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Beat the Devil (2002) e Agent Orange (2004): Tony’s shorts

Ormai dovreste saperlo: tutte le rubriche monografiche che
questa Bara dedica ai registi, si beccano un capitolo a sorpresa, questo è
quello dedicato a Tony… Lo Scott giusto!

Mentre nel 2019 una certa casa automobilistica torinese (Fix It Again Tony) fa pubblicizzare una sua macchina
con il nome di un animale in via di estinzione a Fabio Rovazzi, tra il 2001 e
il 2002 la BMW per fare un po’ di pubblicità ai suoi modelli, pensò bene di
assoldare otto registi dai nomi parecchio blasonati e l’attore Clive Owen. Quasi
la stessa cosa, vero?

Non sto a girarci troppo attorno: in quel periodo “The Hire”
è diventato il mio oggetto del desiderio numero uno. Mi sono lanciato in una
caccia spietata per mettere gli occhi su tutti gli otto episodi, con
protagonista Clive Owen, nei panni di un silenzioso, ma abilissimo pilota senza
nome. Alcuni di questi (tutti non credo, ma non ho trovato riscontri) sono
anche stati trasmessi in seconda serata da Canale 5, se la memoria non m’inganna.

Proprio come avere Rovazzi che pubblicizza un’utilitaria. Uguale uguale.

Cercate di capirmi: come potevo non sbavare come uno dei
cani di Pavlov, davanti a roba diretta da gente come John Frankenheimer (il suo
“Ambush” con Tomas Milian è una bomba), Ang Lee, Wong Kar-wai, Guy Ritchie (nel
pieno del suo periodo da “Toy Boy” di Madonna che, infatti, recita nel suo corto
“Star”), Alejandro Iñárritu,
sua Maestà John Woo, Joe Carnahan e Neill Blomkamp. Ma sapete chi ha
superato a destra tutti questi grandi nomi, sgommando e fumando il sigaro?
Proprio quello giusto della famiglia Scott, il nostro Tony.

“Beat the Devil” (2002)
Questo è senza ombra di dubbio il segmento
migliore tra tutti quelli di “The Hire”, è quello che racconta la storia più
folle e divertente, ma anche quello diretto con il coltello tra i denti da un
Tony Scott nel pieno dell’evoluzione del suo già riconoscibile e curatissimo
cinema.
Quando dico che Tony Scott è uno di quelli che interpretano
meglio le lezioni di Walter Hill non scherzo, è chiaro che il personaggio di
Clive Owen sia diretto discendente dell’imprendibile Driver di Gualtiero che in questo cortometraggio di dieci minuti
deve prestare il suo talento di pilota ad un cliente notevole: James “cocaina”
Brown.

“Io mi sento bene, voi vi sentite bene? No perché io mi sento proprio bene”

La fotografia inimitabile di Tony Scott ci porta subito in
un crocicchio (ed eccolo che torna Walter Hill) nel novembre 1954, dove un
giovane Brown non ancora famoso, idealmente confessa il segreto del suo
successo, un patto con il signore delle tenebre per diventare il padrino del
Soul. Ma si sa come sono gli accordi con il Diavolo, no? Hanno sempre qualche
clausola che alla lunga ti frega, quella che ha inchiodato James Brown
impedendogli di fare le spaccate sul palco, è l’invecchiamento.

Quindi, l’autista Clive Owen porta il suo cliente a parlare
con il Diavolo in persona, anche se la porta viene aperta dal suo assistente,
Danny Trejo. Direi che a facce famose la BMW non ha badato a spese, ma
aspettate perché il meglio deve ancora arrivare, in una delle sue prove
migliori, in una carriera costellata da prova d’attore magnifiche, il Diavolo è
interpretato dall’unico al mondo che potrebbe esserlo per davvero: Gary Oldman.
Ora la capite perché sbavavo per vedere questa robetta!?

Perché pazzo Gary è nato per interpretare il ruolo del diavolo!

Se in Una vita al massimo, proprio diretto da quello giusto
della famiglia Scott, Gary Oldman era stato gigantesco, qui replica entrando in
scena truccato, leopardato e svaccato su una specie di sedia a rotelle. Buca
letteralmente lo schermo e ruba la scena a tutti (anche a James Brown, scusate
se è poco), ma non riesce ad imporre il totale dominio sui dieci minuti di “Beat
the Devil” solo per una ragione: Tony Scott è ancora più scatenato di lui.

Il padrino del Soul vuole un’altra anima, per altri cinquant’anni
di spaccate e spettacoli sul palco, il Diavolo gli propone una gara in auto,
Danny Trejo su una Trans Am tamarrissima contro Clive Owen sulla BMW Z4 3.0i.
Perché, comunque, lo sponsor paga e va bene divertirsi, ma saremmo qui per
vendere macchine, mica biglietti per i concerti di James Brown.

“Non mi puoi trattare così, io sono il padrino del Soul”, “Io sono il principe delle tenebre, sai che mi frega”

Tony Scott ha portato il suo cinema nell’era digitale con Nemico Pubblico e gli ha fatto fare un
ulteriore salto di qualità in Spy Game,
ma è con “Beat the Devil” che diventa definitivamente quella macchina da
combattimento visivamente strapotente delle sue ultime pellicole. In dieci
minuti qui, lo Scott giusto è il più scatenato di tutti, quando è il momento di
narrare lo fa senza esagerare, tenendo la macchina da presa ferma come i
manuali di regia insegnano, ma il resto del tempo usa ogni tecnica possibile
(zoom selvaggi, “Frame Freeze” fulminanti) e a tutto dona una palette cromatica
che al solito arancione (delle esplosioni e del deserto in cui si svolge la
clamorosa corsa finale), aggiunge tocchi di verde su cui vi chiederei di tenermi l’icona
aperta, perché tra un po’ ci torniamo.

