Avevo un sogno, un post che mettesse a confronto le due versioni di “Aladdin” della Disney, e per realizzarlo ho utilizzato uno dei miei tre desideri, evocando un genio… Quinto Moro! Godetevi il risultato della sua magia.
Premessa: non ho visto tutti i remake della Di$ney ma in generale non credo che il “live-action” basti a giustificare un film. Non sono mai stato un fan della Disney ma la mia fase l’ho avuta, e di Aladdin ch’era stato uno dei maggiori successo negli anni ’90 avrò consumato la vhs come d’uso durante l’infanzia: vedere e rivedere un film fino ad impararlo a memoria.
Il remake me l’han venduto le entusiastiche recensioni (reclamo il nome – e la testa – di chi le ha scritte) e voci di corridoio che lo davano come ben fatto e divertente. I corridoi. Che brutti posti. Ma da dove cominciamo? Da quando fosse bello il vecchio o da quanto sia inutile il nuovo? E chi è davvero più vecchio e più nuovo? Non sarà una cosa breve né indolore. Esattamente come il remake.
Il film del 2019 è girato come una telenovela argentina anni ’80, con molti più soldi e CGI, ma senza quella cosetta che non dovrebbe mai mancare: la voglia di stupire il pubblico e la sincera voglia di modernizzare un’opera. Ma è questo il guaio: l’Aladdin del ’92 non è affatto un film datato, è anzi più moderno e attuale del remake se consideriamo il ritmo e la chimica tra i personaggi. La storia di Aladino viene nientemeno che dalle celeberrime “Mille e una notte”, e se il risciacquo disneyano aveva già alterato il racconto originale (com’è da sempre nelle politiche disneyane) manteneva lo spirito esotico e da fiaba, elementi di fascino svaniti nel remake. La Disney mi fa pensare sempre più all’Agente Smith per parla della razza umana: un virus, un’infezione estesa che divora case di produzione, brand, marchi, storie e personaggi. Non per avidità, perché cosa desidera chi ha potere? Maggior potere.
Citando il buon vecchio Cassidy che veglia su di noi come un becchino guercio con la pala in mano, i primi 10 minuti di un film spesso ne determinano l’andazzo, e nell’Aladdin del 2019 si sente presto l’aria da spettacolino teatrale fatto con pacchi di soldi ma poca inventiva. Le scene mancano di ampiezza, di grandezza, di respiro. Sembra quasi tutto girato in un teatro di posa o davanti al green screen, il che dà l’idea di quanto si sono impegnati a pensare in piccolo se il set di Agrabah era grande quanto due campi da football. Ma visto che si tratta di Aladdin almeno posso esprimere i miei tre desideri, il primo è: Genio, voglio rivedere il Classico del ’92!
L’ultima volta che ho visto il Classico avevo forse 11 o 12 anni. Precisazione: oggi guardo i film animati quasi con più piacere che durante l’infanzia, ma il merito è per lo più di un certo Studio Ghibli e dintorni nipponici, con un asterisco sui lavori Pixar. Ma se parliamo di Di$ney non mi sento invogliato a recuperarli. Ho proprio un blocco psicologico.
L’Aladdin del ’92 durava 80 minuti di pura magia e ritmo, la versione 2019 ne dura 100: impiega più tempo per dire la metà delle cose con un quarto del divertimento. Ciò che mi ha stupito del Classico è che proprio i numeri musicali non sono pesanti, il brano introduttivo sui titoli di testa funziona e ci accompagna nella magica atmosfera orientale, mentre gli intermezzi canori sono brevi e così ben misurati da non soffrir mai della nausea da musical, com’è invece nel remake. Le vecchie canzoni sono appesantite da nuovi versi, il brodo è stato allungato (con acqua di rubinetto, di quella torbida), e la qualità è altalenante.
