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Ancora 48 ore (1990): the boys are back in town

Provate ad indovinare chi è tornato in città? Sì, proprio la
rubrica… King of the hill!

Alla ricerca di un successo al botteghino che ormai mancava
da troppo nella carriera, Walter Hill ha sfornato quel gioiellino di Johnny il bello, amato, però, più dalla
critica che dal pubblico. Ma se con Danko
non aveva fatto altro che replicare lo schema da lui stesso inaugurato con 48 Ore, a questo punto perché non farlo
ufficialmente e sfornare un seguito per le avventure di Jack e Reggie?

Solo che nel frattempo le cose erano un pochino cambiate, Eddie
Murphy che deve la sua carriera di attore proprio a 48 Ore e all’intuizione
azzeccata di Walter Hill, nel frattempo è diventato uno delle celebrità più
roventi di Hollywood, uno capace di soffiare il ruolo di protagonista a
Sylvester Stallone e farsi costruire come se fosse un vestito su misura, una
saga spacca botteghini come quella di “Beverly Hills Cop” che nel 1987 era già
arrivata al secondo capitolo. Questo spiega anche perché Murphy per il primo
film è stato pagato duecentomila bigliettoni verdi con sopra ritratti alcuni
presidenti passati a miglior vita, mentre per il seguito, la bellezza di dodici
milioni degli stessi biglietti, più una percentuale sugli incassi (storia
vera).
Pare che sia stato proprio Eddie Murphy, forte di un
contratto che avrebbe garantito le migliori scuole ai suoi figli a lungo, a
contattare Walter Hill per capire se il nostro era dell’umore giusto per un
seguito. Gualtiero era scettico, intervistato si è rifugiato in un paio di suoi
vecchi amori: il cinema e il baseball.
Il re della collina, ma anche il re dello stile sul set.

Secondo Hill i film di Sergio Leone tendevano sempre a
migliorare nel tempo e di certo non era interessato a fare una versione per
famiglie di 48 Ore (lasciando
intendere che per quello c’era già “Beverly Hills Cop”), ma in fondo un seguito
di quel film, per quanto brutto potesse venire fuori, sarebbe stato come una
media battuta di 500, insomma ancora del tutto rispettabile. Ed è così che
Gualtiero si è trovato alla regia dell’unico seguito della sua carriera.

L’elefante in mezzo alla stanza, quando si parla di “Another
48 Hrs.” Resta più o meno sempre lo stesso, una marchetta fatta per battere
cassa, ma oltre ad una filmografia ed un talento invidiabile, Walter Hill ha
una caratteristica che lo rende da sempre uno dei miei preferiti: parla poco,
ma quando lo fa tende a rompere le caviglie. Intervistato da David Friedman nel
settembre del 1989, alla fatidica domanda Gualtiero ha risposto più o meno: «Molte
persone diranno che lo sto facendo solo per i soldi. Quello che voglio sapere è
perché pensano che abbia fatto il primo?» (storia vera).

“Cavolo in effetti non ci avevo mai pensato”, “Molto pragmatico, niente da dire”

Hill si mette al lavoro sulla sceneggiatura scritta da John
Fasano, Jeb Stuart e Larry Gross, radunando davvero tutta la banda, oltre ai
due protagonisti anche i suoi pretoriani, il direttore della fotografia Matthew
F. Leonetti e il compositore James Horner che riprende il tema principale del
film, che nel frattempo è diventato un po’ il suo marchio di fabbrica, visto
che quello di Commando è quasi un
cugino di primo grado.

Purtroppo Gualtiero ha dovuto fare i conti con un altro
fattore non da poco, il successo commerciale di Atto di forza spaventa la Paramount Pictures e costrinse Hill a
sforbiciare controvoglia una parte del girato, si parla di circa venticinque
minuti di pellicola. “Ancora 48 Ore” va abbastanza bene al botteghino,
incassando circa settanta milioni sul suolo americano e molti di più
all’estero, ma visti gli alti costi di produzione necessari a pagare la
celebrità di Eddie Murphy , alla fine di utili veri ne porta a casa non
tantissimi.

Una scena del pluripremiato film Green Book… no, devo aver fatto un po’ di casino.

“Another 48 Hrs.” Non ha certo l’esplosività del
capostipite, non avrebbe mai potuto anche perché l’originale, come abbiamo visto
anche in questa rubrica, è il padre
di un po’ tutto il cinema giusto che piace qui alla Bara Volante. Eppure,
niente… Lo trovo ancora un film dal ritmo buonissimo, che trova un pretesto per
replicare la trama e le dinamiche del primo capitolo quasi identiche a loro
stesse, solo per giocarsi un po’, a volte in maniera riuscita, altre meno, ma
sicuramente con un risultato – ancora – valido, ma mi rendo conto che l’enorme
componente western, già presente nel primo capitolo, ma qui notevolmente
accentuata, ha sempre una presa particolare su di me. Trama e poi andiamo un
po’ nel dettaglio!

