Per un lungo periodo, parliamo davvero di anni, il cinema Western era il genere più popolare in assoluto, tipo i Cinecomics oggi ma di più, molto di più. Una vera orgia di titoli che hanno cresciuto un paio di generazioni di spettatori. Ma non era di certo così all’alba degli anni ’90, almeno fino a quando cavalcando in alta uniforme con il sole alle spalle, non arrivò qualcuno con la testa dura, il sogno della frontiera nel cuore e l’idea balzana di ridare lustro ad un intero genere praticamente da solo, il suo nome era Kevin Costner, magari lo ricorderete, ha fatto anche la pubblicità del tonno.
Magari i più giovani lo ricorderanno solo come papà di Superman, per la citata pubblicità del tonno e per una serie di scelte in carriera non proprio esaltanti, ma c’è stato un momento in cui Kevin Costner era IL DIVO con tutte le lettere maiuscole, quello che fresco fresco di “Fandango” (1985, diretto dal sodale Kevin Reynolds) nemmeno trentenne si è permesso di sfilare sul tappeto rosso della notte degli Oscar in Jeans, almeno, questo è quello che le leggende metropolitane dicevano di lui, perché attorno al Kevin Costner di allora ogni dettaglio della sua carriera diventava mitico.
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«Ciao Cassidy, ti serve del tonno?» |
“Silverado” (1985) sembrava una parentesi nella carriera di un attore che aveva fatto dei film sportivi una specialità, prima in sella, non di cavalli ma di biciclette in “Il Vincitore (1985) e poi sul diamante del Baseball per film come “Bull Durham” (1988) e “L’uomo dei sogni” (1989), titolo italiano furbetto che sottolineava bene come il Kev fosse già l’idolo della signore, tenete a mente questo punto, più avanti tornerà di moda.
No, il bel Western di Lawrence Kasdan era proprio quello a cui Costner ambiva, ecco perché fece sentire il fiato sul collo a Michael Blake, che aveva scritto una sceneggiatura per un Western che non importava davvero a nessuno se non a Costner, che prima suggerì allo scrittore di espanderla, esplorando la storia fino a farla diventare un romanzo (pubblicato nel 1987), di cui Costner acquistò immediatamente i diritti di sfruttamento cinematografico, anche se immagino non ci fosse proprio una gran ressa per farlo. A chi affidò il compito di adattare tutto in una sceneggiatura? Facile, proprio a Michael Blake, che afflitto da un evidente caso di sindrome di Stoccolma per il suo aguzzino Kevin Costner, negli anni pubblicò un seguito di “Balla coi lupi” (che Costner rifiutò, perché da vero divo della vecchia scuola, non prende parte ai seguiti dei suoi film, storia vera) e progettava anche un terzo capitolo, mai arrivato purtroppo perché Blake è mancato nel 2015.
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Chi credeva che Kev avrebbe potuto fare il suo Western? Manco li cani! (figuriamoci due calzini) |
Costner vuole fare di “Balla coi lupi” il suo esordio dietro la macchina da presa, un dettaglio che non è sfuggito ai giornalisti, cosa vi dicevo lassù dell’attrazione magnetica che il Kev provocava sulle signore? La mia speculazione è che più di un giornalista, trascinato al cinema dalle rispettive mogli e fidanzata per vedere tutti i film del biondo, un po’ se la siano legata al dito oppure più realisticamente, dal punto di vista giornalistico fa più notizia qualcuno che scivola e cade nella polvere, piuttosto di uno che miete successi.
“Balla coi lupi” inizia a diventare una sorta di barzelletta ad Hollywood, un po’ come “Chinese Democracy” dei Guns N’ Roses, se ne parla tanto, ma il film non entra mai in lavorazione perché Costner sarà stato anche biondo, ma di certo non scemo (chiedo scusa a tutti i biondi alla lettura), con una serie di accordi tra le varie case di produzione, si era garantito un solido budget e la certezza che nessuno avrebbe rimontato il film, l’ultima parola sul montaggio sarebbe stata la sua, anche questa è stata tra le fortune delle pellicola.