L’Aladdin del ’92 sorprende ancora per il ritmo e la qualità visiva e musicale, contando su una sceneggiatura in cui ogni singola frase sta al punto giusto per far scorrere il racconto, sottolineare un’emozione o un’azione. La “recitazione” degli attori di carta è ricca di sfumature in ogni singola movenza e smorfia, mentre gli attori in carne e ossa risultano ben più finti e ingessati, incapaci di replicare la spontaneità delle controparti cartoonesche. Non è un caso se Glen Keane, l’animatore di questo Classico, è stato protagonista per un trentennio dell’animazione Disney, e della sua rinascita anni ’90. Fa sorridere che il casting del remake sia durato mesi coinvolgendo più di 2.000 attori per scegliere quelli giusti. L’ultimo casting così lungo è stato quello per Anakin Skywalker e sappiamo tutti com’è finita…
Naomi Scott ci si impegna come nessun altro membro del cast, pare metterci tutta la volontà del mondo per far funzionare il personaggio, l’inedita scena musicale in cui affronta Jafar è una delle poche cose riuscite e l’unico vero momento di gloria per Jasmine (su di lei ci torniamo). Will Smith, di cui avevo sentito mirabilie, si mantiene su una simpatia passabile ma lontana dall’esplosività della sua controparte cartoonesca, gli manca la mimica facciale e fisica del Genio originale e non la recupera nemmeno con la CGI posticcia.
Mena Massoud è un Aladdin sciatto che recita con due sole smorfie, una delle quali è il sorrisino-bocca-storta violazione del copyright Ben Affleck. Massoud non ispira simpatia né sa farci tifare per l’eroe. Non è tutta colpa sua, visto che Aladdin è stato (ri)scritto peggio che mai. E non aiuta un doppiaggio da denuncia nelle scene musicali, col labiale costantemente fuori sincrono. Ci sono momenti imbarazzanti, le canzoni sembrano montate a caso. Ma sapete la mia seconda reazione alla visione del remake? La prima è stata rivedere il Classico, la seconda rivedermi La La Land! (La Bara Volante Inc. è autorizzata tenuta ad utilizzare apposito link per esprimere cosa Cassidy e Quinto Moro pensino di LLL). Come mangiare un cibo cui sei allergico ma cucinato da Gordon Ramsey, pur di cancellarti dal palato il sapore del cibo d’ospedale. Cioè ho dovuto rivedere due film per riequilibrare la mia dieta cinematografica.
C’è un altro elemento su cui ragionare: la durata del film. Una volta a casa Disney sapevano di fare film “per bambini” e che le storie dovevano essere compatte e scorrevoli per non perdersi il pubblico per strada (né per far perdere la pazienza a quello adulto la cui soglia di sopportazione di cartoni e canzoncine non era altissima). Si dice che la soglia d’attenzione massima si abbia nei primi 20-30 minuti di qualsiasi cosa, poi il cervello si scazza e ci mette il suo tempo a riprendersi (sarà per questo che la parte centrale dei film sembra sempre la più fiacca?). Ma oramai se non giri una roba di 2 ore le major non sono contente, come se “per girare un film grande ci vuole un minutaggio grande”, come in quella vecchia pubblicità di pennelli.
