Aguzzate le orecchie, perché oggi ne avrete molto bisogno, il titolo del giorno è uno dei più strambi e affascinanti della filmografia di cui fa parte, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Coen, storia vera!
Come abbiamo visto venerdì scorso, Crocevia della morte è stato un film sottovalutato e piuttosto complesso per Ethan e Joel Coen, una trama che fila alla grande frutto di un mezzo blocco dello scrittore da parte del regista a due teste. Cosa si fa quando si cade da cavallo? La tradizione vuole che si salti nuovamente in sella subito, ma se le idee in testa non girano come al solito, difficile picchiettare producendo quel ritmato suono di tasti tipico della scrittura, per questo “Barton Fink” – appesantito dal solito sottotitolo italiano che io, boh! – risulta essere un film quasi meta narrativo su uno scrittore in crisi, che però non si limita a questa idea, ammettiamolo, piuttosto inflazionata.
Ormai lo abbiamo capito dopo qualche settimana di fila di rubrica, per i Coen il nord magnetico narrativo è sempre stato il Noir, ma i fratelli del Minnesota sono abilissimi nel cambiare kubrickianamente sempre genere e in parte “Barton Fink” strizza l’occhio o meglio, tende l’orecchio anche al Kubrick di Shining, anche se questo film, nato dalla crisi creativa, si è concluso nel modo più spettacolare possibile, ovvero con la Palma d’oro come miglior film al Festival di Cannes 1991, ritirata dai Coen dalle mani di uno che guarda caso, con il suo cinema era tra i modelli di riferimento di “Barton Fink”, mi riferisco a Roman Polański e alle sue grandi tensioni da interni, di titoli come “Repulsione” (1965) e “L’inquilino del terzo piano” (1976).
La storia è quella del titolare, scrittore e drammaturgo newyorkese di origine ebraica che nell’America di un anno chiave, il 1941, ottiene uno straordinario successo a Broadway grazie ad una pièce sul suo tema chiave, la gente comune. Hollywood, anzi, nello specifico la Mecca del cinema americano di quel periodo, quella gestita con il pugno di ferro dai produttori, lo intercetta per farlo volare in California alla sede della Capitol Pictures, qui Fink avrà finalmente la possibilità di scrivere un grande film sulla gente comun… No, niente, gli rifilano d’ufficio il compito di buttare più il copione fotocopia di un B-Movie sul Wrestling e per farlo, lo parcheggiano nel lugubre hotel Earle, i cui unici residenti sono il portinaio Chet (Steve Buscemi, pretoriano dei Coen), un anziano ascensorista e l’unico altro ospite, che tra urla disperate e ululati notturni disturba il lavoro dello scrittore, si tratta di Charlie Meadows (John Goodman in una delle sue parti più iconiche per quanto mi riguarda), la quintessenza dell’uomo comune, un fin troppo gentile agente assicurativo che ama il Wrestling ed è affascinante dalla “Vita delle mente” come la chiama Fink, ovvero la capacità di creare e scrivere con cui il nostro titolare si da molte arie. Da questo punto di vista possiamo considerarlo identico alla maggior parte degli scrittori.
Bell’osso che mi sono scelto di rosicchiare stamattina, perché “Barton Fink” ha diverse chiavi di lettura tutte interessanti, iniziamo dall’anno in cui è ambientato, quel 1941, anno in cui gli americani stavano ancora volontariamente ignorando l’orrore in Europa e almeno fino a fine anno, il 7 dicembre per la precisione, con le notizie in arrivo da Pearl Harbor, avrebbero continuato a fare. Un lungo stallo, una sorta di blocco dello scrittore ben rappresentato da Barton, un illuso e anche piuttosto tronfio idealista, convinto di avere abbastanza talento da poter cambiare il sistema quando invece, al massimo ne finirà infine triturato.