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Una volta nei film di Costner, dai campi di grano uscivano solo i giocatori di Baseball, adesso anche le macchine da presa. |
Costner iniziò a girare il suo film d’esordio nel luglio del 1989, pescando i luoghi più suggestivi per girare tra South Dakota, Wyoming, Nebraska e Kansas, radunando insieme un nutrito cast di attori tra la comunità dei nativi americani, anche se quasi tutti dovettero prendere lezioni di lingua Dakota, visto che molti non erano di origine Sioux, anche se questo nome è il frutto di una grande incomprensione tra bianchi e nativi, che poi è un po’ la base di buona parte di questo film. Ma in ogni caso, proprio per il suo lavoro Costner si é guadagnato un grande rispetto presso i nativi (Storia vera).
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Nella foto un vero americano. No, non è quello vestito da soldato ve lo dico subito. |
Il Kev consegnò il suo film alla Life International, responsabile della distribuzione che lo fece uscire nei cinema americani nel novembre del 1990, la versione che vidi io al cinema in uno strambo Paese a forma di bisonte scarpa, nel dicembre dello stesso anno era la versione cinematografica da 181 minuti, considerando che avevo sette anni, ed ero già malato di Western e indiani – conoscevo molto degli usi e dei costumi dalle mie varie letture e dagli allegati alla collana a fumetti “Il selvaggio West” di cui ho ancora tutti i numeri a casa, storia vera – riuscì a godermi gli infiniti paesaggi e l’epica del film, anche se la parte “sbaciucchiosa” della storia la trovai infinitamente lunga e pallosa, però oh, avevo sette anni!
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Questa parte qui nei miei ricordi d’infanzia, durava più della director’s cut. |
A conti fatti “Balla coi lupi” è stato uno dei primi film che ho visto al cinema di cui conservo memoria, ancora prima ricordo di essere stato portato dai miei genitori a vedere “L’attimo fuggente” (1989) quindi tutto sommato non posso lamentarmi, sono stato cinematograficamente svezzato come si deve. Anche perché poi a casa, avevo sempre il mio fedelissimo videoregistratore e vi assicuro che a casa Cassidy la VHS di “Balla coi lupi” piangeva, io l’ho visto tantissime volte, ma mio padre? Ah mio padre ne ha
fatto una malattia di questo film, penso che lo guardasse ogni due giorni e considerando quanto dura, probabilmente il film era a ciclo continuo sulla tv di casa (storia vera).
Costner per questo progetto ha rifiutato il ruolo di Alec Baldwin in un altro classico di casa Cassidy, ma fu chiaro immediatamente che la testardaggine del divo era ben riposta. “Balla coi lupi” diventò un classico subito, appena uscì in sala, con quasi 185 milioni di fogli verdi, con sopra facce di ex presidenti raffigurati sul monte Rushmore nei soli cinema americani e la bellezza di 424 milioni nel mondo, Costner ha potuto pagarsi il ranch dove ancora vive oggi. I sette premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale, miglior fotografia, miglior montaggio, miglior colonna sonora e miglior sonoro) oltre ad essere tutti meritati erano la celebrazione di un film in grado di mettere d’accordo tutti, chi amava i Western e chi non li guarderebbe nemmeno con gli occhi di un altro, chi al cinema vuole l’azione, il dramma, la commedia, il romanticismo e l’epica, trovava tutto comodamente in questo film che da trent’anni è considerato a ragione un classico e da oggi, anche un Classido!
Per un ripasso (di un film che conosco a memoria), con la Wing-woman abbiamo raggranellato i 236 minuti necessari per rivedere la “director’s cut”, se per caso voi foste tra i tre sulla Terra che non hanno mai visto questo film, vi consiglio questa versione perché se grande epica deve essere, allora che lo sia al meglio. Anche perché nel 1990 non era affatto così scontato ottenere un tale successo con un genere che spesso viene dato per morto ancora oggi, ma che in realtà, è il Re di tutti i generi cinematografici americani (quindi occidentali). Fare un Western revisionista negli anni ’70 era un affare, farne uno nel 1990 e poi passare a ritirare (ai botteghini di mezzo mondo e durante la notte degli Oscar) resta un’impresa davvero grandiosa.
