Ci sono trame che sembrano fatte dal sarto, o in questo caso da James Ellroy, pensate apposta per certi registi, anche se non è tutto oro quello che luccica, come ad Hollywood, parliamo di questo nel nuovo capitolo della rubrica… Life of Brian!
Una rottura prolungata quella tra Brian De Palma, uno dei magnifici della “New Hollywood” e la mecca del cinema americano, Femme fatale girato in Francia incassa poco, ma questo non ferma il regista del New Jersey, al massimo lo costringe ad una pausa un po’ più lunga rispetto alle sue abitudini, prima di gettarsi su un nuovo progetto, una tendenza che, purtroppo, diventerà una costante per un regista ormai dato per scontato, se non per sorpassato, nel mondo del cinema che pare sempre meno interessato al punto di vista degli autori.
“Black Dahlia” poteva essere un ritorno in grande stile, sulla carta perfetto per De Palma, perché basato su uno dei romanzi più amati dello scrittore James Ellroy ovvero “Dalia Nera” (1987), una sorta di neo noir assorto in breve tempo a classico contemporaneo, anche per la sua capacità di mescolare finzione e realtà, in cui la seconda è rappresentata da uno dei fatti di cronaca nera più efferati e misteriosi della storia americana, l’omicidio della Dalia Nera.
Elizabeth Ann Short era una giovanotta di bell’aspetto, come tante ragazze, sbarcate ad Hollywood in cerca di gloria nel mondo nel cinema finita, invece, prima nei film sì, ma non proprio quelli con cui ti premiano con un Oscar e poi brutalmente assassinata. Il 15 gennaio del 1947 il suo corpo venne ritrovato a Leimert Park, un quartiere meridionale di Los Angeles, inutile scendere in dettagli sulla storia di orrori raccontati dal corpo, un calvario per la “Dalia Nera” che attraverso le foto pubblicate sui giornali del suo cadavere, non solo ha sconvolto una nazione, ma si è radicato nell’immaginario collettivo americano. Basta dire che l’atto più gentile riservato alla poveretta è stato il famigerato “Glasgow smile”, il taglio ai lati della bocca come un grottesco sorriso, ritrovato sul suo volto che ancora oggi ha echi nella cultura popolare americana.
James Ellroy nel suo romanzo mescola “fiction” e fatti reali, cresciuto poco distante dal luogo del ritrovamento di Elizabeth Short, firmò un romanzo che, in maniera del tutto Chandleriana, si propaga in molte direzioni, raccontando di un’infinità di personaggi destinati in qualche modo tutti a ricoprire un ruolo all’interno di questo mistero che ha sconvolto gli Stati Uniti, per un finale che si sfilaccia e si riprende, una trama bella densa raccontata con uno stile di scrittura estremamente cinematografico. Ci sono interi passaggi di “Dalia Nera” che sembrano pensati per essere già scene pronte per il grande schermo, sulla carta un regalo per un regista, ma di fatto una notevole gatta da pelare, a chi la rifiliamo? Qualcuno ha il numero di telefono di Brian De Palma?
Già, perché il primo ad essere interessato al soggetto era David Fincher, chiaro come il sole, una trama così è materia per il suo cinema, il regista di Fight Club deve aver fiutato la rogna e, non a caso, l’anno dopo è uscito con un altro film legato ad omicidi che hanno sconvolto l’America, ovvero “Zodiac” (2007). Il matrimonio tra De Palma e James Ellroy sembra nato in paradiso, infatti la Millennium Films (con la Universal alle spalle a distribuire) ci mette dei bei soldini su questo progetto, oltre che un cast di punta, pensato per stuzzicare i palati, insomma aggiunge aspettative oltre a quelle già generate dal nome del regista e dell’autore del romanzo originale, infatti il film diventa quello di inaugurazione della 63esima edizione del festival di Venezia, perché… Oh! Vuoi mettere avere sul tappeto rosso del lido la coppia di giovani divi del momento? La lanciatissima Scarlett Johansson, in quel periodo della sua carriera dove certezze sul suo talento limitate, ma sulla sua avvenenza nemmeno mezza, sotto braccio all’allora fidanzato, quella sorta di sedano rapa che risponde al nome di Josh Hartnett, in quel periodo stava in tutti i film e nulla mi toglie dalla testa che in questo ci sia finito per la storia con Rossella Di Giovanni.
