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Boris (2007-2010): la televisione in uno strambo Paese a forma di scarpa

Qualche mese fa un mio amico è stato assunto come aiuto
attrezzista in una produzione “della rete”, per una fiction di prossima uscita
con un titolo sinistramente simile a “Occhi del cuore 2” (storia vera). I suoi
racconti di vita vera dal set, mi hanno inevitabilmente fatto pensare al
personaggio di Alessandro (Alessandro Tiberi) infatti mi sono deciso finalmente di finire di vedere “Boris” per intero.

Ai tempi la guardavo a spizzichi e bocconi su Sky, ricordo
anche di aver visto il film uscito nel 2011, nel tentativo di mettere insieme i
pezzi delle poche puntate che ricordavo dai passaggi tv. “Boris” è afflitta
dallo stesso problema di Frankenstein Junior quindi prima di qualunque
altra cosa si, sto paragonando la (fuori)serie italiana al più popolare film di
Mel Brooks senza paura di pentirmi.

Che tu abbia visto o meno “Boris” è impossibile non essere
appassionato di cinema senza aver sentito e assimilato frasi come «Apri tutto
Biascica!», oppure «Così ‘de botto, senza senso» fino alla più popolari come «A
cazzo di cane!». Esattamente come “Frankenstein Junior” anche “Boris” viene
giustamente idolatrato per i suoi brillanti tormentoni, in grado di diventare
nei meme su Internet, prima che il concetto stesso venisse sdoganato e quando
la rete, non era ancora parte della nostra quotidianità come oggi.

Sotto con questo post su “Boris” dai! Dai! Dai!

Proprio come Frankenstein Junior però (continuo a ribadire
il concetto), le ragioni del culto non vanno cercate solo in quella manciata di
frasi geniali, perfette per essere ripetute all’infinito, ma nel contenuto
stesso, una buona parodia è quella che riesce a sostituirsi nella memoria
collettiva all’oggetto del suo sfottò, “Boris” in questo senso non è solo uno
sfottò all’industria televisiva Italiana ma è quasi un atto di anarchia, perché
non si è mai più visto in uno strambo Paese a forma di scarpa qualcosa di anche
lontanamente simile a “Boris”.

Basata su un soggetto di Luca Manzi e Carlo Mazzotta, la
serie è stata sceneggiata da Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca
Vendruscolo, originariamente con il titolo di “Sampras” modificato in corsa per
evitare cause legali con una nota azienda di prodotti sportivi dal nome della
dea greca della vittoria (storia vera). “Boris” fu la prima serie televisiva
originale prodotta da un canale satellitare, parafrasando il personaggio di
Lopez (Antonio Catania), “Boris” non è stata nemmeno collocata male,
semplicemente essere trasmessa su un canale a pagamento la rendeva un culto per
pochi, per certi versi anticipando quello che succede ancora oggi alle serie
fuori dal giro delle grandi piattaforme di streaming.

Si, ora vi tocca il pippone introduttivo, cavoli vostri!

Senza girarci attorno, perché sono stati gli stessi autori a
dichiararlo, “Boris” è stata salvata dalla pirateria, il passaparola e la
ricerca compulsiva degli episodi in rete ha fatto crescere il mito di una serie
che è una lucidissima analisi al mondo dell’intrattenimento Italiano, fatta da
addetti ai lavori che quel mondo lo conoscevano alla perfezione. Come abbiano
fatto a sfornare un prodotto tanti affilato nella sua critica, continuando
comunque a lavorare resta un mistero, sta di fatto che dopo “Boris” è
impossibile rapportarsi al cinema e alle produzioni nostrane (ma non solo)
senza avere in testa le urla di René Ferretti, in questo senso “Boris” è la
parodia definitiva di un intero settore, per questo andrebbe idolatrata, prima
dei geniali tormentoni.

Come spettatori ci ritroviamo a seguire la realizzazione di
una fiction di infimo livello intitolata “Gli occhi del cuore” (con relativo
seguito), da parte di una troupe composta da una banda di gatti senza collare,
nevrotici, in qualche caso sotto effetto di sostanze (come il direttore della
fotografia Duccio Patanè interpretato alla grande da Ninni Bruschetta), una
banda di scoppiati assolutamente irresistibile, tenuti a fatica insieme dal
regista René Ferretti (Francesco Pannofino sugli scudi) a sua volta in eterno
bilico tra qualità e scene girate a tirar via, sotto la supervisione del suo
pesciolino rosso porta fortuna, che cambia ad ogni nuova produzione e per
questa si chiama Boris, come il tennista.

