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Blue Chips – Basta vincere (1994): vivere e morire a canestro

Tra le mie più grandi passioni sicuramente il cinema e la pallacanestro, finalmente ho l’occasione per trattarle entrambe nel nuovo capitolo della rubrica… Hurricane Billy!

Finalmente lo ripeto, perché tra i tanti registi che stimo a cui ho dedicato una rubrica, solo il Maestro Carpenter (fanatico dei Lakers) mi aveva dato l’occasione di parlare di basket, ma in una singola scena. Invece, William Friedkin (tifoso dei Celtics, verrebbe fuori un bel derby con Carpenter) ci ha fatto su un intero film sul basket, anche se, parliamoci chiaro: quando ai tempi Billy annunciò che “Blue Chips” (da noi rafforzato dal sottotitolo italico come al solito abbastanza inutile “Basta vincere”) più di un naso si è arricciato per lo sdegno.

La carriera del regista di Chicago era ad un punto morto, sono anche volate illazioni sul fatto che Friedkin sia stato scelto per dirigere questo film, solo per via della sua nuova moglie, l’influente produttrice Sherry Lansing con cui è convolato a giuste nozze nel 1991, ma posso essere brutale? Sono tutte cazzate, perché il soggetto e la sceneggiatura del film saranno anche state scritte dallo specialista di drammi sportivi, il mitico Ron Shelton lo stesso del monumentale Chi non salta bianco è, ma con Ron a bordo solo come produttore, la Paramount pensò che se lo stesso Shelton non era disposto a dirigerlo, William Friedkin entrato dalla panchina poteva essere la scelta giusta e lo era, perché quello che tutti i proprietari di nasini arricciati nel 1994 non avevano capito è che se hai quella che l’avvocato Federico Buffa chiama “The Disease”, ovvero la malattia della pallacanestro, te la porti dietro vita natural durante e state pur certi che Billy è uno di noi, quindi anche io calo la maschera: “Blue Chips” era l’ultimo dei motivi che mi ha convinto che su questa Bara il regista di Chicago si meritava una rubrica tutta sua (storia vera).

Per i titoli di testa, dite grazie al Zinefilo.

Ma non è solo per ragioni di cuore fatto a forma di pallone arancione a spicchi che “Blue Chips” resta un film Friedkiano al 100%, lo è soprattutto per il tema di fondo della storia: il protagonista Coach Pete Bell è il tipico personaggio di William Friedkin che si muove tra luci ed ombre, un protagonista dal codice morale rigoroso, pronto a sporcarsi le mani e a raggirare il sistema pur di correre dietro alle sue ossessioni. In questo senso non è per nulla diverso da Popeye Doyle, solo che la sua fissazione è la pallacanestro.

Per “Blue Chips” Friedkin fa una scelta molto interessante, esiste la scuola di pensiero secondo la quale sia più facile insegnare a recitare ad un grande atleta, piuttosto che rendere un attore un credibile sportivo, il motivo per cui poi in molti film d’azione gli attori ripetono quelle quattro mosse che hanno imparato in palestra un mese prima e ci vengono spacciati per maestri di arti marziali. La verità, ovviamente, sta nel mezzo: puoi far recitare un vero atleta, a volte con risultati che possono essere rivedibili (Tommy “The Machine” Gunn) oppure straordinari (Jesus Shuttlesworth), ma forse sarebbe meglio sfruttare i talenti di tutti come si fa… Beh, a basket!

Coach Billy Friedkin per ottenere il meglio da tutti, per “Blue Chips” scelse di combinare veri atleti lasciati liberi di giocare, limitandosi a coreografare solo i momenti culminanti delle partite (quelli decisivi ai fini della trama) affiancando ai talenti del parquet attori dello stesso peso specifico, considerando che “Blue Chips” (che da ragazzino con gli amici al campetto chiamavamo “Basta vincere”, quindi ogni tanto scusate se mi sentirete riferirmi al film in questo modo) ruota tutto attorno alla figura del Coach protagonista, per il ruolo di Pete Bell ci voleva qualcosa in grado di farsi carico della responsabilità, Friedkin aveva le idee chiare e voleva a tutti i costi Nick Nolte.