Completavano il lotto Aaron Eckhart e Hilary Swank, anche loro caldi come Hibachi senza bisogno nemmeno di fare coppia, un quantitativo di dinamite ammassata tutta insieme pronta a generare un’esplosione di delusione. Troppe aspettative? Troppi appassionati di James Ellroy pronti a rifugiarsi dietro al più classico “il libro è meglio”? Tanta fretta a dare per spacciato De Palma? Forse tutto questo, sta di fatto che la prima veneziana ha fatto più male che bene al film.
Anche perché, ispettore De Palma il caso “The Black Dahlia” è tuo sì, ma consapevoli che si tratta di una gran rogna, per pagare i diritti del libro, De Palma e i nomi in cartellone, la Millennium Films da qualche parte deve tirare, infatti questo titolo rientra a tutti gli effetti in quelli girati dal nostro Brian lontano da Hollywood, visto che ha dovuto ricostruire la Los Angeles dell’anno 1947 girando tra la Germania e la Bulgaria come se fosse l’ultimo dei film di Steven Seagal ed io sfido chiunque ad accorgersene, perché uno degli enormi pregi di “Black Dahlia” (da noi uscito senza l’articolo, è più pulito cit.) sembra tutto tranne che un film girato in Bulgaria, i costumi sono ottimi, le scenografie di Dante Ferretti una sicurezza e al resto ci pensa la fotografia del fidato Vilmos Zsigmond e la regia di De Palma a far passare per un colossal un titolo costato tra i quaranta e i cinquanta milioni di fogli verdi con sopra facce di Dalie Nere ex presidenti defunti, molti dei quali spesi per ammonticchiare la dinamite.
Un altro che ha fatto nell’ombra un grosso lavoro (due anni a battere sui tasti, storia vera) è stato lo sceneggiatore Josh Friedman, diventato poi uno dei prediletti di Cameron, qui ha saputo tirare le fila di un romanzo vastissimo, riportando al centro della storia la rivalità tra i due poliziotti Dwight ‘Bucky’ Bleichert (Josh Hartnett) e Leland Blanchard (Aaron Eckhart) detti “fuoco” e “ghiaccio” per i caratteri opposti e i trascorsi da pugili che nel libro finivano ad essere uno dei tanti elementi di una trama molto stratificata, da cui Friedman con una certa dose di fegato sforbicia alcune delle scene più cinematografiche, riportando l’indagine in primo piano, un lavoraccio che arriva nella mani di De Palma, con il dente leggermente avvelenato nei confronti di Hollywood, insomma le condizioni ideali per girare un film che anche di questo parla: del torbido che sta dietro ai lustrini della città del cinema.
I 121 minuti di “Black Dahlia” sono belli densi da masticare, tra voci narranti e piccole sortite nella vita dei personaggi (ad esempio tutto il rapporto tra Leland e suo padre) riempiono una storia già stratificata di suo, il giudizio raccolto, specialmente da molte penne stipendiate è quello di un film dove De Palma tenta con i virtuosismi di dare interesse ad una trama che è stata frettolosamente archiviata come “il libro è meglio”, Ellroy migliore di De Palma e via, passiamo al prossimo titolo.
Errore, perché sono il primo a sostenere che “Black Dahlia” non sia proprio il film più ritmato di De Palma, paga il suo essere allo stesso tempo un omaggio al genere Noir e una trama piena di nomi e personaggi da gestire, anche perché parliamo di un lavoro che prevede non solo di dover portare avanti un’indagine (per altro rimasta irrisolta nella realtà), ma ha il compito di ricostruire la Los Angeles del 1947 (in Bulgaria) rendendo omaggio al genere come un grande studente di cinema come De Palma può fare, ovvero selezionando le dissolvenze retrò, coerenti con quelle dei classici noir, fino ai minimi dettagli, come ad esempio quel “The End” alla fine, che sa tanto di film arrivato da un’altra epoca.
