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Blue Steel – Bersaglio mortale (1990): quando un uomo con la pistola incontra una donna con il distintivo…

Come dovrebbe essere una donna? Alta o bassa, ma non
troppo. Magra o formosa, ma nei limiti importi dall’alta moda.
Casta, almeno a quanto dice la chiesa. Ma a ben guardare la
risposta giusta alla domanda ci è stata data da Kathryn Bigelow: come dovrebbe
essere una donna? Come strac@&%o vorrebbe essere lei.

Nel 1990 sono usciti tre film che hanno riscritto le
donne al cinema, tre titoli che hanno in comune oltre alla data di uscita,
anche il taglio di capelli delle tre protagoniste, quindi vi do il mio
benvenuto al primo capitolo della… trilogia della donna tosta con i capelli
corti in un film che compie trent’anni nel 2020!
… se dovesse venirvi in mente un nome più breve per la
trilogia, accetto molto volentieri dei suggerimenti.

Quante volte su questa Bara, ho già espresso il mio punto
di vista, su quanto trovi assurda la frase fatta “Kathryn Bigelow è una donna
che dirige come un uomo”? Credo di averlo fatto ogni volta che ho trattato uno dei suoi film. Quindi possiamo fare
finta di aver già sviscerato la questione, in modo da poter passare al
passaggio successivo? Una cosetta che mi sta comunque a cuore, perché se un
uomo dirige un film d’azione, tutto spara-spara, nessuno si impegna troppo a
fare della dietrologia – infatti spesso il cinema action viene considerato
troppo poco -, mentre se a dirigerlo è una donna, allora cambia tutto lo
scenario.

Dopo aver diretto un bellissimo western farcito di
vampiri (ma mai chiamati usando la parola con la “V”) come Il buio si avvicina, in coppia con lo stesso sceneggiatore del film
precedente – Eric Red lo stesso di quella bomba di The Hitcher, Kathryn Bigelow ha firmato “Blue Steel”, e tanto per
cacciare subito l’elefante fuori dalla stanza, Derek Zoolander non ha nulla a
che spartire con la trama. Ciao Dumbo è stato carino rivederti.

Katrina e Jamie Lee, troppa grazia per una sola immagine.

Credo che qualunque regista, uomo o donna che sia,
quando scrive e dirige un film, ci metta dentro qualcosa della sua storia e del
suo vissuto, con “Blue Steel” è più facile notarlo perché la protagonista Megan
Turner è una donna – anche di bell’aspetto visto che è interpretata da Jamie
Lee Curtis, sempre sia lodata -, che “fa un lavoro da uomo”, ovvero la
poliziotta, infatti alcuni passaggi della trama, non fanno altro che
sottolineare con il pennarello a punta grossa questo concetto, infatti il padre
di Megan, durante la cerimonia di consegna del distintivo afferma: «Ho un
dannato sbirro come figlia».

Hai il diritto di rimanere in silenzio (e farti arrestare da Jamie Lee)

Ricordo una bella intervista di Kathryn Bigelow, in cui
la regista dichiarava che da ragazza era una delle più alte della scuola e
proprio per questo, guardata (dal basso) con sospetto dai ragazzi, che non
gradivano molto andare in giro con una alta dieci centimetri più di loro (Sigmund Freud analyse this). Con la sua
passione per l’arte (Jackson Pollock il suo preferito), un certo grado di
solitudine e un punto di vista sopraelevato su tutti gli altri, la nostra
Katrina nell’intervista dichiarava di aver imparato ad osservare, i semi della
sua futura professione erano stati sparsi.

“Blue Steel” inizia con Jamie Lee Curtis già nella posa
che utilizzerà per quasi tutto il film (due mani sul calcio della pistola),
intenta a fare irruzione durante una situazione con ostaggi, che si rivela un
trucco anche per noi spettatori, un’esercitazione all’accademia di polizia dove
Megan impara ad osservare tutto, perché quando avrà un distintivo, osservare e
notare i dettagli, farà la differenza tra vivere e morire. Ora che Kathryn
Bigelow ha impostato un discorso sullo sguardo (che sarebbe diventato centrale nella sua filmografia),
può far iniziare davvero il suo film con i titoli di testa, che sono la precisa
presa di posizione della regista, oltre a rientrare perfettamente nella mia
astrusa teoria per cui i primi minuti di una pellicola, ne determinano tutto
l’andamento.

“L’occhio che uccide”, Michael Powell e tutta quella bella robina lì, nella versione di Kathryn Bigelow.

L’affermazione chiara e potente di Katrina è che una
donna, può fare tutto quello che fa un uomo, anche i film d’azione. Infatti i titoli di testa sono composti da dettagli ravvicinati sulla pistola, sul
tamburo e in generale sull’arma della sua protagonista – da qui il titolo del
film, l’acciaio blu dell’arma – che altro non sono che un modo di omaggiare ma
anche di impossessarsi dei più bei titoli di testa di un film, forse di sempre,
quelli di Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan, un film scritto da John Milius, di cui a lungo ho creduto che la Bigelow fosse la figlia illegittima, anche perché hanno diretto
i due migliori film sul surf mai visti al cinema.