Il maestro Sam Peckinpah sarebbe orgoglioso del suo allievo
Gualtiero.

Nella realtà sono passati otto anni dal capitolo precedente,
nella finzione solo cinque, un tempo che Jack Cates (Nick Nolte) ha passato a
dare la caccia ad un misterioso trafficante chiamato “Ice man”, così avvolto
nell’ombra che molti, compresi parecchi colleghi di Jack della disciplinare,
sono convinti che non esista. Una caccia ai fantasmi che non contribuisce alla
fama del nostro Jack. Durante una sparatoria – la seconda in pochissimi minuti
dall’inizio del film – Jack uccide un aggressore a libro paga di Icen man, ma
la sua arma scompare e il biondo sbirro viene sospeso dal servizio.

“Queste non sono prove, sono i resti di un barbeque”

Avrà a disposizione, provate un po’ a dire quanto tempo?
Bravi, proprio 48 ore per trovare Ice man e provare la sua innocenza, se non
vuole diventare ospite delle patrie galere. Le stesse da cui sta per essere
scarcerato Reggie Hammond (Eddie Murphy) che gioca da solo a basket nel
campetto della prigione, quando riceve la visita di Jack che, ovviamente,
termina a pallonate in faccia, perché Jack… Beh, non è stato proprio presentissimo
come aveva promesso alla fine del film precedente.

Walter, converrai con me che con una palla da baseball, una scena così non la puoi fare.

La faccenda si complica quando entrano in scena una banda di
motociclisti, guidati dal fratello di Ganz, fermamente intenzionati a fare la
pelle a Reggie, per vendicare la morte del fratello, seguono inseguimenti,
sparatorie e un numero comunque ragguardevole di parolacce, insomma tanta bella
robetta in puro stile Walter Hill.

Basta la prima scena per mettere in chiaro le intenzioni di
Gualtiero Collina, i primi cinque minuti di “Ancora 48 ore” sono un piccolo
western moderno che serve a far entrare in scena la banda di spietati
motociclisti, di fatto degli Indiani contemporanei che vivono fuori dalle
regole del sistema, convinti di essere gli ultimi veri Americani, liberi dalla
burocrazia dei computer. Il fatto che nessuno di loro sia un pellerossa
proveniente da qualche tribù, fa già capire che la loro ideologia non è tutta
in bolla, ma siccome hanno il grilletto facile nessuno si mette a contraddirli
e gli unici che ci provano fanno una brutta fine. Come la poliziotta che
finisce scaraventata fuori dalla vetrata del saloon – perché di questo si
tratta – un western, un altro nella carriera di Hill, anche perché dài, uno dei
motociclisti si chiama Willie Hickok, più western di così non è veramente possibile
fare.

Gli “indiani” di questo western urbano contemporaneo.

La scena in carcere con palla da basket è un modo per tirare
le fila dei due protagonisti, una delle battuta fa riferimento al fatto che
Jack è dimagrito e ci ha dato un taglio con la bottiglia. Sulla prima cosa
garantisce lo stato di forma di Nick Nolte che si era tirato a lucido per
Ricercati: ufficialmente morti, sulla seconda, invece, è purtroppo una parentesi,
perché se non fosse stato per la bottiglia (e i suoi derivati) Nolte sarebbe
ricordato in maniera ben più lusinghiera di quanto oggi non accada.

In compenso, gli scambi tra i due sono sempre piuttosto
efficaci, anche se Eddie Murphy – forse per via della sua nuova fama – è quello
con più battutacce e momenti comici che lo vedono protagonista. Come quando
chiama i vecchi amici al telefono per racimolare qualche soldo, oppure va in
visita al compare che lo ha protetto in cella, e quello in tutta risposta è così
felice di rivederlo che spacca il vetro che li separa per cercare di menarlo.
Una scena in cui è abbastanza chiaro che Walter Hill abbia dovuto pagare il
conto della celebrità di Murphy, ma parliamo di uno che ha saputo gestire al meglio Richard Pryor, quindi
le chiacchiera stanno a zero.

“Avete ancora qualche dubbio? Eh? E tu eh?”

