intitolato “Incubo a 20.000 piedi”, ancora oggi è molto probabilmente il più famoso tra tutti quelli sfornati dalla serie di Rod Serling, anche perché è una puntata dove la serie si è giocata i pezzi da novanta: diretto da Richard Donner e sceneggiato da colui che ha scritto tutte le migliori puntate di “The Twilight Zone” ovvero il Maestro Richard Matheson. La puntata in questione è diventata leggendaria anche perché tutti ricordano William Shatner, in panico da volo alle prese con un gremlins sull’ala dell’aereo che pare vedere solo lui. Lo dico subito, se l’episodio fosse stato affidato a Joe Dante sarebbe stato clamoroso, per fortuna lui ha avuto modo di scatenarsi con i pestiferi sabotatori delle leggende urbane della seconda guerra mondiale più avanti nella sua carriera.

«Signor Sulu, sullo schermo»

Capite da soli che Landis e Spielberg sono stati molto astuti a lasciare i due episodi più esplosivi per il finale, affidandoli a due registi, pare strano dirlo, ma al tempo, meno celebri. L’altra conclusione facile a cui si arriva è ancora più lampante: secondo voi chi può avere il fegato di prendersi la briga di dirigere il finale di un film in crescendo, confrontandosi con nomi come i due Dick, Donner e Matheson e il capitano Kirk? Ci vuole un pazzo per fare qualcosa del genere no? Un pazzo, oppure un australiano, che poi è quasi un sinonimo, ma per nostra fortuna il futuro appartiene ai folli ma soprattutto a George Miller.

Pipa e baffo, sembra il commissario Maigret ma invece è il regista George Miller.

Miller per non saper né leggere né scrivere pensa bene di fare subito la migliore delle scelte possibili, affidando il personaggio che fu del capitano Kirk a uno dei prediletti di questa Bara, non è male avere uno dei migliori attori al mondo al centro di un episodio che ruota tutto attorno al protagonista, se invece non vi siete ancora iscritti al fan club di John Lithgow, oggi vi offro un’altra occasione per farlo.

«Vi prego, iscrivetevi al mio fan club, altrimenti Cassidy mi farà fare un giro su quella sua Bara Volante ogni settimana!»

John Lithgow è talmente monumentale in questo segmento, da non avere nemmeno una stilla di sudore fuori posto, basta un attimo per scadere risultando caricaturale quando devi recitare uno che odia volare, in pieno panico a 20.000 piedi d’altezza su un aereo, Lithgow è semplicemente magnifico, inizia in preda al terrore chiuso nel gabinetto dell’aereo e finisce come un personaggio la cui mente è scivolata oltre i confini della realtà alla perfezione, un gigante!

Non ci vuole un attore grande ma un grande attore, oppure nel dubbio, John Lithgow.

George Miller astutissimo, riesce a trovare inquadrature dinamiche malgrado il suo protagonista incastrato in un incubo dagli spazi ristretti, la sua regia è ansiogena e paranoica con tutti quei primi piani sul terrorizzato Lithgow, le inquadrature volutamente sghembe riflettono la mente del protagonista ma anche il modo “storto” con cui gli altri passeggeri lo guardano credendolo pazzo, anche perché andiamo! Non può esserci davvero qualcuno sull’ala dell’aereo, intendo a smontare uno dei motori. La regia di Miller è così dinamica malgrado gli spazi ristretti che viene quasi da aspettarsi che il gremlin sull’ala ad un certo punto si metta ad urlare: «AMMIRATEMI!!»

AMMIRO! AMMIROOOOOOO!

Se questo segmento è di suo già un gioiello, in grado di essere ben all’altezza dell’episodio originale, il suo finale è la ciliegina sulla torta, non solo perché John Lithgow si fa carico della mia passione per i CCR, ma perché sulle note di Midnight Special va in scena l’epilogo perfetto, quello che si ricongiunge nel modo migliore possibile con il prologo, il ritorno in scena di Dan Aykroyd dà al film un senso di circolarità a questo bel viaggetto.

La mia vita: un riassunto per immagini.

Con poco meno di trenta milioni di fogli verdi stampati su carta verde portati a casa, “Twilight Zone: The Movie” è un buonissimo successo che ha saputo imprimersi a fuoco nella memoria collettiva, la vera dimensione del successo ci arriva dalle parodie (che nei Simpson e in “Johnny Bravo” non sono mancate) ma soprattutto dalle imitazioni, di gran classe va detto, perché è stato proprio grazie al successo di questa operazione, tra l’omaggio e la malinconia, che i vertici della CBS si convinsero che il pubblico era ancora pronto per viaggiare in un’altra dimensione, riportano “Ai confini della realtà” sul piccolo schermo, anche grazie al lavoro di registi come Wes Craven.

Siamo alla fine del post quindi, occhio!

Insomma tutto avrei potuto fare, ma non perdermi il compleanno di questo mio coetaneo, diretto a più mani da molti dei preferiti di questa Bara, quindi grazie per aver volato con noi… Ai confini della realtà.

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