Il Professor Quinto Moro vi porta in gita sulla sua isola. Indossate un giubbetto antiproiettile e tenete giù la testa perché oggi volano mazzate, si va nel peggiore dei posti del mondo: la scuola.
Adoro Jennifer Lawrence, davvero, ma Hunger Games non l’ho mai potuto soffrire perché quando uscì ero già un accolito dell’originale, l’unico e il solo Battle Royale. Pochi film hanno avuto una distribuzione sfigata come questo, osteggiato per paura delle signore Lovejoy di mezzo mondo, quelle che “qualcuno pensi ai bambini”, ma qua son cazzi, perché in Battle Royale i bambini pensano per sé, e se pensano a te, è meglio che cominci a correre.
La risposta definitiva alla vita, l’universo e tutto quanto non è 42, non in Giappone, dove la risposta definitiva è una pallottola in testa e 42 è solo l’inizio del killcount. Quarantadue studenti delle medie partono per una gita scolastica, vengono narcotizzati e scaricati su un’isola deserta, con addosso un collare esplosivo per non scappare, una bussola e una mappa per orientarsi, un’arma casuale e via con la mattanza. Alla fine, ne resterà soltanto uno. Giuro che se mai la faranno così, comincerò a guardare l’Isola dei famosi o un qualsiasi talent show italiano.
L’incipit accenna soltanto all’esistenza dei “giochi”, e serve giusto per rafforzare la brutalità dello spiegone iniziale, in cui Takeshi Kitano, nei panni di un insegnante infame, si prepara a sconvolgere le loro vite. Il vostro vecchio insegnante? Morto ammazzato. Bisbigli durante la spiegazione del gioco? ZACK, un coltello in piena fronte. Non stai attento o protesti? BOOM, sulle tue giugulari esplode il capodanno cinese. La realtà è questa: meglio rendersene conto subito perché da qui in poi è tutto delirio.
L’omonimo romanzo di Koushun Takami aveva impiegato qualche anno a trovare una distribuzione, prima di sfondare con un successo dirompente in casa e all’estero. L’adattamento per lo schermo non ha avuto vita più facile, osteggiato in patria (non dal pubblico che l’ha adorato, ma guadagnandosi tanto di ammonimenti dal governo) e osteggiato all’estero, dove ha faticato per anni a trovare una distribuzione decente. Fa sorridere – e un po’ incacchiare – che dopo i roboanti successi di Hunger Games e Squid Game, il loro padre spirituale non abbia ancora guadagnato la giusta fama (è una mia idea), quando invece andrebbe proiettato nelle scuole.
[Nota Cassidiana] Qui alla Bara Volante i titoli così hanno un nome e un logo rosso che questo film si merita a pieno titolo: Classido!
Le scuole, se non altro in quelle di cinema, perché se il film deve ovviamente snellire il romanzo e catturarne l’essenza, tralasciando il background degli studenti – salvo qualche eccezione – riesce a farci provare qualcosa per ogni personaggio a schermo. Non importa quanti siano, o per quanti minuti o secondi appaiano prima di morire ammazzati, ciascuno studente è una piccola tragedia che si consuma.
La sceneggiatura funziona nelle dinamiche tra i ragazzi, nei pochi flashback ad orologeria per dare un minimo di profondità a questo o quel personaggio. Pur passando continuamente da uno scontro all’altro, l’azione non è caotica perché ad essere protagonista è la classe scolastica come entità collettiva, letteralmente fatta a pezzi per ricondurre tutti all’individualismo.
Benché la Battle Royale del titolo sia un grande gioco al massacro, non c’è nessun accento sulla componente ludica e d’intrattenimento per il pubblico, che di questo spettacolo di morte vede solo il finale, che poi è l’aspetto più spietato di tutti: non ci importa quanto avete sofferto o come vi siete ammazzati, ci interessa solo sapere chi ne è uscito vincitore.
Le scene di ammazzamenti, tensioni e tradimenti sono immediate, veloci, tese, grondano realismo insieme a litrate di sangue. Vedere per credere la memorabile scena nel faro, che è la risposta alla domanda: cosa sarebbe successo se i protagonisti de La Cosa di John Carpenter avessero avuto dodici anni?
Il film non ha velleità distopiche, il prodotto di questo folle gioco non è chissà quale società corrotta del futuro, è quella presente, ben inserita nella realtà. Il metaforone più immediato è l’esasperante competitività del Giappone e del suo sistema scolastico, ma la Battle Royale è prima di tutto una legge dello Stato, il prodotto naturale di una società che cannibalizza i propri figli in un tritacarne di competitività, arrivismo, reality show e giochi a premi. Una società glorificata dal sadismo reazionario che si abbatte sulle nuove generazioni in ogni modo possibile, facendone capro espiatorio del degrado e delle frustrazioni adulte. Il nostro Paese va a schifio? Colpa dei giovani. Hanno accoltellato un insegnante? Bisogna fare una legge per impedire questo e punire quello. Suona familiare, nevvero?