Ma l’altra cosa brutta è che alla Disney sembrino convinti che se devi metterci degli attori in carne e ossa devi cambiare il tono del film, togliendo quelle piccole gag di cui l’animazione vive. Nel Classico, all’ingresso nella Caverna delle Meraviglie il tappeto scherza con Abu, è una scena piccola e molto simpatica che parrebbe quasi superflua, e invece sono quei momenti fondamentali in cui si gioca coi personaggi per giocare col pubblico, le piccole gag che spezzano il flusso della trama e alleggeriscono l’atmosfera sono la linfa dei film. Quando poi racconti una fiaba, questi passaggi diventano importanti per introdurre l’elemento magico, ma nell’iperminutaggio del nuovo Aladdin non c’è posto per i momenti di puro gioco se non sono funzionali alla trama e ai “messaggi” che si vogliono lanciare. Anche su questo ci torniamo…
Certo, anche il Classico aveva le sue ingenuità, il voltafaccia del Sultano a Jafar, troppo repentino, rientrava nella logica dei tempi stretti per non perdere il ritmo e correre verso il gran finale. Ma la magia nel vecchio Aladdin è sempre presente, a cominciare da una fotografia stupefacente. Prestateci attenzione e vedrete una cura certosina nell’uso dei colori: l’arancio e giallo delle sabbie in contrasto col blu del Genio e le costanti tonalità di viola (usate in continuazione, specie per le ombre), il modo in cui i fondali verde scuro fanno risaltare i personaggi nelle scene diurne (succede più volte), un’armonia cromatica presente ad ogni cambio di scena per un continuo gioco di colori sconosciuto a scenografi e fotografi del remake, in cui tutto è sì coloratissimo, ma in modo confuso. Anche il Palazzo, meraviglioso con quegli ampi spazi e sfondi color marmo del Classico, diventa un luogo confuso in cui la ricchezza delle scenografie si perde in quella regia da soap opera e nella fotografia che non fa mai risaltare nulla. Caro il mio Guy Ritchie, un po’ di scuola da Winding Refn vogliamo farla? Io ci farei un pensierino se pure i costumi, osannati dalla critica, fanno sembrare tutto una bambinesca mascherata. Si salvano quelli di Jasmine, ma non si capisce perché il Gran Visir debba andare in giro con l’armatura, o come facciano gli stracci di un ladruncolo ad essere così lindi…
Il remake muore là dove il Classico sbocciava: nella magnificenza visiva, ma soprattutto nella narrazione e nel ritmo. Tutto succede perché “deve succedere” in quel preciso ordine, il richiamo a quella vecchia battuta, quella parola, un evento modificato che deve innescarne un altro identico al passato. Anche gli arrangiamenti musicali non aggiungono niente al passato, e le canzoni sono cover eseguite come un compitino. Anzi sono la cosa migliore nella mera esecuzione musicale, perché erano fantastiche 27 anni fa e lo sono ancora oggi, è la connessione tra audio e video a mancare di poesia.
A lasciarmi basito è stata la regia di Guy Ritchie, il cui stile e capacità di gestire le scene d’azione non si vedono neanche di striscio. Difficile entusiasmarsi oggi per le sequenze della Caverna delle Meraviglie o della fuga da palazzo a bordo del tappeto volante. Per non parlare dell’escalation finale quando Jafar dà fondo a tutta la sua cattiveria: sbadigli e noia contro quei venti minuti di passione del Classico, dove si soffriva per il destino dei protagonisti, Jafar sembrava invincibile e vederlo trasformarsi in serpente metteva una paura fottuta.
Allora cosa li fanno a fare questi remake? Insomma, a parte incassare centinaia di milioni a botta… ok, domanda stupida. Ma la riscrittura ha fatto più danni della grandine sulle Colline del Prosecco: Jafar da supercattivo avido di potere diventa uno sfigato tormentato dall’essere “sempre secondo” (WTF???) e se ne sta immusonito e con gli occhi spiritati, figlio della tendenza al “nuovo” cattivo-fighetta-arrabbiata-col-mondo che se la prende coi buoni più per sua mediocrità che per convinzione (coff… Kylo-coff-Ren… coff). Jafar era un cattivo che amavi odiare, avido di potere, marcio e lercio fino al midollo, e il tentativo di dargli un background – poteva essere una buona idea – è sfruttato male, anche per la scelta di un attore troppo giovane, privo del carisma della sua controparte di cartone. Aladdin che sembra trovarsi sulla stessa china del cattivo, per mostrare quanto simili e vicini siano i percorsi dei due personaggi, resta abbozzato e fine a se stesso, rendendo l’Aladdin moderno un guscio assai più vuoto del ragazzo dal cuore d’oro che si ritrovava travolto dagli eventi.