Nella pancia di “Balla coi lupi” scalpitano tutti i classici Western revisionisti, da “Soldato Blu”, “Il piccolo grande uomo” e “Un uomo chiamato Cavallo” (tutti del 1970), ma Costner ha sempre amato così tanto la frontiera che a ben guardare nel film, si può trovare anche un po’ di “Il fiume rosso” (1948) di Howard Hawks e di altri classici. La storia è quella del tenente John Dunbar (Kevinone), un ufficiale dell’esercito dell’unione di stanza in Tennessee, che nell’unica scena non girata cronologicamente da Costner (è la prima del film ma è stata girata solo alla fine, infatti le mani del chirurgo che minaccia l’amputazione del piede sono proprio quelle di Costner, storia vera) per un atto di eroismo che sembra più un suicidio, sblocca uno stallo con l’esercito Confederato e diventa di colpo un eroe, e già questo dice molto della natura revisionista della storia.
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La differenza tra un eroe e un pazzo in guerra, può essere molto sottile. |
A Dunbar viene concesso di tenere il cavallo utilizzato nell’impresa folle eroica, Sisko per gli amici Cisco (come in una canzone degli 883) e davanti alla possibilità di essere trasferito ovunque, sceglie l’ultimo avamposto nel cuore della frontiera, perché sogna di poterla vedere prima che scompaia per sempre. A Fort Sedgewick, Dunbar ci arriva dopo un lungo e scomodo viaggio, ma anche dopo aver fatto la conoscenza del folle maggiore Fambrough, che nel film è interpretato da Maury Chaykin, anche se il ruolo Costner lo offrì a Marlon Brando che però rifiutò (storia vera). Meglio così Kev, quello come minimo avrebbe voluto sul set tutta la sua delegazione di Squaw, oppure di recitare vestito da Papa, vai a sapere.
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«Cos’ha questo Marlon Brando più di me? A parte un’isola, alcuni Oscar e il sostegno nei nativi americani?» |
La bellezza di “Balla coi lupi” sta un po’ ovunque, nella fotografia mozzafiato di quel mostro di Dean Semler, nella colonna sonora epica e trascinante di John Barry, negli occhi di Mary McDonnell nel ruolo della vita (il secondo in “Battlestar Galactica”), ma anche nei piccoli particolari tutti affidati ai nomi e le facce giuste, basta dire che gli effetti speciali truculenti sono stati curati dall’allora neonata casa di produzione di Greg Nicotero, mentre uno dei miei preferiti, l’indiano per eccellenza del cinema, Wes Studi, esordiva in questo film pittato con i colori del losco guerriero a capo dei temibili Pawnee.
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Me lo dicevano, che nella vita gli Studi erano importanti (ah-ah). |
“Dances with Wolves” ha tutto per conquistare perché è essenzialmente un romanzo di formazione di un adulto fatto e finito, che ricostruisce se stesso nel momento in cui scopre la frontiera e i suoi abitanti. Una delle parti migliori del film è il suo modo di rappresentare in maniera idealizzata ma realistica (insomma, come fa sempre il cinema al suo meglio) il difficile processo di integrazione tra bianchi e nativi, che integrazione non è stato affatto, si è trattato del più grosso avviso di sfratto della storia di questo pianeta, ma è stato un percorso lungo che ha attraversato anche periodi di apparente pace, raggiunta dopo difficili mediazioni rese complicate anche dai problemi linguistici.
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«Ok, questo è imbarazzante», «Ricordami di non giocare mai più a Trivial Pursuit con questo pazzo» |
Ad ovest di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, questo film è uno dei pochi, dove improvvisamente i personaggi non cominciano a parlare una lingua fino ad un minuto prima sconosciuta solo schioccando le dita. La trasformazione del tenente John J. Dunbar in Balla coi lupi, passa per momenti di tensione e altri imbarazzanti (il tentativo di mimare “Tatanka” il bisonte), un percorso fatto di curiosità, zucchero e caffè, in cui il protagonista scopre che i cosiddetti nemici non sono né straccioni e né selvaggi, e di conseguenza forse nemmeno così nemici come dovrebbero essere. Il personaggio che si presenta in alta uniforme (perché altrimenti non sarebbe dignitoso) davanti a coloro che lui chiama il tranquillo e il feroce, finirà per scambiare con loro abiti e cappello chiamandoli per nome, Uccello scalciante (Graham Greene) e Vento Nei capelli (Rodney A. Grant), che poi è come mi chiamava mio padre per via della mia capigliatura giovanile (storia vera).