Quando anche i titoli di testa di un film, sono una presa di posizione.

Se Dirty Harry poteva iniziare il suo film sfoggiando la
sua pistola, allora può farlo anche Megan Turner, che non paga, come conclude i
titoli di testa del film? Indossando la divisa, i guanti e il cappello, ovvero la
vestizione dell’eroe, un classico dei film d’azione che qui diventa, la
vestizione dell’eroina. Stanno ancora scorrendo i titoli di testa e Katrina si
è già impossessata di due classici del cinema “macho” facendoli suoi, ho visto
film iniziare peggio in vita mia, ve lo assicuro.

“Io giuro che non ammazzo nessuno… seeeee!”

Al primo giorno da poliziotta, Megan osserva e osservando
si salva la vita, ma soprattutto, può affrontare un altro classico del cinema
muscolare americano: la rapina al mini market da sventare, un classico per ogni eroe d’azione degli anni ’80, appena terminati poco prima dell’ uscita di questo film.

Il rapinatore è l’attore destinato a diventare il
feticcio di Katrina, ovvero Tom Sizemore, al suo esordio cinematografico. Il battesimo del fuoco di Megan ci viene
raccontato dalla Bigelow con una regia che tiene la macchina da presa
inchiodata sulla sua protagonista, facendosi avvertire tutta la tensione del
momento, fino allo sparo liberatorio, con cui Megan impallina come un tordo
Sizemore, defenestrandolo.

Un altro primato di questo film: essere l’esordio cinematografico di questo ragguardevole personaggione.

Il co-sceneggiatore Eric Red ha contribuito a tenere i
toni bassi, per lui “Blue Steel” non è altro che una versione al femminile di The Hitcher, che onestamente non è
affatto una brutta etichetta per un film. Bisogna dire che però la pellicola tende
davvero troppo a reiterare certi messaggi: il concetto di una donna in un
ambiente di soli uomini, qui viene sottolineato a volte in maniera un po’
grossolana (tutte le scene del padre violento ad esempio). Johnathan Demme un anno dopo avrebbe fatto meglio, però trovo
interessante il fatto che l’unico a supportare la protagonista, sia uno che di norma siamo
abituati a vedere nel ruolo del cattivo, il mitico Clancy Brown che d’istinto
(e per trascorsi cinematografici) non è molto rassicurante e forse anche per
questo, accentua la solitudine di Megan.

“Venite a vedere, mi fanno fare il buono per una volta”

Ci sono poi momenti in “Blue Steel” dove la logica viene
messa parecchio da parte, la protagonista invece di perdere il lavoro e venire
denunciata (ripetutamente) per le sue azioni, può continuare ad agire abbastanza indisturbata, il gioco al gatto
con il topo, allo sceneggiatore Enrico il Rosso era riuscito decisamente meglio in The Hitcher, ma “Blue Steel” è ancora
una bomba, proprio grazie alla regia di Kathryn Bigelow e a Jamie Lee Curtis, che
si carica tutto il film sulle spalle.

Il critico cinematografico Roger Ebert, uno dei pochi ad
apprezzare un film che incassò ben poco alla sua uscita nella sale
cinematografiche, notò al volo come Jamie Lee, fosse di nuovo alle prese
con uno stalker dopo Halloween, ma
questa volta non bisogna aspettare il dottor Loomis con la pistola, Megan che
si difende da sola e la pistola sembra quasi un personaggio nell’intreccio del
film.

L’unica Magnum che vedrete in questo Blue Steel (e Derek Zoolander… MUTO!)

Si perché dopo aver sventato la rapina nel mini market,
Megan viene accusata di essere solo una recluta (per di più donna!), che alla sua
prima uscita in servizio si è fatta prendere la mano, sparando ad un tizio disarmato, già perché l’arma del rapinatore è misteriosamente scomparsa. A prenderla è stato Eugene
Hunt, interpretato dall’azzeccato e qui viscidissimo Ron Silver, che ha battuto
la concorrenza di nomi ultra famosi per il ruolo, tra cui Michael Keaton, Ron
Perlman, Jeff Bridges e Bruce Willis… insomma la parte dello yuppie assassino
l’hanno proposta a mezza Hollywood.

Bret Easton Ellis avrebbe firmato il suo fulminante (e fulminato) romanzo d’esordio solo un anno dopo, ma il personaggio di Hunt per certi versi, anticipa
quello di “American Psycho”, anche se per Kathryn Bigelow il folle Hunt (nome omen)
comincia la sua caccia con Megan per intenti differenti. Quella dello yuppie
pazzoide è una volontà di potere, un desiderio tutto maschile che non a caso è
rappresentato da una pistola, non serve essere il padre della psicologia Freud
per considerarla un surrogato, una pistola per il pistolino (ah-ah).