Anche perché Hill quando è il momento di dirigere scene
d’azione solide come la roccia, non è certo l’ultimo della pista, anzi! In Danko abbiamo visto un po’ nel dettaglio
l’insana passione di Gualtiero per gli autobus, qui appena Reggie esce di
prigione e sale sul bus che dovrà scortarlo verso la sua nuova vita da uomo
libero, capisci che una grossa scena sta per arrivare. Infatti mentre il nostro
canta James Brown felice (la sua «Oh baby, baby baby baby!» cantata a
squarciagola, ogni volta mi fa ridere, come essere felici mentre il mondo intorno a
te sta per esplodere) i motociclisti attaccano l’autobus come gli Indiani
farebbero con la carovana nel Far West, ma con risultati molto più esplosivi.
Per dirla alla Reggie, l’autobus si ribalta diciassette volte e la scena è una
delle più spettacolari tra quelle dirette da Walter Hill.

Facile girare le scene d’azione spettacolari con le macchine, provateci con gli autobus!

Quello che manca forse è un po’ il livello scoppiettante dei
battibecchi tra Jack e Reggie, non che manchino le battute e le battutacce
degne di nota («Lei porta sempre il giubbotto antiproiettile?», «Solo quando
vedo gli amici più cari»), ma il secondo atto del film tende ad essere un po’
ripetitivo, anche perché in un paio di momenti la storia ricalca volutamene
passaggi del film precedente.

Se in 48 ore era Reggie a dover affrontare da solo un locale
di buzzurri razzisti, qui tocca Jack esibirsi nella stessa specialità, parlando
proprio di modelli cinematografici perpetuati sul grande schermo, tipo risse
nei bar e bottiglie spaccate in testa, prima di spaccare una bottiglia in testa
ad uno dei gentiluomini che lo ha infastidito. Non voglio dire che Walter Hill
abbia cercato la “mossa Carpenter” di fare un seguito-fotocopia che fosse anche
metacinematografico e in grado di prendere per il naso alcuni cliché, però
prima di Fuga da Los Angeles, solo il
nostro Gualtiero ha provato a spingersi fino a quel punto, ancora una volta
battendo per primo strade che altri dopo di lui avrebbero provato a seguire.

So che si tratta di una metafora della struttura cinematografica infranta, ma le poppe tendono a distrarmi.

In fondo, già Danko
era un modo per provare a modificare qualcosa dello schema di 48 Ore, qui il tentativo di depistaggio
continua, la presenza nel cast di Ed O’Ross è un tentativo per far sospettare
il pubblico dei personaggi, anche perché, parliamoci chiaro, il vecchio Viktor
Rosta con quel suo faccino tenero, è uno che sembra messo apposta per far dire
al pubblico: «È lui Ice Man!».

Tutto qui? Bastava arrivare e dire lui è il cattivo!?

Con questo non voglio dire che “Ancora 48 ore” sia un film
post moderno, i motociclisti in fuga che – letteralmente – bucano lo schermo di
un cinema durante la loro corsa sono più che altro la conferma che il cinema di
Walter Hill è solido e orgogliosamente di genere, infatti in 93 minuti il film intrattiene
a dovere, ci regala qualche battutaccia memorabile (una delle mie preferite?
«Ci sei nato testa di cazzo o hai preso lezioni?») e termina con un grosso
scontro finale piuttosto notevole.

La sparatoria nel locale, tra gli amati neon di Hill e vetri rotti si porta
dietro gli ultimi scampoli di anni ’80 che ormai erano andati, visto che questo
è il primo titolo di Hill uscito negli anni ’90, anche se sembra più vecchio e
lo dico nel senso migliore del termine. Ho un debole per la scena del doppio “CLICK!”
a vuoto delle rispettive pistole e anche il finale è volutamente ricalcato
sull’ultima scena di “48 Ore”, con una variazione rispetto alle aspettative del
pubblico, perché anche per questo seguito vale la solita regola aurea: uguale
al primo, più grande e visto che di mezzo c’è un pioniere come Walter Hill,
aggiungiamo anche con qualche variazione che, comunque, non stona affatto.

“Cambiamo tutto, meniamoci tra di noi!”, “Ma sei scemo? Abbiamo solo 48 ore non perdiamo tempo”

Come detto la freschezza e l’esplosività del primo film non
vengono replicate, anche perché nel 1990 ormai il modello del “Buddy cop movie”
che lo stesso Hill ha contribuito a inventare, ormai era diventato un canone,
eppure le parti smaccatamente western – il vero genere di riferimento di
Gulatiero – me lo rendono ancora un seguito che fa davvero il suo sporco
lavoro.

Trovo significativo che con il suo primo film degli anni ’90,
Walter Hill abbia voluto ribadire le sue origini, per uno che si è sempre
definito essenzialmente un regista di western, sarà proprio grazie al genere
che sta al cinema come il Rock sta alla musica, che Hill riuscirà a
sopravvivere ai suoi folli folli folli anni ’90, lo vedremo già a partire dalla
prossima settimana, ci vediamo qui tra sette giorni, portare gli attrezzi per
scavare, vi serviranno. Intanto non perdetevi la locadina d’epoca di questo film dalle pagine di IPMP!
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