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Blow-Up (1966): vero come la finzione

«Io non so come è la realtà. Ci sfugge, mente di continuo. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là, e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa. Il fotografo di Blow-Up non è un filosofo, vuole andare a vedere più da vicino. Ma gli succede che, ingrandendolo, l’oggetto stesso si scompone e sparisce. Quindi c’è un momento in cui si afferra la realtà, ma nel momento dopo sfugge. Questo è un po’ il senso di Blow-Up.» Michelangelo Antonioni
Visto che ormai sono in ballo, balliamo. Certo, i film
sullo sguardo, incentrati sull’atto di osservare sono tanti, a voler
semplificare i titoli chiave sono tre, ne ho già presentati un paio, quindi oggi
terminiamo l’opera dedicata a questa “trilogia dello sguardo”.

L’idea per il film venne ad Antonioni leggendo il
racconto breve di Julio Cortázar intitolato “Le bave del diavolo”, una
liberissima interpretazione visto che al regista la vicenda non interessava
minimamente, ad attirare il suo sguardo (ah-ah) più che altro era il meccanismo e
l’utilizzo delle fotografie nel racconto, che è il punto di partenza per
“Blow-Up”, reso graficamente anche come “Blow Up”, titolo che non convinceva
molto Antonioni, fino alla definitiva benedizione del Maestro Ennio Morricone,
che interrogato in merito sostenne che non solo era un titolo d’impatto, ma già
pronto per i mercati in lingua Inglese (storia vera), anche se nel suo togliere punti di riferimento al pubblico, Antonioni spesso rinuncia anche ai dialoghi volutamente.

Non capisco se stanno girando una scena o se hanno bisogno di un testimone per il CID.

Scritto a sei mani insieme al fidato Tonino Guerra e ad
Edward Bond (per i dialoghi inglesi), il film è un continuo gioco di specchi,
se l’intento di Antonioni era quello di farci dubitare di tutto quello che
vediamo, con “Blow-Up” ci riesce benissimo, oltre a raccontare uno spaccato
della Londra degli anni ’60, in pieno periodo Beatlesiano.

Cosa dico sempre dei primi cinque minuti di un film?
Bravi, ne determinano tutto l’andamento, “Blow-Up” inizia con un branco di
giovanotti e giovanotte dalla faccia truccata stile mimi, a far baldoria e
macello per le strade della città. Siccome Greta Thunberg e i “Fridays for
Future” non erano ancora stati inventati, va ricordato che “Blow-Up” nel 1967 è
stato l’ultimo film a essere premiato a Cannes prima dell’arrivo della
contestazione sessantottina, prima che il celebre festival venisse interrotto
per un po’ (storia vera). Antonioni quindi non solo intercetta il vento del
cambiamento, ma rende i giovani una vera forza trainante della sua storia, ma
in questo gioco di specchi, non sono loro i protagonisti, bensì Thomas (David
Hemmings), che vediamo entrare in scena uscendo da un ostello per i poveri,
anche se lui povero proprio non è.

“Un rullino, i più giovani non hanno idea di che cosa sia”

Con la sua spider decappottabile, Thomas è un fotografo,
perfetto rappresentante della Milano da bere Londra un po’ fighetta, ha
passato la notte tra i disperati della città solo perché è al lavoro sul suo
libro fotografico, tante belle pagine piene di tutto il degrado che la Londra
degli anni ’60 è in grado di offrire, a cui però Thomas sente che manca ancora
qualcosa, delle fotografie conclusive di tono diametralmente opposto per
concludere il volume.

Mentre cerca l’ispirazione il nostro, diciamo che non si
annoia, i 111 minuti di “Blow-Up” procedono in una sorta di “Aspettando Fotò
Godot”, in cui non sembra succedere nulla ad una prima occhiata, ma in realtà
succede di tutto, solo che quello che accade è spesso una finta di corpo fatta
da Antonioni per farci abboccare al suo gioco, la regola con “Blow-Up” è che
non ci sono regole, vale tutto.

