Ho una lunga lista di registi a cui vorrei dedicare una monografia qui sulla Bara, nel momento di scegliere ho ridotto a tre i nomi dei papabili, e no, gli altri due rimasti fuori non ve li dirò perché tanto prima o poi sarà anche il loro momento. A vincere conquistandosi tutti i prossimi venerdì fino a Natale (e poi da gennaio) qui alla Bara è stato “il regista a due teste”, quelli con più compleanni nell’anno in corso, anche se non riuscirò a coprirli tutti e tre nell’anno solare, l’importante è iniziare, quindi rendiamo onore alla storie vere così vere da essere puro cinema dei fratelli Coen e benvenuti al primo capitolo della rubrica… Coen, una storia vera!
La mia passione per il cinema dei fratelli Coen è di pubblico dominio, quello che mi piace dei loro film è beh, essenzialmente tutto, ma non credo si possa iniziare a parlare dei due fratelli del Minnesota senza citare subito, pronti via, proprio questo loro legame, è già incredibile che due fratelli riescano a spartirsi in modo così democratico un lavoro, perr di più come quello del regista che prevede una gerarchia piuttosto rigida, il fatto che abbiano formato il loro stile anche grazie ad un terzo fratello, vi dice dell’unicità del loro rapporto. Il terzo fratello Coen, quello acquisito arrivato dal Michigan… Sam Raimi.
Figli di Edward e Rena Coen, entrambi ebrei, entrambi docenti universitari, dopo la laurea Joel (cinematografia alla New York University) e Ethan (Filosofia a Princeton) si sono trasferiti a New York e di lì a poco avrebbero messo su una sorta di comune hippie frequentata da nomi del settori, passavano a trovarli aspiranti attrici come Kathy Bates, Holly Hunter, Frances McDormand futura moglie di Joel e appunto Sam Raimi, l’uomo responsabile del primo lavoro vero, Joel infatti è stato assistente al montaggio in quella cosetta intitolata La casa, potreste averne sentito parlare.
Ma al momento di fare il grande passo i fratelli Coen scrivono, dirigono e producono un esordio tra i più fulminanti di sempre, a quarant’anni dalla sua uscita “Blood Simple” resta uno di quei casi lampanti di poetica e tematiche già quasi totalmente definite, un modello d’ispirazione anche per chi è arrivato dopo di loro, per sua stessa ammissione Tarantino ha dichiarato che la sua prima sceneggiatura, Una vita al massimo la scrisse per poterla poi realizzare alla moda dei Coen e del loro “Blood Simple” (storia vera), anche se il Nord magnetico per i due fratelli del Minnesota è sempre stato uno, il Noir.
«L’idea del nostro primo film va ricercata nell’amore che nutrivamo da molto tempo per quei tipi di storie alla James Cain, Dashiell Hammett e Raymond Chandler. Non solo era un genere che ci entusiasmava, ma lo abbiamo scelto anche per ragioni molto pratiche: sapevamo che avremmo avuto a disposizione pochi soldi e così dovevamo appoggiarsi su questo genere, su questa forza di cui conoscevamo le radici», le parole di Ethan Coen non avrebbero potuto essere più chiare di così, anche se bisogna ragionare sull’abilità del “regista a due teste” di macchiare il genere di rosso, ci sono elementi sottilmente orrorifici, sembra che il sangue (facile) in questo film non si asciughi mai, continuando a defluire e a questo, aggiungete l’abilità di decostruire che sarebbe diventata marchio di fabbrica e che spesso, ha fatto guadagnare ai fratelli del Minnesota l’etichetta (facile) di registi postmoderni, aggettivo a mio avviso corretto sì, ma fino ad un certo punto e spesso limitante per riassumerli. Due parole sulla trama poi andiamo nel dettaglio, anche se la trama di “Blood Simple” è beh, sostanzialmente il Noir.
Julian Marty (Dan Hedaya) sospetta, a ragione, che sia moglie Abby (ovviamente Frances McDormand al primo ruolo con i Coen, iniziate a contare) la tradisca con Ray (John Getz), per avere una prova assume il loschissimo investigatore privato Loren Visser (M. Emmet Walsh) che fotografa i due a letto insieme dalla finestra del motel dove hanno passato la notte. Un noir che inizia con delle foto di un tradimento? Ne avete mai sentito parlare? Non accade mai!
Pagato per far fuori la coppia, Visser ritocca le foto e le presenta a Marty come prova del lavoro fatto, poi ammazza anche lui per rubargli il malloppo ma fa un errore grave, lascia troppe tracce, utili ad Abby e Ray che però nell’immediato, dovranno portare a casa la pelle.
