In questa serie di compleanni che stiamo festeggiando qui alla Bara, l’ho già detto che il 2003 per me è stato un anno pazzo, ma pazzo nel senso migliore del termine se ne esiste uno, il 2003 è stato anche l’ultima volta in cui quello strano pesce di Tim Burton ha sbattuto forse per l’ultima volta la coda, almeno prima di spiaggiarsi per sempre. Ma andiamo per gradi come avrebbe detto Anders Celsius.
Il libro è sempre meglio del film! See, lallero! Voi lo avete mai letto “Big Fish” di Daniel Wallace, il suo primo romanzo del 1998? Io l’ho fatto e posso dirvi tranquillamente che va sotto bevendo dall’idrante contro l’adattamento cinematografico, che in tema con il film è una storia produttiva incredibile e mediamente lunga, quindi mettetevi comodi, questo è il mio momento di fare l’Edward Bloom di turno.
Uno che il libro di Daniel Wallace lo ha letto sicuramente è stato lo sceneggiatore John August, questione di tempismo perché da poco aveva perso suo padre quindi il romanzo deve averlo toccato particolarmente, nel corso delle varie riscritture – quelle che hanno determinato la riuscita distanza con il materiale originale – a bordo dell’operazione è salito anche uno, bravino eh? Che in linea di massima con il materiale di cui è fatta questa storia come dire, ci azzuppava come direbbero in Alabama. Attorno all’anno 2000 il regista pronto a narrarci delle gran belle balle raccontate da Edward Bloom è il più indicato nel pianeta: Steven Spielberg.
Zio Steven che sta più avanti dell’avanguardia, per il ruolo del protagonista pensa a Jack Nicholson, lo so, lo so cosa state pensando, suona strano a caldo, ma pensateci: guascone, stracciamutande, con l’aria di uno che potrebbe vendere la neve agli Inuit, sarebbe stato molto sensato per i ruoli di Edward(s) Bloom(s), al plurale, perché Spielberg stava già pasticciando con le tecniche di ringiovanimento digitale nel 2000, prima che fossero un’ossessione di Hollywood e sembrava quasi fatta, se non per il tono della sceneggiatura su cui August e Spielberg non riuscivano ad accordarsi, così tanto che ad un certo punto il regista ha perso interesse lasciando la palla a qualcun altro, bisognava solo capire chi.
Anno pazzo il 2003 dicevo, per Tim Burton quello del suo ultimo vero colpo di coda, visto che solo un paio di anni prima, aveva firmato il suo primo (e fino a quel momento unico, ma si sarebbe rifatto alla grande dopo ahinoi) mezzo scivolone con Planet of the apes, per dimostrare subito di aver solo messo il piede su una buccia di banana, Tim Burton accetta un film che ad una prima occhiata non ha quasi una mazza in comune con il suo stile, ed è più o meno dal 2003 che lo dico, se solo Burton avesse avuto più fegato nell’accettare soggetti così, in grado di portarlo apparentemente fuori dalla sua zona di sicurezza, avremmo evitato la deriva successiva, quella che ha portato un regista con una poetica precisa e uno stile riconoscibile, nel trasformarsi in un arredatore di interni a cui basta fare “Cose alla Tim Burton” invece che farle davvero, gli esempi pietosi purtroppo si sprecano.
Burton entra in punta di piedi in questo progetto, e anche qui, nulla mi toglie dalla testa che una prima mano di vernice data da Spielberg prima delle pennellate di Burton, abbiano se non fatto bene, almeno avviato il progetto lungo la strada giusta. Infatti il riccioluto regista aveva anche avviato le trattative con Jack Nicholson, insomma, l’ultima volta che i due erano stati insieme sullo stesso set, non era andata poi malissimo no? Eppure anche Jack come Spielberg abbandona il progetto, a quel punto per la caccia al nuovo Edward Bloom partono i provini e qui si vede tutto il Burton conservatore che avrebbe poi fatto danni nel resto della carriera: Ewan McGregor è stato suggerito dai produttori Bruce Cohen e Dan Jinks che avevano già lavorato con lui, il regista “darkettone” ha accettato perché in McGregor rivedeva tratti della recitazione di Johnny Depp. Non so voi, ma per me questa oltre che storia vera è anche sindrome di Stoccolma, ma andiamo avanti.
Con l’infinito amore che ho per Spielberg, per me un casting fatto come si deve non si batte, magari tra vent’anni si farà tutto con la tecnica del “de-aging”, ma uno dei migliori colpi in faretra di “Big Fish” sta nell’aver azzeccato i due Bloom, visto che è altamente probabile che Ewan McGregor da vecchio, più che a Sir Alec Guinness, somiglierà per davvero ad Albert Finney.
