Non so come si dica “Ritorno del figliol prodigo” in olandese, ma è un po’ l’argomento chiave del film di oggi protagonista della rubrica… Sollevare un Paul Verhoeven!
Dopo quasi vent’anni di carriera passati nella terra della torta di mele, il nostro Polveròn torna a casa, un ritorno in grande stile, però, che mi ha fatto pensare a quanto accaduto anche a John Woo che dopo tanti film americani è tornato nella sua Hong Kong per produrre un costoso film incentrato su un pezzo di storia del suo Paese. Ecco, siccome a questo punto della rubrica dovreste aver intuito che il nostro Paul, non fa un passo senza sollevare un polverone, si guarda un attimo attorno e chiede: “Ragà! (tipica espressione dei Paesi Bassi), ma qual’è il film olandese più costoso di sempre?”. Solo per sentirsi dire: “Beh, sarebbe Soldato d’Orange, lo hai diretto tu”. “Ok, perfetto. Quindi, facciamo che adesso ne faccio uno ancora più costoso così ritocchiamo verso l’alto il record”, infatti con i suoi quasi 20 milioni di ex presidenti spirati stampati su carta verde Euro “Black Book” ad oggi è il film più costoso della storia del Paesi Bassi. Almeno finché Verhoeven non deciderà di alzare ancora l’asticella.
Se John Woo ha scelto un pezzo di storia dell’antica Cina, quel timidone di Verhoeven cosa fa? La tocca pianissimo come suo solito ed insieme allo sceneggiatore Gerard Soeteman, completa un soggetto originale, un’idea nata durante le ricerche effettuate per Soldato d’Orange sulla storia della resistenza olandese durante l’occupazione nazista. Una storia fatta di luci ed ombre, la controversa zona grigia in cui al nostro Paul piace sguazzare, perché il nostro non ha mai certo avuto paura di affrontare argomenti scottanti, quindi perché non il più scottante di tutti? Perché non la Shoah?
Ho visto “Black book” una sola volta in vita mia, a casa di un mio amico con la sua gatta (nera come il libretto del film) sulle ginocchia, ci è piaciuto a tutti (anche alla gatta direi), ricordo giusto che trovai piuttosto irritante il personaggio del cattolico, ma poco altro. Ho rivisto il film qualche giorno fa per questa rubrica, convinto che visto il tema e l’ambientazione avrei ritrovato un film più pesante da mandare giù, invece mi sono bevuto i 145 minuti del film con grande semplicità e riscoperto un film anche molto più bello di come lo ricordavo.
Polveròn parte subito forte, la frase che apre la pellicola, “Tratto da fatti realmente accaduti” è tecnicamente corretta a ben pensarci, ma è già il manifesto programmatico di tutto quello che Verhoeven farà fino ai titoli di coda: usare la memoria collettiva, la storia intesa come gli eventi reali, per mettere in moto la storia dei suoi personaggi, intesa come racconto fittizio e del tutto cinematografico. Ancora una volta Verhoeven ci chiede di dubitare di tutto quello che vediamo, come in Atto di forza e nel farlo non solo sottolinea l’importanza della memoria, senza la quale siamo destinati a ripetere gli stessi errori e le stesse barbarie, ma anche tenendo sul palmo di mano la cosa che sta più a cuore ad uno che si guadagna da vivere raccontando storie, ovvero il cinema.
Il film è circolare, inizia nel 1956, la protagonista Rachel Steinn (la bravissima Carice van Houten, tenetemi l’icona aperta su di lei che ripasso) vive in Israele, un incontro dal passato le ricorda i tempi della guerra e con un balzo indietro all’Olanda del 1944 inizia una lungo flashback (quindi quello che vediamo sono le memorie della protagonista?) su come Rachel nel tentativo di fuggire con la sua famiglia dalle persecuzioni naziste, attraversando il confine verso i territori liberati, viene beccata dai Crucchi che sterminano a mitragliate i ricchi Ebrei per ripulirli dei loro averi. Senza una via di fuga Rachel incappa nella resistenza olandese, per vendicare la talpa nel gruppo che ha venduto la sua famiglia ai crucchi, la donna si unisce alla compagine, cambia aspetto e nome, diventa Ellis de Vries, la donna che visse due volte, infatti per farlo, si finge morta e si fa trasportare in una bara (non volante).
Rachel entra nella bara come un’ebrea in fuga e ne esce come una Mata Hari infiltrata tra i Tedeschi con il compito di sedurre l’ufficiale Ludwig Müntze (Sebastian Koch) sfruttando le sue due grandi passioni, la seconda, quella per i francobolli, collezionati nei Paesi visitati dal Nazista, chiara metafora delle conquiste del Terzo Reich. Se per caso vi stesse chiedendo, invece, quale sia la prima grande passione dell’ufficiale, beh mettiamola così: ad un certo punta la invita a vedere la sua collezione di francobolli, vi giuro succede davvero! Poi ditemi che Verhoeven non è un furbacchione che si diverte a mettere alla berlina tutto e tutti, anche gli stereotipi.