Facce note dalla boccia per pesci del piccolo schermo.

L’espediente iniziale è quello solito, un classico per certi
versi, prendi un personaggio con cui il pubblico si può immedesimare, lo
stagista Alessandro in questo caso, poi gettalo nel mondo che vuoi far scoprire
allo spettatore, in modo che insieme possano esplorare le sue regole interne, le
dinamiche di gruppo che lo regolano e i personaggi che lo popolano, come il
capo elettricista, romanista sfegatato in fissa con gli straordinari non pagati
di aprile di nome Biascica (Paolo Calabresi).

“Boris” senza girarci attorno, ad ogni singolo episodio
ribadisce che le fiction prodotte “dalla rete” non sono altro che spazzatura
confezionata “a cazzo di cane” senza alcun rispetto per lo spettatore, un atto
di denuncia chiarissimo stemperato solo dall’uso impeccabile dell’ironia, ma
comunque urlato a chiare lettere, quasi uno sfogo dei creatori della serie, che
prendendo in giro il loro lavoro, sono stati più onesti di tutti nel
fotografare lo stato dell’arte dell’industria dell’intrattenimento nostrano.

Uno stile di vita.

L’asso nella manica di “Boris” è la sua capacità di mostrare
tutte le magagne del mondo della televisione Italiana, facendo ridere molto e
spingendo a tavoletta sul pedale del grottesco, enfatizzando personaggi che sembrano assurdi, ma poi non lo sono nemmeno così tanto, chiunque abbia lavorato
nell’ambiente potrebbe confermarmi che per quanto sopra le righe, molto nel mondo
dello spettacolo avviene proprio come lo vediamo accadere in “Boris”, me lo ha
confermato anche il mio amico aiuto attrezzista con meno esperienza di
Alessandro, ma potrebbe farlo chiunque altro nell’ambiente in grado di testimoniare che gli
attori egomaniaci come Stanis La Rochelle non mancano, ma nemmeno le “cagne
maledette”.

Prendo le distanze dalle affermazioni di Stannis, a me piace la Toscana.

Utilizzando uno stile spiccio e bello diretto, la serie in
certi momenti non le manda proprio a dire, alcuni personaggi e situazioni hanno
un nome differente, ma è chiarissimo a chi sia rivolta la satira. Una come Karin
“Le cosce” (Karin Proia) ricorda sinistramente molte attrici popolarissime sul
piccolo schermo, così come “la concorrenza”, composta solo da Milanesi in grado
di sfornare programmi basati su comici che ripetono ossessivamente il loro
tormentone, il modello è fin troppo simile allo storico “Drive-In” per non
essere una scelta voluta.

Nel tentativo poi di non correre il rischio di risultare “un
po’ troppo italiani”, questa serie ha saputo far emergere attrici e attori che
abbiamo incontrato spesso nelle produzioni nostrane, che rivedendo ora soffrono
quasi tutti di quello che io chiamo “Effetto Bob Kelso”, ovvero quando compare Ken
Jenkins in un film è impossibile non puntare il dito verso lo schermo urlando «Bob Kelso!».

Francesco Pannofino semplicemente lasciando libero
l’intercalare romanesco ci ha dimostrato che poteva esserci moltissimo oltre
alla voce italiana di Denzel e George. Alessandro Tiberi qui ha avuto un gran
battesimo del fuoco, prima che il suo personaggio, all’inizio identificabile
come il protagonista, abbia finito per lasciare spazio ad una coralità che è uno dei punti
di forza di “Boris”, così come Caterina Guzzanti che ha trovato la sua identità
ad ovest di un cognome che non passa inosservato, anche se suo fratello Corrado
ricopre un ruolo esplosivo nel corso della seconda stagione.

L’effetto Bob Kelso (copyright La Bara Volante 2021, all right reserved aut. min. rich vi sguinzaglio dietro i cani e gli avvocati) in azione.

Ma l’elenco sarebbe lungo, Pietro Sermonti forse è il più
rappresentativo, dopo milioni di episodio di “Un medico in famiglia” forse era
quello più motivato di tutti nei panni dell’odioso (e quindi mitico) Stanis La
Rochelle, per non parlare di Carolina Crescentini, che nei panni di Corinna
“cagna maledetta” Negri, ha mandato a segno il ruolo di un’attrice che recita
male, recitando però benissimo, uno dei tanti paradossi di “Boris”.