Metti una tigre un’elica nel motore!

Ad esempio sembra fondamentale l’interesse di Thomas per
l’arte e l’antiquariato, lo vediamo insistere per compare l’elica di un aereo,
per poi abbandonarla come un oggetto senza importanza in un angolo del suo
appartamento da scapolo. Proprio il superfluo sale in cattedra per far
procedere questa storia, infatti gironzolando in un parco, armato della sua
fedele macchina da presa, Thomas pizzica Jane con il suo amante, la donna vuole
il rullino per evitare lo scandalo, ma siccome sopra ci sono altre importanti
foto scattate dal fotografo, il nostro – arrogante come pochi protagonisti
cinematografici – non molla, il fatto che la donna sia fatta a forma di Vanessa
Redgrave, diciamo contribuisce alla sua insistenza.

Poi ditemi che negli anni ’60 non erano tutti più stilosi.

Quando Thomas riesce finalmente nell’intento di invitarla
a casa sua, la trama si complica: sviluppando e analizzando meglio le
fotografie scattate, il fotografo capisce che Jane durante il bacio incriminato
stava rivolgendo il suo sguardo altrove, ad una siepe vicina, da cui sembra che
qualcuno fosse a sua volta impegnato a spiare la coppia, insomma, quanto parte
la porzione “thriller” del film, da spettatori viene voglia di cambiare
posizione sulla poltrona per godersela.

E Photoshop… MUTO!

Ma “Blow-Up” come detto è un’infilata di false piste una
dietro l’altra, anche prima che la trama svolti verso il giallo, ogni gesto o
azione che vediamo sullo schermo non è quello che sembra, a partire dalla
sessione fotografica con la modella iniziale, quella talmente iconica da finire
dritta sparata sulla locandina del film. Thomas fotografa la bionda ma dalle
sue parole, dal linguaggio del corpo suo e della modella, sembra più un amplesso
consumato a colpi di obbiettivo (“Sigmund Freud, analyse this” cit.), così come
quando Jane si presenta a casa del protagonista, viene quasi da credere che i due
consumeranno, invece nulla, Vanessa Redgrave lascia il protagonista con un palmo
di naso, appioppandogli per di più un numero di telefono finto, perché in
“Blow-Up” ogni fotogramma va messo in discussione.

La scusa più vecchia del mondo, vieni su da ma che ti scatto qualche fotografia.

Thomas esce dall’ostello per poveri ma è pieno di soldi,
il sesso non si consuma, nemmeno quando il fotografo riceve la visita di due
ragazze, un po’ per evitare la censura Antonioni non ha voluto mostrare troppa
epidermide, un po’ per portare avanti il suo tema, infatti sul più bello il
fotografo si annoia, si libera delle due e torna a spulciare le foto scattate a
Jane, come se la realtà filtrata dall’obbiettivo risultasse più interessante di
quella vera.

Ma in “Blow-Up” anche quando la trama pare girare a vuoto
(e spesso avrete questa sensazione), in realtà è solo Antonioni che porta
avanti la sua tesi, la scena del concerto ad esempio, dove assistiamo
all’esibizione degli Yardbirds con Jimmy Page e con Jeff Beck e se aguzzate la
vista, nel pubblico potrete riconoscere anche Michael Palin, direttamente dalle
fila dei Monty Python (storia vera).

Talkin’ ‘bout my g-g-generation (cit.)

Il pubblico non reagisce davanti a tanto sfoggio di
talento, ma poi si agita come un branco di piranha quando qualcuno getta del
sangue in acqua, quando il cantante spacca la chitarra e ne lancia i pezzi tra
il pubblico, lo stesso Thomas lotta per accaparrarsi il feticcio che un attimo
dopo, getterà via con noncuranza all’uscita del locale, perché fuori dal
contesto di un concerto, di fatto è solo un pezzo di chitarra rotta senza
valore o utilità, un po’ come la tanto desiderata elica.