“Cazzo di ferro!” (questa cit. la capiranno solo i lettori di Preacher)

Megan è una donna che nella testa di Hunt, diventa
potente, perché gli compare davanti come una visione di forza, una donna armata
che uccide un uomo. Nella testa malata del riccone qualcosa scatta, prendere la
pistola del rapinatore e iniziare il suo assurdo corteggiamento alla donna, diventa il
suo modo di prendere quel potere e farlo suo, questo spiegherebbe il nome
“Megan”, scritto su ogni proiettile caricato nel tamburo dell’arma. Una contorta e deviata trovata sessuale a suo modo.

Il loro rapporto diventa sempre più morboso nel corso del film, un assurdo corteggiamento condito da parecchia violenza. Si potrebbe intravedere quasi uno scambio di
ruoli se vogliamo, in tal senso, i capelli da “maschietto” di Jamie Lee Curtis
che ha sfoggiato fin quasi dall’inizio della sua carriera (in Halloween 2 ha dovuto indossare una
parrucca, storia vera), aiutano a rendere Megan affascinante ma ancora più
mascolina, insomma una tentazione irresistibile per la mente contorta di uno come Hunt.

“Coraggio… fatti ammazzare” (Cit.)

La loro sfida a distanza diventa un’ossessione, legata ad
un oggetto freddo e meccanico come una pistola, a cui viene attributo un potere
immenso… negli Stati Uniti? Dove anche i bambini girano armati? Naaa perché, ma
figurati! In questo senso Kathryn Bigelow è bravissima a rendere algido tutto attorno alla sua protagonista, questo film non poteva proprio intitolarsi in un
modo diverso da “Blue Steel”, perché tutto nel film è blu acciaio, dalla
fotografia dell’esordiente Amir Mokri (diventato il preferito di Michael Bay e
finito ironicamente a fotografare i suoi Transformers,
anche loro fatti d’acciaio), fino alla colonna sonora glaciale, quasi
meccanica di Brad Fiedel che arrivava da Terminator, tanto per stare in tema di
freddo metallo.

Capite che un film così poteva avere solo questo titolo.

Ma se la sua protagonista tiene testa ad un uomo
apparentemente intoccabile, allo stesso modo Kathryn Bigelow prende possesso
del cinema considerato storicamente per maschietti a tutto tondo, non solo
sforna un poliziesco vecchia maniera, ma lo conclude nell’unico modo possibile,
con un duello da film Western, ovvero il genere da uomini per eccellenza, e se
siamo spesso qui a disperarci del fatto che John Carpenter non ha mai diretto
un Western classico, uno con i cavalli e i cappelli a tesa larga, io aggiungo
che uno diretto da Kathryn Bigelow, l’avrei guardato altrettanto volentieri.

Nel finale Megan si gioca il tutto per tutto, per
affrontare il suo avversario ha comunque bisogno di due freddi pezzi di
metallo, una pistola e un distintivo, in cui il secondo è importante quanto la
prima, perché definisce il suo ruolo. L’inseguimento ci garantisce una veloce
scena in metropolitana (perché tutti i film davvero validi dovrebbero averne
una!) per poi concludersi in strada, un duello, una sfida all’O.K. Coral in cui se la Bigelow
non è la figlia illegittima di John Milius, allora deve esserlo di Sam Peckinpah, perché è la regista che ha capito meglio di tutti la lezione di “Bloody Sam”.

Il vecchio Sam sarebbe stato orgoglioso di Katrina.

Ogni volta che arriva la sparatoria finale di “Blue
Steel”, io cambio posizione sulla poltrona e mi godo una sparatoria, in cui ogni
colpo è un tuono e lo scontro tra i sessi viene definito utilizzando i canoni
del cinema d’azione e di quello Western: vetri rotti, tamburi di pistole ricaricate al
volo e rallenty per enfatizzare la violenza dei colpi. Sul serio, qui la questione non è
mai stata relativa al fatto che Kathryn Bigelow diriga film “come un uomo”
(qualunque cosa voglia dire), Kathryn Bigelow dirige come si fa in paradiso.
Punto!

“Tutto quello che serve per fare un film sono una pistola e una donna” (Jean-Luc Godard)

“Blue Steel” non ha incassato molto alla sua uscita, anche
se le prove dei due protagonisti Jamie Lee Curtis e Ron Silver, hanno raccolto applausi per la loro intensità. Per alcuni mercati inoltre, il film è stato più pubblicizzato per il nome del produttore Oliver Stone, piuttosto che per la pellicola in sé (storia
vera). Inoltre il film è rimbalzato tra diverse case di produzione prima di
finire nelle mani della Metro-Goldwyn-Mayer, e venire riscoperto solo dopo il
grande successo di Point Break. Ma
resta il fatto che nel 1990 Kathryn Bigelow ha frmato una dichiarazione
d’intenti chiarissima, quasi un manifesto programmatico: le donne toste (e con
i capelli corti) erano arrivate ed erano anche più toste di molti uomini.

Sembra che le donne toste siano state inventate al cinema
negli ultimi cinque anni, in realtà le figlie di Ellen Ripley esistono da sempre e la prossima settimana, faremo la
conoscenza di un’altra di loro, non mancante!
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