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I miei punti di riferimento in quanto a libertà personale e acconciatura. |
In 181 minuti (o 236, fate voi) John Dunbar rinasce Balla coi lupi, quello che si lancia in danze scatenate notturne con il lupo Due calzini e che spiega al suo nuovo popolo che il fucile va utilizzo per sparare, non come tecnologica mazza da brandire. Il passaggio avviene grazie a Alzata con pugno (Mary McDonnell), la ragazza bianca cresciuta tra gli Indiani scacciata dal suo popolo perché evidentemente comunista come si evince dal suo nome indiano che al pari di Dunbar, non può più vivere tra i bianchi con cui non ha più nulla da spartire, infatti quanto ritroverà i suoi vecchi commilitoni, sporchi, rozzi e violenti, il protagonista metterà in chiaro la sua rinascita: «Il mio nome è Balla coi lupi. Non parlerò con nessuno. Non vale la pena parlare con voi».
“Balla coi lupi” è epica allo stato puro, epica spudoratamente schierata dalla parte dei nativi americani, raccontata da uno che quelle distese di spazio fino a dove l’occhio può vedere le considera il meglio della vita, non c’è un’inquadratura o una corsa a cavallo che non parli dell’amore di Kevin Costner per quei luoghi, per quel tempo e per un intero genere, che omaggia con un film che è fuori dal tempo. Si perché “Balla coi lupi” ha il passo, il respiro ampio e le intenzioni chiare di un film diretto ed interpretato con lo spirito della New Hollywood di un tempo, ma fatto nel 1990, quando nessuno si aspettava più un Western, figuriamoci uno grandioso e con il cuore in mano come questo. Quasi un film indipendente (anche nello spirito) che però ha stregato e messo d’accordo tutti, un esordio cinematografico come forse non se ne vedevano al cinema dai tempi di Orson Welles, il paragone potrebbe sembrare esagerato, ma a conti fatti nemmeno più di tanto, almeno considerando incassi, premi e impatto culturale.
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Idee da New Hollywood al servizio di un incasso stratosferico. |
Ci sono scene di “Balla coi lupi” che si guardano con gli occhi con cui Dunbar guarda la frontiera, la lunga sequenza della caccia al bisonte ad esempio è da manuale e bellissima, per girarla Costner ha chiesto aiuto al sodale Kevin Reynolds, ma il risultato è uno di quei momenti che non si dimenticano tanto presto e che confermano lo stato di classico del cinema di questa pellicola.
I critici con le penne intinte nel curaro che sognavano per Costner una Alamo con “Balla con i lupi”, sono rimasti con un palmo di naso davanti ad un film talmente bello da ridurre a zero quasi ogni possibilità di critica, in linea di massima si sarebbero rifatti successivamente, ma questa è un’altra storia.
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«Sei sicuro di avere abbastanza tonno?», «Kev mi fa schifo il tonno, rispetta la solennità del momento» |
Con questo sogno matto di vedere la frontiera, Kevin Costner l’ha mostrata nella sua incredibile bellezza a tutto il mondo, firmando un capolavoro, un western revisionista quando ormai nessuno pensava più a selle e cavalli. Grazie a questo film Costner si è preso gli anni ’90, prima di imbroccare una lunga infilata di scelte sbagliate, spesso caricate di aspettative derivate proprio dal meritato successo di questo film, e anche qui, l’ombra di Welles continua ad allungarsi. Ma la verità è che non è possibile separare Dunbar da Kevin Costner, se il posto di Balla coi lupi era laggiù nel vecchio West, per il vecchio Kev è la stessa cosa, che sia nei panni di Wyatt Earp (1994), oppure nelle terre di confine del bellissimo e sottovalutato “Open Range” (2003), quello è il posto dove deve stare, lo ha dimostrato recentemente anche con Yellowstone. Il suo elemento naturale, non diventi IL DIVO degli anni ’90 se non sei fatto della stessa materia di cui è fatto il cinema stesso, il Western appunto, il Re di tutti i generi cinematografici.
Quello che è tornato in auge proprio negli anni ’90 grazie quasi esclusivamente alla testardaggine di Kevin Costner, come abbiamo visto su questa Bara e come continueremo a vedere anche prossimamente, sono stato svezzato con i film giusti e ne porto i segni, alla fine aveva ragione Uccello scalciante: «Tutto nasce dall’uomo, tutto ritorna all’uomo» e più che Mr. Baseball come viene soprannominato per i suoi film sportivi, Kevin Costner dovrebbe essere ricordato come Mr. West.
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Sognava di vedere la frontiera, l’ha mostrata al suo meglio a tutto il mondo. |