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American Fiction (2024): tipo un film di Woody Allen, se fosse nato ad Harlem

WOKE! WOKE! Piatti cucinati con il Woke! Politicamente corretto alla grappa! Non si può più dire niente, tranne che poi chiunque, si fa uscire dalla bocca (o dalla punta delle dita a mezzo tastiera) le peggiori merdate cariche di odio. Che tempi strani eh? Ho voluti spaventarvi con la parola di quattro lettere più spaventosa del mondo, una volta era “Fuck” (come il titolo del romanzo-finto al centro della storia) oggi è “Woke”, infatti mi sembra strano che questo film sia uscito direttamente su Prime Video o forse no, tanto si porta già dietro la sua bella coda di polemiche, molte delle quali legate al numero di nomination ricevute.

Ben cinque per la precisione, il motivo vero per cui secondo me, questo film è uscito con un mirino laser puntato in mezzo agli occhi. Cinque? Troppe, che poi che metro di giudizio è? Ci sono stati film anche con più nomination che tante volte non hanno portato a casa nulla, ma si sa, Infernet funziona così. Male.

«Cass tu con questo post ti metterai nei guai»

Thelonious Ellison, detto “Monk”, afro-americano nato a Boston è un professore universitario di letteratura americana e nel tempo libero, scrittore in pieno blocco creativo. Secondo lui per scrivere qualcosa di decente, ci va tempo, perché a buttare fuori una porcheria di libro sono bravi tutti. Non potete mancarlo perché è fatto a forma di Jeffrey Wright, attore che avete visto ovunque, recitando sempre bene, che qui sfoggia lo scazzo e l’incazzatura, nemmeno troppo nascosta che ci si aspetterebbe da uno così. Uno che nella prima scena, quella che mi ha subito incollato allo schermo, battibecca sull’uso della parola con la “N” (no, non Narvallo) in un testo storico, che tanto irrita la sua studentessa dai capelli blu: se quella parola, contestualizzata rispetto al periodo in cui è stata scritta non offende me, perché dovrebbe offendere te? La studentessa fugge piangendo dall’aula e giù altri guai per il professore. Come dire tutto dei nostri tempi, dello scontro generazionale e di come si reagisce alle parole tabù, senza menarla per tre ore ma solo con una scena introduttiva efficacissima.

Lo dico subito? A me “American Fiction” è piaciuto, ha due difetti essenzialmente, il suo regista Cord Jefferson, che si è fatto le ossa in tv dirigendo episodi per serie come Watchmen (che forse gli ha anche fornito materiale per la storia), non ha così tanta esperienza nel gestire materiale a tratti caustico, che avrebbe richiesto una regia più frizzantina, quindi un po’ il ritmo latita ed è la qualità della storia a caricarsi il film sulle spalle.

«Eccolo Cassidy, che si scava la tomba per la sua Bara da solo continuando con il post»

L’altro difetto sono le aspettative, se vi getterete su “American Fiction”, tratto dal romanzo del 2001 “Erasure” di Percival Everett, in cerca del film da cinque nomination molto probabilmente resterete delusi, perché più che un candidato ideale per la Notte degli Oscar, questo tiolo è un virus per l’Accademy, che pare abbia dovuto abbozzare, riconoscendogli nomination per il successo che sta avendo (specialmente in patria) e per i temi, quando di norma, preferiscono premiare opere che sembrano quelle che Monk di solito critica, rappresentazioni stereotipate delle persone di colore, date da bianchi che riescono a pensare a loro solo per ruoli ed etichette prestampate. Gli esempi sarebbero tanti, ma basta citare l’inspiegabile trionfo agli Oscar di “Moonlight” (2016) per andare dritti alla giugulare.

Visto che nessuno considera il lavoro di Monk, lui incazzato sforna un libro che è la quintessenza degli stereotipi di genere, potrei citare la bellissima striscia a fumetti “The Boondocks”, ma non sono nato nel South Side di Chicago e non posso appropriarmi del vocabolario locale (sarebbe grottesco), ma di fatto Monk s’inventa una storia, barricandosi dietro uno pseudonimo di ex galeotto molto “gangsta”, che sarebbe piaciuto a Riley Freeman più che a suo fratello Huey. Ovviamente l’industria dell’editoria, più bianca di Woody Allen su un marciapiede di Harlem, risponde subito positivamente, leccandogli il cu… Ehm, assecondandolo, anche nel suo piano provocatore di intitolare il libro “FUCK”.

«Ecco, ora Cassidy scrive anche le parolacce, me ne vado basta!»

A proposito del vecchio Woody, uno di cui ormai non si può più parlare perché su di lui hanno attecchito più le notizie false, gli stereotipi e in generale, un atteggiamento che è proprio quello che “American Fiction” mette alla berlina. Questo film avrebbe quasi potuto scriverlo lui in un momento di particolare ispirazione o beh, se fosse stato nero invece che ebreo. Pensatelo così, più che al filmone da cinque nomination (bravo Jeffrey Wright, ma viene divorato dal Giamatti di “The Holdovers” e se si per la nomination per Wright, perché non per DiCaprio nell’ultimo Scorsese, dove oggettivamente si sbatte molto di più? Si potevano avere un numero limitato di nomination, lo so), ad una commedia in odore di Woody Allen, senza quel suo brio e i suoi tempi comici affilatissimi, ma con materiale abbastanza sagace e pungente per le mani da riuscire a dire qualcosa sulla nostra società e sull’industria dell’intrattenimento piuttosto bene.

Io sono piuttosto certo che dopo questo film, un sacco di prodotti che ci capiterà di leggere o vedere, mi faranno pensare: ma ‘sta roba è l’adattamento cinematografico di “FUCK” con cui Monk fa a testate in “American Fiction”. Io già lo so che mi capiterà, e se darete una possibilità al film, capiterà anche a voi.

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