Oh! Rachel per diventare Ellis si tinge i capelli, serve che vi dica quale colore sceglie la donna? A questo punto della rubrica dovreste saperlo, tintura alla mano, Carice van Houten è la bionda Verhoveniana in carica per questo film! Per altro, per tutto il tempo della pellicola il nome dell’attrice mi ricordava qualcosa, mi sembrava pure di averla già vista, sono uno che ricorda le facce, ma fino ai titoli di coda non ho proprio riconosciuto la Melisandre di Giocotrono! Si è conservata molto bene, ma al chirurgo dev’essere scappata un po’ la mano.
In “Black book” tutti i personaggi mentono, ad esclusione forse del viscidissimo Franken (Waldemar Kobus) brutto, grasso e sfregiato, quindi Lombrosiano fin dall’aspetto, nessun personaggio è davvero buono, ognuno mente per salvarsi la pelle, per tornaconto, oppure per semplice interesse, Verhoeven ancora una volta non moralizza e non esprime giudizi, ma fa di tutto per portare a galla l’ipocrisia presente in tutti gli schieramenti. Rachel fa la gatta morta con il nazista Ludwig, ma poi s’innamora sul serio di lui, dimostrando di non poter scindere completamente la spia e la donna che devono convivere in lei.
Allo stesso modo, il personaggio di Ludwig non è il classico Nazista che il canone cinematografico impone, è un personaggio che dubita degli ordini diretti, che sa che i Russi sono prossimi ad entrare a Berlino e che ha capito che il “Sogno” di splendore di Adolf Hitler è naufragato nel modo più drammatico possibile, costringendo la nazione a macchiarsi del più infame dei gesti che la storia dell’umanità ricordi.
Anche tra le fila della resistenza non tutti brillano per essere proprio degli stinchi di santo: ci sono i combattenti che agiscono nel giusto come Akkermans (Thom Hoffman), ma anche qualcuno che ragionando per stereotipi raziali, non vuole un’ebrea tra le loro fila, temendo che possa vendersi al nemico per soldi. Su tutti spicca la figura del cattolico che ricordavo, seguendo la sua fissazione per la religione, Verhoeven lo caratterista come un viscido cagaminchia, uno che si rifiuta di sparare ad un Nazista per salvare Rachel, ma non ci pensa due volte a cacciare fuori una cattiveria mai finita quando il Crucco nomina l’Onnipotente invano e, quindi, si merita di essere freddato senza pietà (“Hai bestemmiato sei un blasfemo!”).
Uno dei personaggi chiave dell’intrigo pronuncia una frase importante per decriptare il libro nero di Verhoeven, «Fidarsi ciecamente di qualcuno? Non di questi tempi», il regista ci fa dubitare di tutti i personaggi e proprio per questo il film solleva l’ennesimo polverone, si becca accuse di revisionismo storico e di essere filo-fascista tanto (tanto per cambiare direi) ed è chiaro perché ai ben pensanti alla sua uscita non sia piaciuto. Verhoeven come al suo solito non prende prigionieri dimostrando come la guerra renda tutti dei Nazisti.
Se Soldato d’Orange ci mostrava come gli Olandesi salutavano i Nazisti come coloro che avrebbero liberato il Paese dalla minaccia del Comunismo, “Black book” continua il discorso e lo fa, come al solito, esponendo i fatti senza moralizzare, nel tipico stile di Verhoeven, insomma. Rachel lo dice chiaramente «Chi l’avrebbe mai detto, dover temere la liberazione», infatti qui Polveròn ci mostra le parate per la liberazione, ma anche come gli Olandesi tagliavano i capelli in piazza alle donne che hanno dormito con i Nazi per punirle del loro collaborazionismo.
La scena madre è quella in cui Rachel catturata dai nazionalisti olandesi subisce le peggiori angherie, tra cui finire ricoperta da una scarica di liquami di tutte le tonalità possibile del marrone (eh, ma che schifo!) in una scena in cui è chiaro che non fa niente per regalare un’immagine edulcorata dell’Olanda che solo il suo regista più rappresentativo e controverso aveva la statura artistica di mostrare. Polveròn sarà pure tornato all’ovile, ma non con le pive nel sacco e senza cambiare il suo approccio che, a dirla tutta, è anche quello che trovo più sincero.
Ah, per altro, per farsi perdonare del fatto di aver voluto rigirare la scena che chiameremo “Spalman” quattro volte di fila fino a trovare quella giusta (storia vera), Verhoeven ha concesso a Carice van Houten di vendicarsi, lanciandogli contro la cacca finta, realizzata mescolando patate spappolate, avanzi di torta, burro di arachidi e coloranti vari, insomma una bella schifezza, ma meno peggio di quello che sembra guardando la scena, dai!