«Scaldati Nick, entri al prossimo cambio»

Oltre ad essere stato un attore diretto da molti dei miei registi preferiti, Nolte è il nome che veniva fuori associato a tutti i maggiori personaggi dell’immaginario, fisico da giocatore di football, carattere mettiamola così, ruvido, in quel periodo della sua carriera Nick Nolte usciva da un divorzio sanguinoso ed era in lotta (tramite avvocati) per la custodia del figlio, in compenso come lo descrive Friedkin nella sua autobiografia “Il buio e la luce”, Nolte era in fuga dall’etichetta di uomo più sexy del mondo che gli era stata appioppata da “People”, quindi aveva rinunciato al pettine e spesso andava in giro in pigiama (storia vera), insomma non poteva esserci attore più azzeccato per portare in scena i tormenti di Coach Pete Bell, tanto che più volte l’iracondo attore e il fumantino regista di Chicago, hanno finito per prendersi a male parole, ma noi maschietti (e giocatori di basket) facciamo così, una sfuriata e poi amici come prima.

«Togliti il pigiama e vestiti!», «Non è contro il regolamento, obbligarmi!»

Pare che Friedkin pur di avere Nolte nel suo film, minacciò di piazzarsi con una tenda nel cortile di casa sua, sta di fatto che dopo aver messo in cassaforte il ruolo del protagonista, tre quarti del film erano già al sicuro, al resto del cast pensò la Paramount, ecco perché in piccolo ruoli (ma molto incisivi) in “Blue Chips” troviamo Alfre Woodard nel ruolo della madre del campione di Chicago Butch McRae e Louis Gossett Jr. che si vede due minuti, ma furoreggia nei panni del primo allenatore dell’ambito campione.

Compare due minuti ma è sempre un mito: Louis Gossett Jr.

Ma alla credibilità di un film che parla di Pallacanestro, ci pensò lo stesso Friedkin che, come detto, è anche lui affetto da “The Disease” e come abbiamo visto anche nel corso di questa rubrica, ha rischiato di entrare a far parte della proprietà della sua squadra del cuore, i Boston Celtics, grazie ad un’amicizia con il leggendario Red Auerbach prima e poi con Bob Cousy e qui mi dispiace, vi beccate una brevissima parentesi sul vecchio Bob: il giocatore preferito di Billy da ragazzino? Bob Cousy, il primo a fare un passaggio dietro la schiena su un campo della NBA? Sempre Bob Cousy, motivo per cui proprio a Bob Cousy il regista di Chicago affida il ruolo del preparatore atletico della squadra di college del suo film e gli dedica anche una scena (quella dove parla con Nick Nolte degli stendardi degli scudetti vinti, mentre per inciso, Bob Cousy fa dieci su dieci ai tiri liberi, con la camicia addosso e tirando l’ultimo libero con la mano sinistra). Leggenda è la parola che state cercando.

Dieci su dieci, vestito da ufficio, tutta la classe di Bob “Mr. Basketball” Cousy.

Bob Cousy non è l’unica faccia nota proveniente dal mondo della Pallacanestro professionistica che ritroviamo nel film, uno degli allenatori avversari è Rick Pitino (guarda caso per un po’ Coach proprio dei Celtics), ma i nomi noti sono ovunque, basta dire che compare anche Gary Viti attuale preparatore atletico dei Lakers, insomma il regista proveniente dai documentari non ha mai perso il vizio del realismo, ecco perché portandosi dietro Bob Cousy come lasciapassare, ottenne di girare a Frankfort nell’Indiana, dove la squadra locale del liceo gli mise a disposizione l’intero palazzetto (cinquemilacinquecento persone di capienza, non proprio la vostra palestra dell’ITIS) per ogni partita diretta da Friedkin, il tutto esaurito sugli spalti di tifosi pronti a fare da comparse senza ricevere in cambio nemmeno un centesimo, perché nell’Indiana la sacra trinità è così composta: la settimana a lavorare, la domenica mattina in chiesa il resto del tempo a giocare a basket o al palazzetto.

Quando si parla di pallacanestro lo stato dell’Indiana è la Mecca, infatti uno dei campioni arruolati da Coach Pete Bell per la sua squadra arriva proprio da lì, anzi, per la precisione da French Lick, un paesello minuscolo che per ogni appassionato di Basket è l’equivalente di Smallville per gli appassionati di Superman, visto che è la città natale di Larry “The legend” Bird che, ovviamente, compare nel film ed è il motivo per cui il nostro Billy ha potuto passare un po’ di tempo con il leggendario campione dei Celtics, nella sua città natale, un posto dove puoi percorrere il Larry Bird Boulevard, passando davanti alla concessionaria di auto di proprietà di Larry Bird e via così, perché nell’Indiana lo Spirito Santo porta la palla da basket per fare due tiri a canestro con gli altri suoi due compari.