A grandi linee la trama è tutta qui, allo stesso tempo 100% Noir e decostruzione del genere, e cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Sono quelli che ne determinano tutto l’andamento, “Blood Simple” inizia con una pioggia battente sull’auto dei due amanti, le panoramiche ci dicono esplicitamente che questo Noir non è ambientato in città, ma nell’aperta periferia americana da cui provengono anche i Coen, togli la pioggia e metti la neve e potrebbe essere il Minnesota, ma per il loro Noir pieno di neve in linea di massima, i due fratelli avrebbero avuto tempo, non bruciamo le tappe della rubrica, anzi seguiamo il flusso delle parole, quelle che sentite nella testa mentre mi state leggendo, perché la voce narrante iniziale di “Blood Simple”, diventerà una delle tanti costanti utilizzare dai Coen per la prima volta qui e diventata un classico del loro inimitabile stile, anche se in tanti hanno provato ad imitarlo.
Se il primo impatto davanti a “Blood Simple” è quello di percepire la suspence, i temi e le situazioni pensando, ok è un Noir, allo stesso tempo i Coen mettono in chiaro il loro lavoro di decostruzione, l’ambientazione non prevede nessuna metropoli, l’investigatore non è un anti-eroe ma più che altro un personaggio totalmente sgradevole e a ben guardare potrebbe sembrare una trama che ruota attorno ad una dark lady, ma Abby il personaggio di Frances McDormand più che una Femme Fatale è una moglie insoddisfatta e senza poi grandi colpe, se non aver spostato un idiota geloso.
A differenza di qualunque altro Noir la storia – di solito grazie all’espediente della voce narrante – non ci spiattella tutti i pensieri e gli stati emotivi dei personaggi, ci pensa la regia a raccontare per immagini le motivazioni che muovono i personaggi e anche se il film è stato assegnato d’ufficio al solo Joel alla voce regista, i due fratelli del Minnesota ci hanno messo un bel pezzo a far capire all’associazione dei registi di Hollywood la loro tecnica, quella che sul set chi è stato diretto da loro già sapeva.
Un regista di norma deve rispondere a domande di ogni tipo, da ogni lato, chi ha lavorato con i Coen sa bene che il tuo dubbio sulla sceneggiatura o su come interpretare una scena potrai sottoporlo indistintamente a Joel oppure ad Ethan, tanto anche in due punti diversi del set e senza bisogno di confrontarsi, ti daranno la stessa risposta, tale è il loro livello di conoscenza della storia e simbiosi tra di loro (storia vera).
Insieme hanno sicuramente deciso di rappresentare Visser come un viscido bastardo, sudaticcio, fastidioso e decisamente odioso, per di più con un cappello da Cowboy in testa, un dettaglio che qui sembra costume – letteralmente – anche di scena, in linea con l’ambientazione ma che in realtà diventerà chiarissimo con il tempo, è un rimando all’altra grande chiave di lettura del cinema dei Coen, non a caso ad Ovest del Noir, ma anche qui, non bruciamo le tappe e passiamo alla parte per me più interessante di “Blood Simple”.
Se Frances McDormand in un film dei Coen è un dettaglio che oggi, quarant’anni dopo l’uscita di “Blood Simple” può sembrare normale, l’altro nome noto associato ai fratellini del Minnesota e fondamentale è quello di Barry Sonnenfeld, l’uomo a cui vorrò eternamente bene per la sua filmografia, che prima di fare a sua volta il grande salto come regista è stato direttore della fotografia di livello, specialmente per i Coen, sostenendoli con lenti e utilizzo sapiente della luce ad emergere in quello che è la decostruzione del genere più efficace del film.
In un Noir, fin dal nome del genere, il buio è un elemento chiave è di norma, abbiamo un’indagine che porterà luce, qui funziona esattamente al contrario, la luce è fonte di pericolo per i protagonisti, il buio li protegge, letteralmente visto che lo scontro finale – anche questo in odore di horror, Frances McDormand sembra la “Final girl” di turno – avviene nel buio totale, i colpi d’arma che aprono buchi nella parete da cui trapela la luce, sono la minaccia, una rielaborazione anche visiva che si traduce in una scena finale notevole.
“Blood Simple” a distanza di quarant’anni dalla sua uscita sarà forse un po’ invecchiato a livello di innovazioni, visto che nel corso del tempo abbiamo assistito a parecchio postmodernismo cinematografico, ma sicuramente non nelle tematiche o nel puro talento dei fratelli del Minnesota, il lascito del film? Sottile, nel 2009 il regista Zhang Yimou ne ha realizzato un remake dal tono decisamente più comico intitolato “Simple Noodle Story” o anche solo “Sangue facile”, almeno stando alla nostra distribuzione.
In ogni caso ci sono tre compleanni targati 2024 firmati dai Coen, se faccio il bravo due riusciremo a festeggiarli nell’anno in corso, per gli altri avremo tempo, questa rubrica è appena cominciata, venerdì prossimo tutti qui perché si replica, non mancate.
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