Partiamo dalla prova modestamente arrogante di John Turturro, che non ha l’aspetto, i modi e le intenzioni di adattarsi alla vita in California, più o meno come non ha la minima intenzione di scrivere quella robaccia sul Wrestling di cui lui non sa niente, lui conosce l’uomo comune, vivendo la vita delle mente, è sprecato per questa robetta infatti, non farà che sbattere il naso contro la realtà, che puntualmente, tornerà ad infastidirlo come beh, una zanzara, che è uno dei simbolismi più riusciti del film.
Uno dei personaggi chiave è lo scrittore William Preston “W.P.” Mayhew impersonato da John Mahoney e largamente ispirato al romanziere premio Nobel, William Faulkner, anche lui con drammatici problemi con la bottiglia e costretto ad iniziare la sua carriera con una sceneggiatura sul Wrestling. Il personaggio non solo sembra una visione bipede del futuro di Barton, ma è l’applicazione dell’antico adagio per cui nessuno dovrebbe incontrare i propri eroi, ma sia lo sbronzo scrittore che l’eccentrico produttore Jack Lipnick (Michael Lerner) sono parte della critica dei Coen ad un sistema di cui loro stessi iniziavano a sentirsi ormai parte, infatti con lucidità non risparmiano nessuno.
Il produttore, per quanto dieci metri sopra le righe nel suo essere prima gentilissimo e poi spietato con Barton, con reazioni e punizioni degne del megadirettore galattico fantozziano, alla fine è Barton, lo scrittore, colui che vorrebbe fare ARTE con tutte le lettere maiuscole ad essere il più ipocrita di tutti. Lipnick gli spiega in pochi minuti come scrivere il solito film sul Wrestling, un talentuoso lottatore male in arnese arriva in città, conosce qualcuno che potrebbe essere un orfano o una donna (mai entrambi) e attraverso questo rapporto trova la forza e le motivazioni per affrontare la sua impresa, in questo scena Barton cerca di infilare quanto più “Uomo comune” possibile, sordo da quell’orecchio, non vuole seguire lo schema nemmeno quando gli viene ribadito da W.P. Mayhew e ancora di più da sua moglie, Audrey Taylor (Judy Davis) che è anche segretaria ma più che altro ghostwriter.
Ma a ben guardarlo la vita (quindi il film) di Barton Fink segue proprio questo andamento, lui è il talentuoso sbandato che arriva in città, conosce un orfano (Charlie Meadows) e una donna (Audrey Taylor), perché sottilmente i fratelli Coen ci scivolano da sotto i piedi il tappeto portandoci in una dimensione sospesa che ci fa dubitare anche delle nostre solide basi: chi crea la storia? Chi la racconta o chi la sta vivendo? E poi, è lo sguardo, le immagini che creano il racconto o l’atto stesso di guardarle che da il via agli eventi?
Verrebbe da pensare che “Barton Fink” sia il solito (si fa per dire) grande film sull’arte, sul processo creativo e sullo sguardo, che prima o poi tutti i grandi registi sfornano perché se per professione, passi il tempo a guardare la vita attraverso l’occhio di una macchina da presa, diventa la tua normalità. “Barton Fink” è tutto questo, ma anche un po’ di più, perché il nostro protagonista si illude di sapere tutto sull’uomo comune, ed è piuttosto arrogante nel millantare questa sua conoscenza, eppure è chiaro che dell’uomo comune lui non sappia nulla, sordo da quell’orecchio vorrebbe scrivere di qualcosa che non sa, ma è costretto a scrivere di qualcosa che non conosce, come il Wrestling, anche se potremmo dire che le sue nozioni sulla lotta e sull’uomo comune si equiparino, entrambe prossime allo zero.