Strappato dal suo Johnny di fiducia, Tim Burton manda a segno uno dei casting più variegati mai messi su in carriera, se escludiamo la strega Helena Bonham Carter e il circense Danny DeVito (perché Burton senza portare in scena un circo in un suo film, proprio non può stare) che sono due suoi storici pretoriani, tutti gli altri sono nomi a cui il regista purtroppo non si è mai più affidato. A partire dallo scozzese per passare al bravissimo Billy Crudup, alla capacità di Jessica Lange di brillare nelle tre scene in croce che ha a disposizione, per non parlare di Marion Cotillard o di Steve Buscemi, che qui si inventa un poeta rapinatore di banche che sembra una scheggia partita per errore da un film dei fratelli Coen e precipitato in questa storia. Ribadisco, se Burton avesse messo il naso più spesso fuori dal suo piccolo stagno, oggi non sarebbe l’arredatore di interni con le branchie che purtroppo è diventato.
I primi cinque minuti di “Big Fish”, come sempre con tutti i film, ne dettano subito il passo e il tono, al matrimonio del figlio Will (Billy Crudup), papa Edward (Albert Finney che gigioneggia alla grande mangiandosi il ruolo) non riesce proprio a trattenersi dal calamitare l’attenzione su di se, raccontando per l’ennesima volta la storia del pesce, dell’anello e di come ha sposato la signora Bloom (Jessica Lange), trovando un altro pubblico da incantare con la sua arte oratoria. Il film sguazza agevole tra le edulcorate balle raccontare da papà Edward, panzane strampalate piene di streghe, gemelle siamesi e Buick parcheggiate sugli alberi, a cui nessuno crede ma che tutti ascoltano perché mordimi pescecane se Bloom non sa come raccontarle.
L’altra faccia della medaglia è la realtà, tutta ritratta con una fotografia un po’ più fredda dal direttore della fotografia Philippe Rousselot, il mondo dove vive Will, un figlio che si considera una postilla nelle grandi storie del padre ma gli somiglia più di quello che vorrebbe ammettere, anche lui un raccontatore di storie visto che di mestiere fa lo scrittore, anche se è scappato in Francia per uscire dall’enorme ombra paterna. Posso dirlo? “Big Fish” è un film incredibile perché se volete il fantastico qui ne avrete a quintali, se invece volete le chiavi di lettura e il coinvolgimento emotivo, avrete anche quelle, la ripeto da vent’anni questa storia, per me potrebbe essere tra i tre migliori film di Burton di sempre, sicuramente un Classido!
Va detto che gli attori inglesi l’accento dell’Alabama lo recitano dormendo, quindi è uno spettacolo potersi godere le panzane di Bloom, che di colpo realizziamo essere un altro bizzarro raccontatore di storie assurde di nome Ed dopo “Ed Wood” (1994) e in generale, il terzo vertice del triangolo composto dagli Edward Burtoniani, questo è quello con la lingua tagliente non quello con le dita affilate.
Il personaggio interpretato da Ewan McGregor è un pesce grosso nello stagno troppo piccolo della sua città, non c’è cosa che non possa fare nel suo paesello, anche far trionfare la squadra di basket locale segnando il tiro della vittoria con una tecnica vergognosa, quella che mette in chiaro che nella scozia dove è cresciuto McGregor non ci fossero molti campi da Basket. La svolta arriva quando in città sbarca qualcuno di più grande di lui, ed è grande davvero visto che il gigante è fatto a forma di Tiny Firefly (il povero Matthew McGrory venuto a mancare nel 2005), ma meglio essere un pranzo che un vigliaccio, Bloom affronta il terribile gigante e scopre che è solo un povero diavolo fuori scala. Per questa strana coppia di “grossi” (come direbbero a Napoli) l’unica soluzione è trovarsi uno stagno più grande, anche se il terzo Edward della filmografia di Burton con il suo fare spavaldo, passa da un’avventura immaginaria all’atra, trovando comunità nel bosco dove non si usano le scarpe, oltre a tutta una serie di momenti fantastici che fanno passare in secondo piano la porzione di trama ambientata fuori dalle panzane raccontate dal vecchio Bloom.
“Big Fish” ha uno spirito come il suo protagonista, estremamente positivo, caramelloso senza essere melenso, nel suo parlare di rapporto tra padri e figli è chiaro perché Spielberg ne fosse magneticamente attratto. Con tutte queste ambientazioni diurne e il suo spirito ottimista malgrado tutto, anche la malattia del vecchio Bloom, Tim Burton rischierebbe di passare per il metallaro Goth finito alla festa di fine anno del liceo, invece proprio perché nel 2003 ha avuto il fegato di uscire dal suo stagno, il suo tocco rappresenta una marcia in più alla storia.