Il problema principale di “Black Dahlia” per me resta la selezione degli attori, in qualche caso talmente perfetti da risultare sbagliati, del quartetto di nomi, quella che ne esce meglio risulta essere Hilary Swank nei panni della, non a caso, “femme fatale” (wink-wink) mora di nome Madeleine Linscott (doppio wink-wink), anche se arrivando da altri ruoli, questa parte per l’attrice ha spiazzato qualche penna stipendiata. Aaron Eckhart ha il fisico per il pugile dilettante e la mascella per il detective, Josh Hartnett se questo fosse un noir in bianco e nero (possibilmente anche muto) sarebbe impeccabile, così come Scarlett Johansson nei panni della femmina fatale bionda, peccato che beccami gallina se ci sia uno straccio di chimica tra tutti, in particolare tra quelli che, incidentalmente, sarebbero anche impegnati in una torbida storia a tre che, invece, ci restituisce tre amanti abbastanza ingessati.
Di scuola Hitchcock, anche Brian De Palma considera gli attori mezzi per arrivare ad un fine, non proprio bestiame come li aveva etichettati Zio Hitch ai tempi (anche se Hartnett un po’ asinino lo è), però per assurdo se De Palma avesse avuto la Rossella Di Giovanni di oggi, piuttosto che quella del 2006, il film ne avrebbe tratto vantaggio, perché se i tuoi tre personaggi traino non brillano, per il pubblico diventa difficile appassionarsi da una trama che mette già parecchia carne al fuoco, chiedendoti di stare attento per non perderti tutti i nomi.
Quindi, qual è la parte migliore di “The Black Dahlia”? Proprio il lavoro di De Palma che non si limita, come scrissero ai tempi molte penne stipendiate, a mettere qualche virtuosismo qua e là per tenere alto l’interesse, certo, ci sono momenti di cinema piuttosto vistoso (la sparatoria iniziale con abbondante uso della fidata doppia messa a fuoco), ma per assurdo il film funziona meglio quando De Palma sceglie di non mostrare, piuttosto di suggerire.
Ho sempre trovato brillante l’idea di non mostrare mai per intero lo scempio fatto sul corpo di Elizabeth Short, quando il telo viene tolto dal tavolo dell’obitorio dove giace, De Palma sfuma sul volto dei due detective, una scelta saggia di non fare altra pornografia di immagini che ai tempi fecero bella mostra su tutti i giornali americani. La scelta di De Palma è quella di raccontarci, pensate un po’, una donna che visse due volte con la differenza che qui la protagonista è morta per davvero, quindi l’ossessione che il personaggio di Josh Hartnett sviluppa per lei, guardando e riguardando i filmati dei suoi provini, è la stessa che Jimmy Stewart sviluppava per Kim Novak, in cui è ancora una volta l’atto di guardare, quello che mette in moto l’ossessione dei protagonisti maschili Depalmiani, destinati ad essere creta malleabile nella mani dei personaggi femminili, insomma puro De Palma, in una trama che sceglie di non seguire le direttive (già abbondantemente cinematografiche) tracciate da James Ellroy, ma porta avanti il suo discorso, a mio avviso anche piuttosto bene per chi è disposto ad andare oltre il semplice “Il libro è meglio”, per quello, se volete, esiste già il più approcciabile “L.A. Confidential” (1997), dove, con tutto il grande rispetto che si deve al regista Curtis Hanson, ha decisamente eseguito le direttive di Ellroy, meno di quanto abbia fatto De Palma, quindi anche per questo trovo che abbia ben poco senso associare e paragonare questi due film.