Nel film, ad uscirne peggio sono i pochi adulti che vediamo, lo stesso Kitano che dà del fallito al collega insegnante ucciso è probabilmente un genitore e marito fallito a sua volta. “Abbiamo avvisato i vostri genitori” dice Kitano. Non ci sono famiglie preoccupate a casa. Quel che sta per succedere, ve lo meritate.
Gli studenti sono soli. Hanno se stessi e la fiducia o diffidenza verso gli altri. Possono accettare la regola dell’uccidi se non vuoi essere ucciso, oppure impiccarsi, letteralmente (altro elemento tutt’altro secondario per il Giappone, in cui la tendenza al suicidio è abbastanza rilevante da meritare una pagina dedicata su Wikipedia).
Il film ha un ritmo incredibile. I primi venti minuti sono uno spiegone che introduce alle regole della mattanza, tesi e brutali come una fucilata. La pellicola eccelle nel normalizzare la follia, a partire dall’atteggiamento del professore-aguzzino interpretato da Takeshi Kitano. C’è una grottesca ironia che il ruolo sia andato all’ideatore di quel Takeshi’s Castle che sul finire degli anni ’80 brutalizzava mandrie di concorrenti in giochi e sfide a ostacoli intrise di un sadismo tutto nipponico (omaggiato dai Simpson e dai Gialappi nostrani), e pure tornato di moda nel 2023 con nuovi episodi.
Il regista Kinji Fukasaku cambiò il nome del prof. per renderlo omonimo a Kitano, solo perché gli aveva chiesto di recitare se stesso (storia vera). Kitano è un personaggio ambiguo, privo di ironia e di vero sadismo, uno dei più difficili da inquadrare e con più chiavi di lettura. Lo stesso attore non sapeva come interpretarlo, a volte spiazzato dalle richieste del regista. I momenti-tipo sul set erano così:
Kitano: “Devo tirare DAVVERO il gesso in testa alla ragazza?”
Fukasaku: “Ma certo, l’abbiamo scritturata per questo!”
Risate. Immagino gli umori al ciak successivo, quando invece del gessetto doveva tirarle il coltello.
Kinji Fukasaku è noto in occidente soprattutto per la co-regia di Tora! Tora! Tora!, e per questo Battle Royale che è stato anche la sua ultima vera regia, affrontata con l’energia di un attempato ragazzino (il sequel, BR2 non fu opera sua ma gliel’affibbiarono lo stesso).
Il film è stato realmente girato su un’isola deserta, abitata solo da capre (storia vera) e dall’arzillo settantenne Fukasaku si arrampicava su e giù per l’isola in canotta e occhiali da sole, di giorno e di notte, tra lo stupore del giovane cast, cui non mancava di raccontare la sua insofferenza verso gli adulti e il governo giapponese durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, con tanto di aneddoti raccapriccianti sulla sua esperienza da adolescente all’epoca, cosette leggere, come nascondersi tra i cadaveri per non farsi trovare, o rastrellare e bruciare i corpi dei morti.
Per aumentare il senso di minaccia e aumentare di svariate tacche la tensione generale, Fukasaku volle anche dare al personaggio di Kiriyama lo status di vero e proprio villain. Spogliato da ogni background, Kiriyama non parla, non urla, prova solo piacere nell’uccidere e infliggere sofferenze agli altri. E’ il male puro, quasi un demone sovrannaturale che non finisce mai le munizioni e significa morte per chiunque lo incontri.
Del film esistono due versioni, una classica e una “Special version” con effetti visivi e sonori migliorati, oltre all’aggiunta di scene extra. Per anni ho conosciuto solo la versione originale, e mi ha sorpreso il modo in cui appena tre minuti di girato aggiungano un ulteriore livello di lettura. Si tratta per lo più di flashback riguardanti una partita di basket a scuola. A me ha dato l’idea di un confronto tra il Battle Royale, competizione che esaspera la competitività sino alla distruzione tanto dei singoli quanto della classe come gruppo, e la partita come una competizione sportiva sana e che coinvolge tutti. La partita è il contrappeso al massacro, la metafora dell’innocenza perduta, di tutto ciò che era bello, un senso di unità comune, qualcosa per cui valeva la pena vivere. Insomma, l’alternativa al classico fate l’amore non la guerra: giocate a basket, invece di scannarvi. Cassidy approva.
Il lascito nell’immaginario collettivo del film sarebbe poi esploso (anche grazie ad Hunger Games) nel filone di videogiochi che portano il nome di battle royale, un sottogenere degli sparatutto che si rifà alle medesime regole di base del massacro sull’isola, e che puntualmente fanno indignare qualcuno perché “ommioddio i bambini per vincere devono uccidere sparando, che cosa brutta e diseducativa!” e la notte sogno di finire in un Battle Royale con questa gente, armato solo di una penna.
Il professor Cassidy ringrazia lo Studente n. 5 – Quinto Moro sopravvissuto alla mattanza. Se vi va potete trovare i suoi racconti (dove non mancano i morti ammazzati) cliccando QUI. Prossima puntata: Battler Royale II – Requiem, il sequel di cui non conoscevate l’esistenza e che purtroppo esiste.
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