Ci sono alcuni registi che non possono permettersi meno della perfezione, ai quali è sempre richiesto di eccellere e qualunque cosa meno di un CAPOLAVORO (con tutte le lettere maiuscole) è da etichettare per forza come una morte artistica. Sono sicuro che avete dieci nomi di registi che rientrano in questa categoria, io ve ne faccio due, però con lo stesso cognome: Joel ed Ethan Coen. Bentornati al nuovo capitolo della rubrica… Coen, Storia vera!
Non sarebbe nemmeno male approfondire questo discorso, un film va valutato per quello che è, o in diretto contrasto con tutti i titoli della filmografia a cui appartiene, in questo secondo caso, l’affare diventerebbe una questione di aspettative, quindi di solito preferisco valutare il singolo film e poi in seconda battuta confrontarlo con i suoi fratellini e sorelline.
“Ave, Cesare” rientra sicuramente nella famigerata schiera di titoli virgolettati come “minori”, fra i quali spesso troviamo le commedie più leggere (ma non meno satiriche) dei fratelli del Minnesota, titoli come Ladykiller, Intolerable Cruelty o Burn After Reading che hanno fatto storcere i nasi il più delle volte perché considerati meno belli di [INSERIRE-QUI-FILMONE-DEI-COEN… Tanto avete l’imbarazzo della scelta], anche perché io film brutti dei fratelli non ne ricordo, di sicuro qualcuno minore (qualunque cosa voglia dire), più leggero, ma film palesemente brutti proprio no, questo “Hail, Caesar” rispetta la tradizione.
Come sempre i soggetti dei Coen vengono lasciati a sedimentare un po’ prima di diventare veri copioni, la prima bozza di “Ave. Cesare!” era ambientato negli anni ’30, quindi più vicino al genere di riferimento preferito del regista a due teste, il Noir, e si concentrava sulla realizzazione di quello che noi chiameremmo Peplum, un sandalone hollywoodiano, ma è inutile girarci attorno, dopo A proposito di Davis, i fratelli Coen si sono ritagliati un breve periodo, non proprio come “Script doctor”, diciamo più che altro come sceneggiatori di lusso, molto richiesti da tutti.
Anche rivedendo Unbroken ho faticato a trovare temi cari ai due fratelli del Minnesota, ma solo la convinzione che dovessero dei soldi ad Angelina Jolie e che in mano loro, sarebbe stato un gran film, e non una versione noiosa della stessa storia letta su Wikipedia. Per nostra fortuna è andata decisamente meglio quando Steven Spielberg ha affidato a Joel ed Ethan la revisione del suo Il ponte delle spie, un film di cui anche “Ave, Cesare!” ha beneficiato, visto che entrambi parlano a loro modo di un “fixer”, come amano chiamarlo gli americani, il Mr. Wolf di turno che risolve problemi, due uomini seri questi si tipici coeniani, mandati a risolvere una situazione, ma se Tom Hanks veniva spedito oltre la cortina di ferro, Eddie Mannix gioca in casa, il suo compito è nascondere sotto il tappeto gli scandali della Capitol Pictures per la quale lavora nella Los Angeles del 1951, una versione più umana – e più dolente, visto che si confessa a intervalli di dodici o ventiquattro ore – del produttore che faceva sbarcare nella mecca del cinema americano anche Barton Fink, infatti il nome dell’immaginaria casa di produzione è la stessa in entrambi i film, segni di continuità.
Nella Hollywood degli anni ’50, il direttore di produzione Eddie Mannix (un Josh Brolin sommesso che si carica il film sulle spalle) affronta la sua normale settimana di lavoro, fatta di problemi da risolvere, gossip da non far trapelare, il tutto, rigorosamente senza un orario stabile, non ci sono partite dei figli che tengano, con buona pace della mogliettina (la sempre brava Alison Pill).
Il giocone meta cinematografico dei Coen inizia quando la major pagante mette in produzione il film “Hail, Caesar! – A tale of the Christ”, kolossal di punta in cui non è difficile notare più di un punto in comune con “Ben-Hur” (ad un certo punto si parla di una scena con le bighe), oppure “La tunica” ma visto il tema, i produttori sono molto preoccupati di non offendere nessuna religione.
I Coen mandano a segno la delirante scena del battibecco tra il rabbino e i sacerdoti chiamati ad esprimere il loro parere sulla trama, parliamoci chiaro: non siamo dalle parti della satira lucida di A serious man nei confronti dell’Ebraismo ma, comunque, i temi ricorrenti dei fratelli del Minnesota si fanno largo, ottenendo anche una scena che fa ridere per davvero, replicata poco dopo con la riunione degli sceneggiatori comunisti, che battibeccano sui massimi sistemi, esattamente come il gruppo di religiosi. Satira? La state facendo bene.