Avete presente Amadeus? Il film su Mozart, non il presentatore tv (chi ha pensato al secondo sarà espulso dalla Bara per una settimana, in castigo!). Quel simpaticone di F. Murray Salieri ci spiegava la musica di Mozart: “sposta una sola nota, e la struttura cade”. È più o meno così quando provi a rifare un capolavoro. Cambia il tono di una strofa e la poesia svanisce, ma chi se ne frega se intaschi un altro miliardo di dollaroni? Pazienza se nella trasmutazione da carta a carne le dinamiche tra i personaggi non reggono, più adatte a una recita scolastica che a un kolossal hollywoodiano. La scena dell’arrivo di Alì a palazzo e il disastroso incontro con Jasmine è emblematico della brutta scrittura con intenti moralistici post #metoo, con un Alì che arriva a dire di volersi comprare la Principessa, e l’indignazione di lei che svanisce quando si lascia impressionare da qualche mossetta di danza (imparagonabile alla sana sfuriata della “vecchia” Jasmine che metteva in riga principini, sultani e visir). In quella scena poi stona il generale imbarazzo per la battuta infelice di Aladdin, che stonerebbe a un ricevimento occidentale odierno, non tra culture in cui si combinano i matrimoni e le donne si scambiano per qualche mucca. E questo è un po’ il problema di tutto il moralismo occidentale.
Dinastie di Principe$$e alla riscossa sono oro colato negli anni del #metoo, e in giro per la rete si leggono mirabilie sul femminismo incarnato dalla nuova Jasmine, peccato sia visto in un’ottica tutta occidentale e attuale che fa a pugni con l’ambientazione orientale. Sono passati 27 anni dal Classico, dal periodo in cui le Principesse smettevano d’essere “trofei da vincere”. Non mi sembra cambiato molto, a parte il fatto che adesso i messaggi progressisti sono più costruiti, meno spontanei e più urlati, gioielli da sfoggiare al gran galà dell’emancipazione (finta). E soprattutto vendono. Se dopo 27 anni abbiamo bisogno di questo, vuol dire che la società si è evoluta davvero poco così come il modo di trattare questi temi. Se una donna che vuol prendere in mano il proprio destino è ancora un’idea rivoluzionaria, stiamo messi male. Perciò ben vengano anche questi messaggi scritti male, nella speranza che tra 27 anni siano serviti a qualcosa. Io però ne dubito.
Fa rabbia pensare al patrimonio di contenuti che c’era per un film “nuovo” su una Principessa reclusa in un impero orientale in cui la gente muore di fame ma il palazzo del Sultano è d’oro scintillante. Se i remake si fanno per modernizzare storie e contenuti siamo lontani anni luce. Se il Sultano è un papà iperprotettivo solo perché gli hanno ammazzato la moglie, non perché sia conservatore di una cultura patriarcale, e l’unico maschilista è Jafar già cattivo di per sé, il “messaggio” non è meno banale di quelli letti nella carta dei cioccolatini. Ed è bello il messaggio della Principessa che alza la voce e non china il capo davanti all’ingiustizia (ci scriverei sopra dei libri su quanto sarebbe diverso il mondo se le donne mandassero a farsi fottere gli uomini infami, anziché stare al loro fianco), ma la Jasmine di oggi resta una Principessa schiava del suo ruolo più di quanto non sembri, risultando poco credibile quando prova ad ascendere a difesa del suo popolo. E per chi osanna il remake come una ben riuscita parabola neo femminista risponderei con l’inedito personaggetto dell’ancella della Principessa, che ne invidia ricchezza e pretendenti, e il cui unico desiderio sembra accasarsi col belloccio alto e muscoloso di turno, ovvero il Genio: la servitù con la servitù, e le donne della classe operaia continuino ad avere come massima aspirazione sposarsi e figliare, lasciando alle ricche ereditiere l’emancipazione vera. Classismo 1 – Femminismo 0.
Mi sono rimasti due desideri: rivedere il Classico è esaudito, il secondo è dimenticare il remake (si esaudirà col tempo, e non sarà tanto), il terzo che la Di$ney smetta di rifare i suoi successi in live-action solo per battere cassa, usando il pubblico come un bancomat.
P.S. Mille grazie a Quinto Moro per aver recensito il film! Vi invito tutti a passare a scoprire qualcuno dei suoi lavori, che potete trovate QUI.
Sepolto in precedenza martedì 23 luglio 2019
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