Tutte le parti immaginarie sono micro film, micro storie che Burton dirige alla grande, la spavalderia di Bloom è figlia del suo sapere già come morirà, aver guardo l’occhio sotto la benda della strega Helena Bonham Carter lo ha messo al sicuro dalla paura di lasciarci le penne che guida chiunque, se sai già come e quando morirai, non ti resta che vivere ed è qui che Burton puntualmente si dimostra prontissimo. Appena il regista porta la storia nei suoi territori, gli aggiunge valore, non è un caso che la lunga sequenza dell’innamoramento, quella con protagonista la giovane Sandra, futura signora Bloom interpretata da Alison Lohman sia forse la più memorabile di tutto il film, dove l’ambienta Burton? Nel posto che preferisce, un circo, raccontando in maniera gioiosa, pacchiana e in generale, in puro stile Edward Bloom tutto il processo di innamoramento.
Potremmo stare qui un’ora e mezza a descrivere ogni scena di “Big Fish” perché sono una meglio dell’altra, ma per quello esiste la sezione commenti, se il primo atto del film imposta al meglio storia e personaggi, il secondo è quello che li sviluppa e che conquista il pubblico, il terzo atto è quello che apparentemente rompe lo schema e colpisce definitivamente al cuore, staremmo qui a parlare della fuffa condita dalla nebbia se non fosse per quel lungo finale in crescendo, una tirata emotiva incredibile.
Il modo in cui la fantasia, rappresentata dalle storie del vecchio Bloom, riesce a fare capolino nella fredda realtà (Will che vede il pesce mentre pulisce la piscina ad esempio) è un gran modo per utilizzare la narrazione per immagini, quindi il cinema, per suggerire il complicato processo di riavvicinamento tra un padre e un figlio. Arriva sempre il momento nella vita di un ragazzo in cui bisogna “uccidere il padre” per uscire dalla sua ombra e diventare a propria volta un uomo, cinematograficamente parlando è il momento in cui molli il cinema di Spielberg in cerca di altro, roba diversa e nel percorso ti imbatti in registi più giovani tipo Tim Burton, prima di giungere all’unica conclusione cinematograficamente logica, ovvero che senza Spielberg non staresti qua e tornare al suo cinema, dopo aver messo (tu e lui) un po’ di strada percorsa sul contachilometri per capirlo meglio e apprezzarlo anche di più. Trovo altamente simbolico che “Big Fish” sia figlio del coinvolgimento del regista simbolo dell’infanzia, ovvero zio Steven e di quello che per me, era quello della mia prima adolescenza ovvero Tim Burton, un’ideale staffetta che si traduce alla perfezione nella lunga sequenza finale, quella cui Will Bloom finalmente capisce suo padre, realizza di somigliargli più di quando avrebbe immaginato e per una lunga parte della sua vita, anche voluto, e realizza che a volte, ci vuole una buona storia per coronare al meglio un momento chiave della vita.
“Big Fish” è un’ode ad un “cünta bàle” (anche qui, dialetto dell’Alabama), falso come il cinema, che mente costantemente perché il suo compito è anche quello di rendere la vita un po’ meno fredda e grigia, quindi che importa se il cappello compensatore di altezza di Danny DeVito alla fine era solo un cappello a cilindro enfatizzato dalla settima arte (di raccontare le storie) o se la scena del lupo mannaro qui si risolve in simpatica farsa, quando nel romanzo di Daniel Wallace era molto più cruda e quasi all’limite del horror. Burton qui nuotando fuori dal suo stagno sicuro è stato grande per l’ultima volta e per quel finale aveva bisogno solo della ciliegina sulla torta, il contributo di una banda di eroi, anche loro provenienti dalla mia adolescenza.
A voler tentare di riassumere, i Pearl Jam sono il gruppo degli scontri generazioni, dei rapporti famigliari complicati, trent’anni fa esatti cantavano non chiamarmi figlia, non si addice, in particolare il cantante Eddie Vedder ha sempre avuto un rapporto più che complicato con il padre, riassunto e raccontato nella canzone simbolo del gruppo. Se “Big Fish” aveva bisogno di ancora un po’ di emozione sui titoli di coda dopo quel finale, l’ha trovata proprio in Man of the hour, pezzo scritto dallo stesso Vedder cantando come si fa in paradiso, per altro intercettano un momento di creatività che per il gruppo non è stato uno degli ultimi alla Tim Burton (per fortuna), però quasi, quindi un perfetto allineamento di pianeti o forse più semplicemente, quando c’è l’acqua di mezzo, il gruppo di Oceans tira fuori il meglio.
Insomma per una serie di ragioni questo bellissimo film lo sento molto vicino a me e ci tenevo a fargli gli auguri, l’ultima volta che il buon vecchio Tim ha sbattuto la coda, vent’anni fa, tempi molto pazzi, quelli dove un regista che un po’ mi manca, puntava ancora all’oceano.
Sepolto in precedenza giovedì 23 novembre 2023
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