Non a caso, De Palma sceglie di raccontarci della Dalia Nera da viva, infatti la prova di recitazione migliore che emerga da questo film, arriva dal nome meno famoso presente nel cast, quello di Mia Kirshner, i cui provini in costume sono finiti nel montaggio finale del film, perché De Palma ne ha amato la spontaneità che l’attrice ha saputo mettere nel suo personaggio, tanto che il regista li ha girati così, in una stanza, con una macchina da presa manovrata da lui, che (ovviamente in lingua originale) è anche la voce dell’intervistatore che fa le domande ad Elizabeth Short (storia vera), in una scena che ricorda molto da vicino proprio gli esordi di De Palma e l’analoga intervista su pellicola alla protagonista vista in Murder à la Mod.
Brian da Newark al massimo si rifà ai noir classici (ogni tanto qualcuno avanza un paragone con “Chinatown” di Polański, ben più a fuoco), perché oltre al solito Hitch, da studente della settima arte, il regista del New Jersey sceglie di mettersi in scia a titoli come “L’uomo che ride” (1928) di Paul Leni, ampiamente e intelligentemente citato.
Anche se i momenti migliori del film, sono quelli dove De Palma esagera, ad esempio la presentazione della famiglia Linscott ai tempi dell’uscita del film venne parecchio criticata, eppure non solo fornisce un indizio chiave per la risoluzione del mistero, ma anche una sorta di famiglia Addams in cui Fiona Shaw, andando sei metri sopra le righe, contribuisce a far arrivare forte e chiaro il messaggio di De Palma, anzi, di un De Palma che non ha nessuna intenzione di mandarle a dire.
Il momento chiave prevede, tanto per cambiare, una scalinata, una lunga sequenza barocca nella messa in scena ed estremamente coinvolgente, in cui De Palma semina indizi e false piste, grazie anche al contributo di uno dei suoi pretoriani, per un personaggio grottesco come George Tilden, ci voleva lo sguardo folle di William Finley, primo grande attore feticcio di De Palma, che rientra a gamba tesa nella filmografia del regista e in questa rubrica a lui dedicata.
Quello che non si nota subito e che, forse, i giornalisti presenti al festival del cinema di Venezia, abbagliati dal tappeto rosso non hanno voluto notare è un tema che è Depalmiano al 100%, la realtà e la finzione si mescolano e si sovrappongono, sono più pornografici i filmini a cui ha preso parte la Dalia Nera oppure il modo in cui il suo corpo mutilato è stato sbattuto in prima pagina? In una sola inquadratura De Palma non le manda a dire, il corpo di Elizabeth Short è stato ritrovato in un terreno paludoso, ridotto a quello di una bambola rotta con un eterno sorriso sul volto, ma di fatto è solo il sottoprodotto di un’industria che ti spreme e ti getta via. Al nostro Brian da Newark basta un’inquadratura, una sola, per raccontare tutto questo, quella in cui il suo detective dopo aver risolto il mistero e scoperto quanto di torbido era stato nascosto sotto il tappeto della città del cinema, si allontana da luogo dove la Dalia Nera è stata uccisa, mostrandoci in lontananza le colline di quella “Hollywoodland” che altro non è che la Hollywood di domani e, per certi versi, quella di oggi. Se mai nella mia vita di appassionato di cinema, ho visto un regista incazzato piantare il dito medio davanti al muso di Hollywood, quello era il De Palma di “Black Dahlia”.
Sicuramente non è il lavoro più riuscito del nostro Brian da Newark, allo stesso tempo non è il filmetto leggero che ti metti su quando vuoi vedere un bel thriller che ti salva la serata, però un minimo di rivalutazione questo titolo se la meriterebbe, come ai tempi si sarebbe meritato un attore meno imbalsamato di Josh Hartnett.
In maniera curiosa, ma coerente, “Black Dahlia” si chiude su una fotografia in grado di mettere in moto i ricordi dei protagonisti che è anche il modo in cui comincia il prossimo film del regista, ma per quello, vi tocca aspettare una settimana, tra sette giorni qui, con il prossimo capitolo della rubrica, si va in guerra. Letteralmente.
Sepolto in precedenza venerdì 3 marzo 2023
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