Ogni immagine ha valore all’interno di un contesto, che
però potrebbe rivelarsi posticcio un minuto dopo, o anche solo cambiando di
poco la prospettiva, ecco perché la trama Thriller sale velocemente in
cattedra, ma si sgonfia altrettanto in fretta. Ingrandendo (in inglese appunto,
facendo “Blow-Up”) le fotografie scattate, Thomas capisce il punto esatto del
parco dove guardare, quello dove solo lui ritroverà il cadavere che però presto
scomparirà. Qualcuno lo ha spostato? Il corpo era davvero lì o il fotografo si
è auto suggestionato creando una sua realtà, frutto del troppo tempo passato a
spiare attraverso un obbiettivo?

“Fermi così… Cassidy se venuto con gli occhi chiusi, rifacciamola”

Interessante notare poi che il protagonista David
Hemmings, ancora oggi è ricordato oltre che per questo film, per la sua parte
in “Profondo rosso” (1975) di Dario Argento, a voler far della filosofia, un
altro film dove lo sguardo (e gli specchi) hanno il loro ben peso sulla trama.

Forse risulterà un tantino snobbino per la media di
questo blog molto pane, salame e gomiti sul tavolo, ma per l’importanza storica
del film e il suo fondamentale lascito, capace di dare una discreta spallata
alla settima arte, facciamo spazio a questo Classido!


“Blow-Up” è un’acuta riflessione sull’ambiguità di quello
che guardiamo, visto che se mi state leggendo è molto probabile che siate appassionati di cinema, il film quindi ci chiede di riflettere e di mettere in dubbio
le immagini cinematografiche, che tutti noi sappiamo essere dei falsi creati ad
arte, ma accettiamo di stare al gioco per avere in cambio una storia
avvincente, il nostro personale cadavere da scovare, un mistero comodo da ammirare.

Come inizia “Blow-Up” termina, piccola lezione di
circolarità cinematografica che ha fatto scuola, infatti nel finale tornano i
giovanotti truccati da mimi della prima scena, impegnati in una partita a
tennis senza racchetta o palline, che non è più reale di tutto quello che
abbiamo visto (o creduto di vedere) per 111 minuti, infatti Thomas nel finale
cosa fa? Cede completamente alla finzione, si abbandona, quando la palla
immaginaria finisce fuori campo, corre a raccoglierla per lanciarla nuovamente
ai ragazzi. Il colpetto di genio è dar valore ad un altro elemento chiave della
settima arte, ovvero il sonoro nell’ultima scena di un film tutto orientato
allo sguardo, infatti prima dei titoli di coda, fuori campo, sentiamo il
classico rumore di racchette che colpiscono un pallina, quello della vostra normale
partita di Tennis giocata non come farebbe il Cappellaio Matto di Alice.

“Allora, ragioniere, che fa? Batti?”, “Ma, mi da del tu?”, “No, no! Dicevo: batti lei?” (cit.)

“Blow-Up” sembra quasi una tesi di laurea, un film
teorico sul potere dello sguardo, ma forse anche sull’importanza che da
spettatori gli attribuiamo, in senso generale è una lezione di stile, cinema
capace di decostruire come spesso amava fare Antonioni (il finale esplosivo di “Zabriskie
Point” o la figura del protagonista in “Professione: reporter”), ma in generale
per vedere la parte “Thriller” di “Blow-Up” raccontata al meglio e resa
centrale nella storia, abbiamo dovuto attendere un regista che ha fatto sua la
lezione di Antonioni ma anche di tanti altri Maestri della settima arte. Ora
che ho completato questa “trilogia dello sguardo”, posso finalmente portare
questa Bara dove avevo intenzione di arrivare, scusate la finta di corpo fatta
maldestramente a mia volta, ma presto vi sarà chiaro perché questa deriva
guardona in tre parti era così importante per le mie prossime traiettorie di
volo.

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