Anche l’ultimo degli
attrezzisti, in “Boris” ha una sua caratterizzazione tale da renderlo mitico,
in tutta onestà poi, non ho avvertito nemmeno questo fantomatico calo di
qualità («la qualità a noi, ci ha rotto i coglioni!» cit.) nel passaggio tra le
varie stagioni, me le sono davvero godute tutte perché comunque i personaggi
hanno tutti un arco narrativo che anche quando resta incompleto (come la strana
storia d’amore tra Alessandro e Arianna) dona realismo alla storia, anzi amaro
realismo sarebbe meglio dire.

Eh lo so, sto menando il can per l’aia con questo post.

Menzione speciale la merita la sigla, firmata da Elio e le
storie tese, sulla base musicale del loro pezzo Effetto memoria ma con le
parole adattate ai personaggi della serie, un colpo di genio che gli stessi Elii non sono riusciti a replicare per il film del 2011, la loro “Pensiero Stupesce” è divertente ma non brillante come la sigla della serie.

Per certi versi potremmo semplificare dicendo che “Boris” è
la versione italiana di “Si gira a Manhattan” (1995), anche se non sto
suggerendo un plagio da parte degli sceneggiatori, come succede appunto in
alcune puntate di “Boris”, anche perché l’impatto sulla cultura popolare di
“Boris” è stato ben più ambio del (purtroppo) dimenticato “Living in Oblivion”.
Anche perché “Boris” per un brevissimo momento ha fatto sperare che «Una nuova
tv fosse possibile», magari anche noi avremmo potuto avere serie comiche
brillanti come fanno tuti gli altri Paesi del mondo, ma invece niente, nisba, nada, zip!

Living in  Oborisivion (eh!?)

Quello che abbiamo avuto è un film nel 2011, molto bello nel
suo cercare di prendere di mira i cinepanettoni e quella “Kasta” Berlusconiana
che in quel periodo andava per la maggiore, ma il risultato finale non ha la stessa
forza della serie tv, forse perché ha fatto l’errore di lasciare troppi personaggi
sullo sfondo, quando invece sul piccolo schermo, era proprio il gruppo a
rendere “Boris” qualcosa di speciale, purtroppo irripetibile come un
pesce rosso nella sua vaschetta, un caso solitario e isolato.

Se mai uscisse, successo garantito al limone in uno strambo Paese a forma di scarpa.

Evito di raccontare dettagli, momenti più riusciti e gag più
divertenti, perché tanto avremmo modo di scatenarci nella sezione commenti, ci
tengo solo a sottolineare quando “Boris” sia stato una tempesta perfetta irripetibile,
con il suo mettere alla berlina una televisione fatta tenendo conto delle
amichette dei politici oppure dei risultati delle elezioni, ha davvero
raccontato usi e (pessimi) costumi di uno strambo Paese a forma di scarpa dove
un “Don Matteo” o un “Montalbano” qualunque, faranno sempre più ascolti di
qualunque altra serie televisiva Yankee girata con attori provenienti da
Hollywood e gazzilioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti spirati.

Sono sicuro che Paolo Sorrentino (che compare nella parte di
sé stesso in un episodio) potrebbe raccontarci di tutte le volte in cui è stato
scambiato per Matteo Garrone proprio come accade in “Boris”, quindi si ride con
questa serie, si ride tantissimo ma nella tradizione migliore Italiana, quella
dei primi film di Carlo Verdone o di Monicelli, spesso è un riso amaro. Forse
la verità stava del delirante (ma geniale) monologo di uno dei tre
sceneggiatori, quella “locura” è davvero quello che rappresenta meglio l’Italia
e i suoi abitanti, un Paese di santi, poeti e teledipendenti.

Il più grande monologo di sempre? Forse.

“Boris” merita di essere visto e rivisto ancora oggi, anche
se ormai le sue frasi e i suoi tormentoni sono parte della cultura popolare,
perché proprio come le grandi parodie ha saputo far ridere certo, ma anche dire
la verità meglio di tutti. Guardando “Boris” ancora oggi, emerge la
consapevolezza che in uno strambo Paese a forma di scarpa no, una nuova
televisione non è possibile perché la merda ha vinto, quindi…

Con questo tocco di classe, anche per oggi il post lo abbiamo portato a casa.
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