«Larry non è bianco, Larry è scolorito» (cit.)

“Basta vincere” approfondisce la figura del Coach di pallacanestro, un personaggio che visto da fuori è storicamente un essere bilioso che sbraita ai giocatori e litiga con gli arbitri, già impersonato alla perfezione da Gene Hackman in Colpo vincente (che guarda caso, era ambientato nell’Indiana), solo che il film di Friedkin è ambientato nel mondo del College Basketball, l’anticamera del professionismo, in NCAA ci vanno i giocatori che ufficialmente vogliono laurearsi in qualche prestigiosa università e vogliono anche imparare a giocare a basket da professionisti, magari vincendo il più possibile in modo da poter essere scelti da qualche squadra di prestigio nella NBA e diventare stelle di prima grandezza super pagate. Sempre parlando in via teorica, non è possibile comprare o pagare i giocatori dei College, ma non siamo bambini, è chiaro che un giro di soldi così faccia gola a tanti, Spike Lee avrebbe denunciato le pressioni subite dai giocatori, da parte di allenatori e agenti (il più delle volte bianchi) nel suo He Got Game, mentre Friedkin oltre alla purezza del gioco, argomento che lo interessa molto da appassionato, in quanto cineasta e autore, ha molto a cuore questa storia di corruzione, le luci ed ombre dei suoi personaggi che sono il filo rosso che corre lungo tutta la filmografia del regista di Chicago.

Cosa vi dico sempre dei primi cinque minuti di un film? Che ne determinano tutto l’andamento ed è lo stesso anche per “Basta vincere” che inizia con Coach Pete Bell (un Nick Nolte che recita anche con le vene del collo esposte) intento a tirare un culo monumentale ai suoi giocatori durante l’intervallo dell’ennesima partita giocata da schifo, non si tratta di una semplice sfuriata, ma di una ripassata in tre atti, in cui ogni tanto il Coach esce dallo spogliatoio (forse per non strangolare nessuno dei suoi giocatori) solo per rientrare più incazzato di prima. Se siete mai stati allenati da un Coach di basket tutto normale, se non fosse che Nick Nolte fa dieci volte più paura.

La pacata riflessività degli allenatori di Basket.

Rientrato in campo Coach Bell si appiccica con gli arbitri, calcia il pallone (cosa che a basket non si può fare, tanto meno quando sei l’allenatore e ti stai lamentando per una chiamata arbitrale) e un fischio dell’arbitro dopo, finisce espulso, sotto la doccia a fare la classica doccia dello sconfitto, quella che dura quaranta minuti tutti passati sotto il getto con lo sguardo perso nel vuoto a pensare a che cazzo hai fatto.

A Rugby sarebbe un bel calcio, ma qui è fallo Coach.

Coach Bell è decisamente affetto da “The Disease”, è un duro e puro come tutti gli (anti)eroi di Friedkin, sa di avere dei giocatori decenti, ma per vincere ha bisogno di campioni, gli servono appunto le “Blue Chips” del titolo, i nomi su cui puntare che, però, la sua università pare non attrarre più. L’unico modo per farlo è giocare sporco, cedere al meccanismo di tutti gli altri, quello per cui una mano lava l’altra e tutte e due regalano un trattore John Deere al padre di un promettente tiratore bianco (ricalcato, ovviamente, sulla figura di Larry Bird) dell’Indiana, per convincere a mandare il suo ragazzone nella tua squadra… Tu chiamala, se vuoi, corruzione (quasi-cit.)

Alla fine Coach Bell il passo lo fa, solo per questa volta, solo per “rimetterci in piedi e tornare a vincere come meritiamo” (da qui il sottotitolo “Basta vincere”) e, quindi, la corsa agli armamenti porta nel film veri atleti provenienti dal NCAA, pescati da Coach Bell (e da Billy Friedkin) un attimo prima di fare il salto nella NBA. Mi riferisco alla guardia di Chicago, il promettente Butch McRae che nel film è interpretato da Anfernee “Penny” Hardaway, vi chiedo uno sforzo di memoria, tornate agli anni ’90 e oltre alle maglie dei Chicago Bulls di Michael Jordan, sono sicuro che ricorderete canotte bianche a righe nere con banda blu degli Orlando Magic, perché Penny Hardaway prima dell’esplosione di un certo Black Mamba, era quello stiloso che piaceva ai giovani.