Le due nozioni base sul Wrestling Barton le impara in una scena volutamente ambigua («Siete andati a letto insieme?», «É un uomo! Abbiamo fatto la lotta!») da Charlie che è la quintessenza dell’uomo comune che Barton sostiene di conoscere, così impegnato a gongolarsi nell’ammirazione di questo modesto ometto (anzi omone) della strada, da dimostrare palesemente di non conoscerlo minimamente. Barton è l’America del 1941, sorda all’orrore proveniente da oltre oceano, infatti Charlie in realtà si chiama Karl Mundt, nome preso in prestito dai Coen dal membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti che divenne vice presidente della Commissione per le attività antiamericane, che, a partire dalla fine degli anni quaranta, stroncò il sostentamento degli attori, dei registi e degli sceneggiatori con simpatie socialiste, quelle che millanta anche Barton tanto per capirci. Il fatto che massacri due poliziotti, inneggiando a quello con i baffetti che somigliava a Chaplin (ma molto meno geniale e simpatico) e che trasformi l’albergo – letteralmente, grazie alla favolosa fotografia di Roger Deakins – in un inferno, ci restituisce la dimensioni dell’ottusità tronfia di Barton Fink, che incarna alla perfezione il suo Paese, anno di grazia 1941.
La “vita della mente” di Barton viene vissuta in un corpo che non è sano, un corpo che crede di essere equilibrato ma non lo è, non è un caso che il vero barometro dell’equilibrio nel nostro corpo sia l’orecchio, quello di Barton è sordo, e visto che i Coen ci hanno fatti lentamente scivolare a nostra volta nella vita della mente, il mondo che Barton crea intorno a sé (o quello creato da cioè che vede, il confine nel film è volutamente sfumato) è una proiezione stessa della sua condizione.
L’hotel Earle è un grande orecchio malato, con la carta da parati che si stacca e la colla scollata che somiglia a cerume sciolto, ma è davvero così o forse Barton in quanto scrittore, ha assorbito come una spugna il discorso di Chet, la sua litigata per la parcella di dieci dollari con il dottore (che alla luce del finale assume un significato ben più sinistro) per la sua infezione all’orecchio?
Barton appena arrivato in reception chiede al personaggio di Steve Buscemi delucidazioni sui rumori che sente, e ogni suono nell’albergo è amplificato, se esistesse una grande trilogia di film americani non sull’occhio, ma sull’orecchio, “Barton Fink” con il suo impeccabile montaggio sonoro e il lavoro certosino sull’audio ne farebbe parte, sicuramente insieme a Blow Out di Brian De Palma, fateci caso, l’incontro con Chet avviene prima attraverso le urla che disturbano lo scrittore e da quel punto in poi ogni suono risulta amplificato per mettere sempre più in bilico il già precario equilibrio (anche mentale) del titolare.
Il finale poi è bellissimo, la scatola che Barton porta in spieggia assume il valore di un MacGuffin (quindi uno degli strumenti base nella borsa dei trucchi degli scrittori) perché serve a mettere in modo la piccola storia che conclude il film, l’incontro in spiaggia con la bella ragazza, identica a quella del quadro nella stanza d’albergo di Barton, perché anche qui, chi è che crea la storia?
Questo finale mi piace molto perché ancora una volta, il suono della risacca del mare risulta amplificato, sempre per farci drizzare le orecchie, poi lo sapete, non sono un talebano del film da vedere solo e rigorosamente in originale, ma nella versione doppiata l’ultima riga di dialogo di “Barton Fink” perde una sfumatura, quello scambio «Lavora nel cinema?», «Non dica sciocchezze», non ha la stessa doppia chiave di lettura rispetto a «Are you in pictures?», che chiesto ad una che molto probabilmente, è uscita davvero da un quadro, ha tutto un altro fascino.
“Barton Fink” resta uno degli oggetti più strani e affascinanti della filmografia del regista a due teste, non viene ricordato mai abbastanza, ma anche solo per averci regalato il John Goodman più spaventoso (per prova e personaggio) di sempre, meriterebbe di essere riscoperto, rivalutato, anzi mi verrebbe da dire riascolato.
La prossima settimana invece, ultimo capitolo dell’anno per la rubrica, prima della pausa per le festività, guarda caso, un film a tema natalizio, poi non dite che non pianifico a dovere le traiettorie di volo di questa Bara eh? Tra sette giorni qui, non mancate.
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