Da grande pirata dei generi cinematografici Verhoeven fa un lavoro ancora più estremo, se con una mano porta in scena una delle pagine più controverse del suo Paese, con l’altra affronta di petto l’Olocausto un argomento che al cinema viene spesso affrontato dando ai film un passo solenne e un tono funereo, “Schindler’s list” (1993) di Spielberg o “Il pianista” (2002) di Polański, sono film bellissimi che, però, non somigliano per niente a questo “Black book”, nel ritmo e tono generale sicuramente, no.
La posizione del suo Paese rispetto alla tragedia dell’Olocausto è un tema chiave che Verhoeven sfrutta come un colpo di rimbalzo per mettere in moto gli eventi, quasi tutte le scene di “Black book” iniziano come una ricostruzione storica, per terminare con una scena ben girata che qualche volta è d’azione, mentre, in altri casi ricalca il noir con tanto di seduttrice femme fatale.
Verhoeven dirige avendo sempre chiaro in testa il suo amato cinema, per questo “Black book” è un film che fila via, i continui cambi di fronte, i personaggi chiave che muoiono in maniera anticlimatica spiazzando il pubblico lo fanno sembrare quasi un film se non proprio di Alfred Hitchcock, almeno di Brian De Palma, un puzzle che costringe il pubblico a dubitare delle immagini e dei personaggi costantemente fino alla fine.
Il finale è nuovamente ambientato in Israele e ci fa capire che l’inganno è quello che mette in moto la trama, la storia dell’uomo è destinata a ripetersi per chi non la ricorda, infatti l’epilogo finale che vede Rachel in Israele, a questo punto, ci lascia con dubbi e domande: la donna che vediamo è la vera Rachel, oppure un altro suo travestimento? Ma ancora di più: i soldati Israeliani che entrano in azione sono l’ultimo fotogramma che vediamo prima dei titoli di coda. Insieme a Rachel siamo di nuovo in un territorio occupato, un altro fronte caldo in cui la divisione tra buoni e cattivi non è netta come le parti in gioco vorrebbero farci credere, prima era l’Olocausto, ora la Palestina, Verhoeven non ha certo paura di provocare usando l’arte per far riflettere il suo pubblico, avercene di registi così!
Tutto questo lo fa senza perdere il suo stile, lo scontro tra l’Ebrea e il Nazista non può che avvenire a letto che, poi, è il luogo dove si sta nudi e quindi senza segreti (e pure senza mutande già che ci siamo), infatti il grande provocatore Polveròn, prima dà qualcosa di cui sparlare al pubblico del festival del cinema di Venezia, dove il film è stato presentato in anteprima nel 2006, con un bel primo piano dettagliato sulla perfezionista Rachel, impegnata, come faccio a spiegarlo… Diciamo ad assicurarsi che la moquette sia dello stesso colore delle tendine, ecco, diciamo così.
Un dettaglio che, però, non serve a portare avanti la sua messa in scena, infatti Ludwig scopre subito che la sua amante è Ebrea che, poi, pensateci: già mettere nello stesso letto un’ Ebrea e un Nazista è un atto provocatorio, una relazione pericolosa che Verhoeven sottolinea con la scena dell’erezione da sotto le coperte che, in realtà, è sì la di lui canna, ma della pistola.
La provocazione finale di Verhoeven la scandisce Rachel che con le mani del compagno (o camerata?) sulle bocce gli chiede se quelle gli sembrano ebree? Sono sicuro che Verhoeven avrebbe un piano molto chiaro per portare la pace nel mondo!
Con il suo ottimo ritmo e i tanti colpi di scena, “Black book” è un po’ un noir e un po’ film d’azione, dove la storia dell’Olande occupata e dell’Olocausto è l’espediente per fare dell’ottimo cinema, a ben pensarci, è un’operazione molto simile a quella messa su da Robert Zemeckis nel recente Allied un altro film che ti fa dubitare dei personaggi e sfrutta la Seconda Guerra Mondiale per omaggiare zio Hitch.
Capisco perché “Black book” abbia irritato gli animi, oltre a presentare i personaggi senza buonismi di sorta è chiaro che per Verhoeven anche la storia del suo Paese è da utilizzare per raccontare la storia dei suoi personaggi, la finzione è costante e destinata a ripetersi e più che mancare di rispetto alla Storia quella con la “S” maiuscola, Verhoeven omaggia il cinema alla grande.
A volerla mettere giù dura, il trionfo del cinema sui fatti e una bella ragazza ebrea in cerca di vendetta per la sua famiglia contro i Nazisti, sembra qualcosa che un altro innamorato di cinema come Tarantino avrebbe fatto tre anni dopo questo film in “Bastardi senza gloria” (2009), ancora una volta mi aspettavo un film classico e, invece, mi sono ritrovato un film che ha anticipato un pezzo di cinema del futuro, Verhoeven sei diabolico!
Tra sette giorni, ultima pagina del giallo, ultimo fotogramma della pellicola, ultimo polverone da sollevare per questa rubrica, non mancate, ultimo sforzo!
Sepolto in precedenza venerdì 15 dicembre 2017
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