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Becky (2020): mamma, ho preso il Nazista (bulla con i bulli)

Chissà se Michael Haneke ha visto questo film? Lo so,
domanda bizzarra per iniziare, ma è un pensiero che mi è balzato in mente guardando
“Becky”.

Becky (la giovane Lulu Wilson) è una ragazzetta
adolescente e in quanto tale, incazzata con il mondo. Lo sareste anche voi se
aveste come papà Jeff (Joel McHale), ex suprematista bianco ora redento, che
vuole a tutti i costi portarvi a fare un fine settimana, nella sua casetta nel
bosco, insieme alla sua fidanzata Kayla (Amanda Brugel) e il suo figliolo. Non proprio il
week-end dei sogni per una ragazzina che per di più, non ha ancora superato la
perdita della madre.

“Tutto il fine settimana con i miei!? Mi viene voglia di uccidere qualcuno!”

Chi manca per movimentare ancora di più i piani per la
domenica in famiglia? Mettiamoci due Nazisti evasi di prigione, uno enorme e
minaccioso, il braccio, Apex (Robert Maillet, il pilota russo di Cherno Alpha in Pacific Rim, giusto per fare un titolo)
e l’altro il cervello dell’operazione Dominick, interpretato da quel paciarottone di
Kevin James, che ha sostituto al volo Simon Pegg nella parte, costretto a
ritirarsi per precedenti impegni lavorativi (storia vera).

Dominick e Apex sono la versione ariana di Mignolo &
Prof, coperti di svastiche tatuate, sono molto interessati a recuperare una
certa chiave, con sopra ben visibile il Valknut, un antico simbolo norreno che
è l’unico indizio su questo oggettivo, che di fatto è il più classico dei
MacGuffin utilizzato per mettere in moto la trama. Sicuramente i trascorsi del
padre di Becky hanno un legame con la vicenda, ma cosa apre questa benedetta
chiave e perché i due nazistoni in fuga la vogliono a tutti i costi, beh questo
film non lo racconta per niente, fatevene una ragione.

Dovrebbe essere un gran bastardo, ma più lo guardo più vedo solo Kevin James.

I due registi del film, Cary Murnion e Jonathan Milott
sono interessati più che altro a raccontare una storia di “Home invasion”, con
un punto di vista un pochino differente dal solito: questa volta le vittime non
hanno nessuna intenzione di farsi cogliere impreparate, dimenticate quindi per
un momento la lezione di Ingmar Bergman,
replicata in tanti film di vendetta,
Becky la protagonista è una bulla, che però bullizza i bulli.

I due registi lo mettono subito in chiaro con la prima
scena d’apertura, un parallelismo tra i corridoi della scuola e il cortile
della prigione, che vede da una parte Becky e dall’altra Dominick uscire a
testa alta da un tentativo di pestaggio, l’idea di far scontrare due personaggi
esteticamente agli antipodi, ma identici come atteggiamento, fa saltare il banco
di tutte le dinamiche del vostro “Home invasion” medio, infatti Becky risponde
subito presente con trappole e trappoline che inevitabilmente, vi faranno
pensare ad una versione splatter di “Mamma, ho perso l’aereo” (1990).

Anche perché l’altissimo Robert Maillet, interpreta lo
spilungone un po’ tonto, mentre il piccoletto pelato Kevin James è quello
diabolico del duo, prima li ho definiti Mignolo & Prof, ma mi rendo conto
che invece sono l’equivalente locale di Daniel Stern e Joe Pesci.

“Vi arrendete?”, “GIAMMAI!” (Cit.)

Anche perché, parliamoci chiaro, Joe Pesci per
interpretare quel ruolo nel film di Chris Columbus, dovette mordersi la lingua e
limitare l’uso delle parolacce rispetto alla media dei suoi personaggi (storia
vera), mentre Kevin James qui, malgrado la barba e la svastica sulla nuca,
proprio non riesce ad andare oltre. Lo guardi e non vedi altro che il superpoliziotto
del supermercato che prova a fare il duro senza riuscirsi. Farebbe quasi
tenerezza, se non fosse che il suo personaggio è uno sporco Nazista («Io li odio
i nazisti dell’Illinois» cit.), quindi non è proprio possibile patteggiare per
lui, anche se a ben guardare nemmeno Becky prova a guadagnarsi la nostra
simpatia.

Infatti proprio per quello il personaggio funziona, Lulu
Wilson si carica tutta la pellicola in spalla, interpretato la parte di una
stronza dall’inizio alla fine del film. Quello che traspare dal suo personaggio
è il suo essere una sociopatica senza possibilità di recupero, una specie di
Hit-Girl (dal fumettistico “Kick-Ass” del 2010), senza però la preparazione
paramilitare alle spalle, sostituita da un buffo copricapo fatto a maglia,
perfettamente inutile sì, ma da indossare prima di dissotterrare l’ascia di
guerra.

“Tengo le orecchie al caldo e allora? Ora prova a ripetere che non ti piace il mio berretto Cassidy, ti sfido!”

Per questo ero interessato al parare di uno come Michael
Haneke, che in quanto professionista estremamente serio (a differenza mia), non
perderà certo tempo con questo tipo di film, però nel suo “Funny Games”
(entrambi per la verità, l’originale del 1997 e il remake americano del 2007), portava in scena un vero e proprio esperimento sociale sulla violenza nel cinema,
anzi meglio, sul modo in cui noi spettatori reagiamo alla violenza nei film: se sono i cattivi a maltrattare i buoni, come spettatori ci agitiamo e soffriamo
insieme ai protagonisti, se invece la stessa violenza viene perpetuata dai
buoni sui cattivi, allora va tutto bene, sotto con la mattanza!

Quindi la parte più interessante di “Becky” resta proprio
questo, cosa succede quando due malvagi, per cui è impossibile provare la
minima empatia, vengono mutilati, accecati, e triturati con l’elica del motore
di una barca da una ragazzetta, che di sicuro non è simpatica, ma che sta dalla
parte giusta dalla barricata? Più o meno questo, uno spettacolo dove il sangue
non manca, ma in più di un’occasione viene da pensare: tutto qua?

“La penna è davvero più potente della spada?” (Cit.)

Una menzione d’onore la merita davvero Lulu Wilson, che
riesce a risultare credibile anche quando deve vedersela – aiutata dalla storia -, con gli oltre due metri di altezza di Robert Maillet. Ma consumato lo spunto
iniziale di mettere una bulla contro due bulli, il film di Cary Murnion e
Jonathan Milott non ha molto altro da offrire.

Se non forse qualche sospetto di “Hipsterismo” di fondo,
perché con la sua maglia a righe stile ape Maia e il berrettino di lana (che a
me continuava a ricordare un po’ Nel paese delle creature selvagge), il sospetto lecito è che i due registi si
siano impegnati di più con lo spunto iniziale del film, per poi concentrarsi a
cesellare – proprio a partire dal look -, un personaggio che nelle loro
intenzioni, dovrebbe entrare a far parte dell’immaginario collettivo. Sarà, ma
oltre all’utilizzo alternativo del Liquidator, il film non mi ha lasciato
molto, se non 100 minuti di mattanza più che decente e dei Nazisti maltrattati,
che per altro bisogna dirlo, non fanno mai male, un film con i Nazisti come
cattivi è già un film che si mette dalla parte della ragione.
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