Da qui in poi i Coen alzano la posta, perché Mannix (a suo modo anche lui un “uomo serio”, guardate le sue costanti confessioni con il prete) è costretto a gestire una crisi da allarme rosso: Baird Whitlock (George Clooney) il principale divo del film scompare nel nulla, rapito da un gruppo di sceneggiatori comunisti (che sembrano usciti dalla parodia di Trumbo), che cercano di convincere il mollicone a diventare la chiave di volta della loro rivoluzione, in un attimo i Coen prendono in giro Chiesa e Politica, in modo da far incazzare tutti in parti uguali. Per altro originariamente, “Ave, Cesare!” avrebbe dovuto essere il terzo capitolo della “Trilogia dell’idiota” con Clooney protagonista, poi è stato superato a destra da Burn after reading, quindi possiamo dire che ora abbiamo una trilogia in quattro atti, un po’ alla Douglas Adams se volete.
“Hail, Caesar!” quindi potrebbe essere considerato il quarto capitolo della (tetralogia?) dell’idiota, anche perché Clooney non credo reciterà mai un ruolo “serio” per quei due matti, il suo Baird Whitlock è un po’ la damigella in pericolo e un po’ il motore di tutti i casini della trama, uno capace di passare dalla serietà assoluta, alla tontaggine come solo gli attori possono fare, il suo monologo finale riassume bene il concetto.
Come dicevo, i film vanno valutati per quello che contengono dai titoli di testa a quelli di coda: “Ave, Cesare!” è ben scritto, farcisce un’indagine di stampo noir (farsesco) con una masnada di personaggi, interpretati da tutti gli attori di quella che ormai potremmo definire come la “Factory” (per dirla alla Andy Warhol) coeniana.
Con un occhio satirico, ma anche un po’ malinconico, i Coen riescono a rendere omaggio ad un’infinità di generi cinematografici tipici di quel decennio, è chiaro dalla (lunghissima!) scena danzereccia che rende omaggio ai musical di Gene Kelly, un po’ per prenderli in giro (avere Channing “Magic Mike” Tatum della partita aiuta) per via del loro contenuto, come dire, spesso molto gaio, ma anche quasi amorevole nello sfottò. Non fai una scena così articolata se il materiale originale non lo conosci più che bene e i Coen, da grandi uomini di cinema quali sono, sono sicuro che per questo film hanno fatto i compiti, ciliegina sulla torta: il regista del musical è interpretato da un redivivo Christopher Lambert che sfrutta ancora il suo buffo accento. Era una vita che non lo vedevo in un film, ma non dovrei stupirmi, d’altra parte è immortale.
Un altro dei generi omaggiati e sbeffeggiati dai Coen è il western, quello allo Roy Rogers per capirci («Preferivo Roy Rogers, mi piacevano le sue giacche con i lustrini» Cit.), qui la vera rivelazione del film è Alden Ehrenreich, giù visto in un paio di film di Coppola, padre (“Tetro” e “Twixt”) e figlia (“Somewhere”), peccato che nel 2016 il futuro giovane Han Solo sembrava in rampa di lancio grazie ai Coen, a distanza di tempo però, possiamo dire che la sua prova qui – preferibilmente da gustarsi in lingua originale, ben più spassosa –resta ancora la migliore della sua carriera.
Alden Ehrenreich interpreta il cowboy Hobie Doyle, bravissimo con il lazo, un po’ meno con la recitazione, la sua scena con Laurence Olivier, ehm, volevo dire Laurence Laurentz (uno spassoso Ralph Fiennes) è uno dei momenti migliori del film.
Nella trama messa in piedi dai Coen, alcuni dei tanti attori del cast, sono costretti ad una parte davvero piccola, perché nella Hollywood descritta dai due fratelli, i personaggi non sono tutti uomini o donne serie come Mannix, sono spesso mezzi personaggi, quindi ecco una piccola apparizione per la solita Frances McDormand (montatrice di pellicole non curante della sua sicurezza) o la sboccacciata vedette DeeAnna Moran (Rossella Di Giovanni) metà diva e metà, come direbbe lei “culo di pesce” in cerca di marito. Forse la più esemplificativa in tal senso resta Tilda Swinton, che volutamente e giustamente, senza cambiare registro recitativo, interpreta due gemelle, in lotta tra loro anche se identiche, o forse proprio per questo.
Discorso a parte il povero Dolph Lundgren, compare come sommergibilista ma la sua parte era ben più ampia, peccato, ci sarebbe stato da divertirsi con un sommergibilista alto due metri in un film dei Coen, va detto perché che dopo aver detto la loro su tutti i generi cinematografici, i fratellini del Minnesota con un solo film, hanno potuto portarci alla fonte, il dietro le quinte dell’industria che può generare musical, Kolossal in costume, Western, insomma Hollywood sì, ma filtrato dalla satira dei Coen, brutto?
Tra le altre tematiche tipiche del cinema dei Coen, il caos è un fattore rilevante, infatti anche questa volta ha il suo bel peso specifico nella storia, ma nella (a)tipica giornata di lavoro di Eddie Mannix è impossibile non leggere tra le righe il messaggio dei Coen che, tutto sommato, tra divi fuori controllo, dubbi di capitalismo, gossip e set difficili, alla fine “We love making movies” come dice Tarantino, ad avercene di film “minori” come questo.
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