Per la nuda cronaca, Nick Nolte è 1.85 anche se qui pare un tappo.

L’altro grande (in tutti i sensi) acquisto della squadra di Coach Friedkin Bell è il gigante della Louisiana Neon Boudreaux, interpretato dal gigante del New Jersey Shaquille O’Neal nella sua versione 1.0 il che vuol dire un girovita che non era ancora quello di un appassionato di Hamburger con una varietà infinità di movimenti sotto canestro, ma di un fascio di muscoli con un movimento solo ma devastante: la schiacciata a due mani che ha rotto più di un canestro ad inizio carriera nella NBA (storia vera). “Blue Chips” resta la miglior interpretazione di “Shaq” che in carriera in linea di massima, due ruoli (uno peggio dell’altro) li avrebbe anche interpretati, qui Friedkin lo inquadra con la comica reverenza che si addice ad un cabarettista di 2 metri e 16 come quel gran mito di Shaq.

Shaq-Fu!

“Blue Chips” affronta con le armi del dramma (se non proprio del thriller) la scelta morale di Coach Bell, lasciando che sia il losco Happy ad impersonare il lato più corrotto di un sistema che della pallacanestro se ne frega, interessato più che altro a far soldi e sono i momenti di Basket giocato quelli dove è chiaro che Friedkin non sia qui per fare un compitino, ma per rendere omaggio al gioco proprio come vorrebbe fare il suo protagonista.

Nella sua biografia il nostro Billy pecca di modestia dichiarando di non essere riuscito a rappresentare il dramma tipico delle partite di basket, quello che di norma può essere raccontato solo assistendo alla partita magari con una telecronaca all’altezza, ma parlando qui forse più da appassionato di basket che di cinema (diciamo 60 e 40 in questo momento), Friedkin ha trovato un ottimo modo per mostrare le azioni da bordo campo (che poi è il punto di vista sulla partita del Coach in panchina), alternandole ai primi piani su Nick Nolte che raccontano non solo l’andamento dei risultati dei suoi ragazzi in campo, ma soprattutto il tormento morale del personaggio che, ovviamente, va di pari passo con le sfide da affrontare sul parquet. Ma siccome avrete intuito che la mistica dell’Indiana aleggia su questo post, affrontiamo finalmente il cuore di “Basta vincere”, occhio che ora vi disegno lo schema sulla lavagnetta.

Un po’ di basket giocato, diretto da un appassionato come Billy Friedkin.

Per la partita decisiva del campionato, Coach Bell deve affrontare la squadra più forte del campionato, gli Indiana Hoosiers allenati da Bobby Knight, il personaggio che di fatto Ron Shelton aveva in testa quando ha scritto Coach Pete Bell, ma anche l’allenatore che ha aperto le porte della sua palestra alla troupe guidata da Friedkin, per un esclusivo dietro le quinte dei suoi metodi di allenamento, in un anno particolare della sua carriera, il 1992 che ha visto proprio gli Hoosiers di Knight vincere il campionato NCAA ed ora voi non potete vedermi, ma sappiate che io sto facendo scrocchiare le nocche delle mani, perché il paragrafo su Bobby Knight non ve lo leva nessuno, più ineluttabile di un “suicidio” punitivo imposto dal Coach dopo una partita persa, se avete giocato a basket sapete di cosa sto parlando.

Robert Montgomery Knight, detto Bobby, il più discusso e controverso allenatore di pallacanestro degli ultimi cinquant’anni. Maglione rosso come una divisa, capelli pettinati con la riga da una parte come da tradizione della scuola dove si è laureato lui, West Point, quindi un uomo dell’esercito a tutti gli effetti, tanto che il suo soprannome “Il generale” gli deriva dalla sua formazione, dal secondo nome Montgomery e dall’atteggiamento: irascibile, durissimo, ma non diventi l’allenatore di Collega Basketball più vincente di sempre se sei un tenerone e Bobby Knight non lo è mai stato.