Nudi Calvi alla meta.

Un’altra caratteristica che Tony Scott utilizza qui per la
prima volta, sono le frasi pronunciate dai personaggi che letteralmente
compaiono sullo schermo, come a voler dare enfasi alle parole, dando loro corpo,
rendendole visibili e, quindi, puramente cinematografiche anche loro. Siamo nel
campo della sperimentazione più pura per lo Scott giusto e tutte le tecniche e
i trucchetti usati in questo “Beat the Devil”, torneranno buoni nel resto della
sua filmografia e più modestamente in questa rubrica a lui dedicata.

Comunque meglio che farsi tirare giù dal letto dai Testimoni di Geova.

Il finale di “Beat the Devil” è bellissimo, un bellissimo
(e divertente) omaggio al talento di James Brown che proprio nell’ultima
scena si gioca una comparsata di lusso: secondo voi chi può avere come vicino
di casa il Diavolo? Marilyn Manson che si lamenta perché la musica troppo alta,
gli impedisce di leggere la Bibbia. No, sul serio, con enorme rispetto per gli
altri grandissimi nomi coinvolti dalla BMW, lo Scott giusto qui è più imprendibile di
Clive Owen! Se non lo aveste mai visto, vi metto il corto per intero qui sotto,
rifatevi un po’ gli occhi.

Agent Orange (2004)
Nel 2004 Amazon commissiona a Tony Scott una cosetta
intitolata “Agent Orange”, ufficialmente descritta come una storia d’amore
psichedelica, in un oscuro scenario da sogno. Qualunque cosa vogliano dire
queste parole messe insieme in questa sequenza, facciamo così: questo prima ve
lo faccio vedere poi ne parliamo.
Lo sappiamo tutti, l’agente arancio era il nome del famigerato
defoliante scaricato in dosi abbondanti dagli Americani sulle popolazioni
locali in Vietnam. Mettiamola così, quindi: l’agente arancio è l’elemento che sganciato
su qualcuno (nella fattispecie il protagonista del corto interpretato da Christopher
Carley) gli sconvolge la vita. Lo so, ho dovuto fare uno sforzo per girare
attorno al fatto che questo corto è una scemenza.
Sull’argomento “un ragazzo incontra una ragazza”, Tony aveva già detto tutto nel modo migliore possibile, qui l’unica aggiunta arriva dal
fatto di poter inserire nei cinque minuti di “Agent Orange” un’altra sua
fissazione, la metropolitana, anche quella ereditata idealmente da Walter Hill.
L’unico motivo per cui vale la pena prendere in analisi “Agent
Orange” è farlo a questo punto della rubrica, dove ha un suo valore se contestualizzato
nell’anno 2004 per farlo, però, devo chiudere quell’icona lasciata aperta lassù.
Se Tony Scott è arrivato ad essere soprannominato “Mr. Nove telecamere”
è anche perché dal 2000 in poi la sua tecnica è diventata ancora più
strapotente visivamente. Quello giusto della famiglia Scott gira come un
forsennato da ogni angolazione possibile, poi armato con il super potere del
montaggio digitale, mescola tutto l’assurdo quantitativo di girato donandogli
una palette cromatica in cui verde e arancione (ovviamente) la fanno da padrone.
I colori diventano letteralmente l’unico modo che ha lo spettatore di
continuare a seguire la storia, le fasi dell’innamoramento del protagonista,
sono scandite dal numero di indumenti arancioni con cui si ritrova addosso, abbandonando
progressivamente il verde, per ritrovarsi vestito come la sua amata interpretata
da Jessica Stam.

Cinquanta sfumature di nero arancione e verde.

Tony porta la saturazione al massimo, taglia, rallenta,
accelera, sovrappone il montaggio e aggredisce le pupille dello spettatore al
massimo, nel suo film successivo (prossimamente su queste Bare, non vedo l’ora!)
utilizzerà la stessa identica tecnica, solo leggermente più sotto controllo, ma
in “Agent Orange” Tony Scott apre il gas al massimo, in piena fase di
sperimentazione. La palestra dove allenare le tecniche per il suo prossimo
film che è talmente bello che permette di dare un senso anche a questa robetta
fatta con i soldi di Amazon.

Per questo capitolo speciale della rubrica dedicata allo
Scott giusto è tutto, ci vediamo come al solito venerdì con il solito
appuntamento settimanale con Tony, invece, se avete ancora qualche minuto, qui
sotto trovate il solito schemino della “Scottitudine”.

“Beccati questa fratellino, tiè”

Beat the Devil (2002)
e Agent Orange (2004)

Se li avesse diretti Ridley?
Tanti, anche troppi, starebbero qui a menare il torrone sul
fatto che Ridley ha battuto una concorrenza diretta fatta di nomi non grandi,
ma grandissimi. Ma lo ha fatto Tony, quindi se va bene tutto questo viene
etichettato come una marchetta per BMW e Amazon.
Nel paragone diretto, restano comunque molto meglio di:
“Chanel No. 5: La Star” (1990) e “The Journey” (2019)
Perché cari adoratori dello Scott sbagliato, anche Ridley fa
le marchette, per i profumi e per la Turkish Airlines, ma senza Gary Oldman e
James “cocaina” Brown. Sono sicuro che molti di voi nemmeno lo sapevano.
Risultato parziale dopo il Round a sorpresa:
Tony sgomma con la sua sportiva tedesca sul vostro costoso
profumo francese, perché lui è Tony, lo Scott giusto!
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