«Cassidy ti metto in panchina fino al prossimo Natale!»

Per darvi un’idea del personaggio a cui Nick Nolte si è ispirato, sappiate che Michael Jordan di lui diceva «Coach Smith è il maestro dell’attacco a quattro angoli, coach Knight è il maestro delle parolacce a quattro lettere» (storia vera). Tra le migliori azioni fuori e dentro al campo di Bobby, abbiamo quella volta in cui a Portorico, ha infilato un poliziotto locale dentro il bidone della monnezza dopo un diverbio, oppure quando sul campo ha preso a calci in culo (dovrei direi nel sedere, ma erano così forti che non renderebbe l’idea) uno dei suoi giocatori che di cognome per altro faceva Knight, visto che era suo figlio Pat Knight.

Coach Knight è quello che imponeva che sulle maglie delle squadre allenate da lui ci fosse stampato solo il nome davanti, ovvero quello dell’università senza nome del giocatore sulle spalle, quello lo avrai se andrai a fare i soldi nella NBA, sotto la gestione Knight si gioca per l’onore della maglia e l’amore per il gioco. Quando Coach Knight entra in scena in “Blue Chips” nei panni del Coach avversario vederlo disegnare schemi e sbraitare opposto ad un attore che recita ispirandosi a lui come fa Nick Nolte qui, sarebbe un po’ come dire che in Bohemian Rhapsody ad un certo punto, accanto a Rami Malek entrasse in scena il vero Freddy Mercury, nei panni del cantante di una band rivale dei Queen, spero di aver reso l’idea.

Trovate le dieci piccole differenze.

In questo cortocircuito di realtà cestistica e finzione (sempre cestistica) l’ultima partita è esaltante e per altro termina con un alley-oop schiacciato a canestro da Shaq, con cui William Friedkin pare aver disegnato sulla sua lavagna (lo schermo cinematografico) e anticipato lo schema con cui i Lakers proprio di O’Neal avrebbero vinto il titolo NBA nel 2000, ma considerando che proprio gli Orlando Magic sono arrivati a giocare la loro prima finale (persa) della storia della franchigia, mettendo sotto contratto sia Shaq che “Penny” Hardaway (storia vera) vi dice quanto sia tenuto in alta considerazione questo film presso la comunità di appassionati del giochino con la palla a spicchi.

Per i cinefili che, invece, ai tempi storsero il naso, forse io valuto un po’ meglio il film per via della mia passione per il gioco, ma è innegabile che “Blue Chips” porti avanti tutte le ossessioni cinematografiche di Friedkin: Coach Bell, per convincere i suoi giocatori, si professa di due religioni differenti in due momenti diversi del film, perché un ragazzo timorato di Dio come il nostro Billy, la religione nei suoi film la butta dentro con la stessa regolarità con cui faceva Larry Bird con i tiri da tre punti.

Friedkin ha due grandi fedi, la seconda è il Basket.

Il finale del film, poi, a prenderla proprio alla larga, potrebbe essere una sorta di esorcismo (occhiolino-occhiolino) con cui Coach Pete Bell si fa carico di tutto il male per salvare l’anima e la purezza, non di una ragazzina, ma della sua amata Pallacanestro. Tra i tanti monologhi esaltanti che abbiamo sentito nella storia del cinema, la lunga tirata finale di Nick Nolte è un gioiellino recitato da un attore che troppo spesso viene dimenticato (o peggio) dato per scontato, non un’assoluzione per Coach Bell, anzi, ma il suo modo di espiare i suoi peccati per salvare l’anima del gioco, perché ve lo dico fuori dai denti: ci voleva un credente come Billy Friedkin per parlare così bene di una fede come quella per la Pallacanestro. Nick Nolte con il suo monologo finale è il suo profeta, “Blue Chips” resta il classico film considerato erroneamente minore da tutti, tutti quelli che non sono affetti da “The Disease” intendo dire.

Shaq non fa niente per niente, ci tocca fare una colletta per la sua apparizione sulla Bara.

Per questa settimana la partita è finita, ci rivediamo qui tra sette giorni per un altro schema disegnato da Coach Friedkin e il nuovo capitolo della rubrica a lui dedicata, non mancate! Intanto non perdetevi il post del Zinefilo anche lui pronto a fare due tiri a canestro.

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