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Boyz n the Hood – strade violente (1991): c’era una volta nel South Central, L.A.

Tra tutti i registi dimenticati e poco considerati, John
Singleton gioca in un campionato tutto suo, nemmeno la sua prematura dipartita
gli ha concesso un minimo di visibilità o quella rivalutazione, anche piccola
che si meriterebbe.
Forse perché anche lui è stato un po’ maledetto dalla
sfiga di un esordio cinematografico fulminante, oppure semplicemente per il
fatto che era nero, chi lo sa. Sta di fatto che non potevo chiudere l’anno
senza ricordare i primi trent’anni del suo film d’esordio, “Boyz n the Hood” è
attuale oggi più che mai, perché sinceri, schietti e crudi come Singleton qui,
lo sono stati davvero in pochi, forse nessuno.

Per certi versi “Boyz n the Hood” ha tutti i difetti del
film d’esordio, ha dei passaggi in cui si vede che John Singleton mancava
ancora di esperienza, di qualche chilometro come narratore, ma più onesto e con il cuore in mano di così non è stato mai
nessuno, tanto da permetterci facilmente di chiudere un occhio davanti a questi
piccoli difetti. Quando dico che come John Singleton nessuno mai, se non volete
credere a me che sono solo il vostro amichevole Cassidy in the hood di quartiere, credete allora
all’Accademy, che fece di Singleton il più giovane nominato agli Oscar in due
categorie chiave, miglior film e miglior regia a soli ventiquattro anni,
battendo per gioventù un signore che prima di lui deteneva questo record, un
tale di nome Orson Welles (storia vera). Per questo e per tutte le ragioni che
vedremo qui sotto, sono felice di dare il benvenuto al film di Singleton in una
categoria meno blasonata ma più sentita, quella dei Classidy!

“Boyz n the Hood” per certi versi è due film in uno, da
una parte racconta la genesi di un ragazzo di colore dall’altra di un nero del
ghetto, nel senso di come potrebbe intenderla un bianco magari non propriamente
democratico, uno di quelli che le persone di colore non le chiama “neri”, giusto
per capirci. Ma sarebbe stato facilissimo giocarsela alla Spike Lee puntando il dito contro l’uomo bianco, in “Boyz n the
Hood” il razzismo è strutturale, ci viene raccontato perfettamente che il
ghetto dei protagonisti è prima di tutto culturale prima di essere un luogo
fisico e opprimente, dove gli elicotteri in volo sulle teste dei protagonisti
sono la colonna sonora costante.

Per Carpenter
gli elicotteri a Los Angeles erano una minaccia, per Altman in “America oggi” (1993)
quasi un ronzante annuncio dei disastri dietro l’angolo, ma per John Singleton,
quindi per un nero del South Central, sono la colonna sonora che accompagna ogni
loro azione, un “memento mori” costante che Singleton sottolinea in absentia, con brillante utilizzo del
montaggio sonoro, come spettatore ti rendi conto di esserti a tua volta
assuefatto a quel minaccioso ronzio, solo quando uno dei personaggi apre e
chiude la porta di casa, attenuato il rumore di fondo. Benvenuti nel ghetto!
Saluti al vecchio Orson Welles dal profondo del South Central: lo stile di John Singleton.

“Boyz n the Hood” parla di criminalità, vita tra spaccio
e troppe pistole, il problema delle gentrificazione prima che questa parola
fosse popolare e lo fa con un solo bianco mal contato in giro (un poliziotto
che compare nel mucchio), la prima parte del film è la formazione di una
canaglia e del suo migliore amico, che come da tradizione sono due facce della
stessa medaglia: uno nero che cerca di seguire le regole, l’altro prototipo del “Gangsta”, in mezzo il terzo della compagna, la promessa dello sport, che dal ghetto ne ha salvato qualcuno e persi tanti.
La gavetta che ti permette di diventare la più tosta autista di sempre.

Infatti la storia inizia in un 1984 che non ha nulla
dell’imperante malinconia per il decennio dei jeans a vita alta, il
protagonista dal nome più bello del mondo, Tré Styles ha dieci anni e vive ad Inglewood,
dove una volta giocavano i Lakers prima di trasferirsi in un quartiere più
tranquillo, che poi è quello che vorrebbe per Tré anche sua madre Reva (Angela
Bassett con i soliti tredici chili di cazzimma che la contraddistinguono), ma
questa non è una storia tipo Willy il principe di Bel-Air, anche se il ragazzo
viene spedito dal padre che in effetti lo definisce un principe, ma solo perché
lui deve essere considerato il Re. Mi riferisco ad un padre che vive nel
South Central, Jason “Furious” Styles e forse mi sbagliavo prima, è il
personaggio interpretato da un Laurence Fishburne ancora magro quello con il
nome più figo di tutti!
“Io te lo dico, in questo quartiere se ti offrono delle pastiglie, non ti risvegli in Matrix domani mattina”

Le lezioni di vita da parte di papà sono toste e non si
sprecano («Ogni stupido con un cazzo può fare un figlio, solo un uomo può
crescerlo») ed è qui che entra in scena l’amico del bravo ragazzo Tré, quello
che cerca di rigare dritto malgrado i proiettili senza nome che puntualmente
partono a caso nel South Central.
Il contraltare del protagonista è Darin “Doughboy” Baker,
il cattivo ragazzo, quello senza una guida vera destinato a finire allo sbando,
perché la prima parte di “Boyz n the Hood” è neorealismo nel ghetto, è “Stand
by Me – Ricordo di un’estate” (1986) diretto da un nero incazzato del South
Central, con tanto di camminata lungo i binari da seguire che termina a suo modo anche qui con un
cadavere ritrovato, quando la prima parte del film termina, prima del balzo in
avanti della storia di sette anni, la malinconia ha già ammantato tutta la storia.

Sette anni dopo Tré è cresciuto e fatto a forma di un Cuba Gooding Jr. palesemente troppo vecchio per il ruolo, ma scelto per la parte
anche perché è stato l’unico a presentarsi al provino dando il via alla sua
fortunata carriera (storia vera). Qui mister bravo ragazzo ritrova l’amico
Doughboy uscito di galera e unitosi a famigerati Crip, interpretato per altro
da Ice Cube, padrino del Gangsta Rap
qui al suo esordio come attore, di fatto interpretando la sua vita prima di sfondare con la musica.

Dimenticatevi le finzioni del film sugli N.W.A. visto che uno di questi tre li ha fondati.

La seconda parte di “Boyz n the Hood” è quella che
piaceva ai miei amici appassionati di Hip Hop, e pure io che ho sempre avuto
ascolti molto differenti (e decisamente più “bianchi”) so bene che nessuno
meglio di John Singleton ci ha portati tutti nel ghetto, facendoci calare in
una realtà dove puoi essere un bravo ragazzo nero se sai stare al tuo posto
oppure destinato a finire in cronaca nera, anche se ve lo dico, in questa
seconda parte del film è meglio se non vi affezionate troppo a nessuno perché i
personaggi muoiono peggio che in Giocotrono, in tal senso non esiste rappresentazione migliore della vita nel South
Central di questa.

Un posto che come cantava guarda caso Ice Cube, una
giornata buona è qualcosa di strano, se da mattina a sera non hai dovuto
mettere mano al tuo AK, allora puoi dire che è stata una buona giornata. In
questo realismo che non fa sconti a nessuno, John Singleton le ha indovinate
tutte: la profezia sulla futura panza di Fishburne, le carriere di attori di Gooding
Jr. e Ice Cube, una fotografia vivida della vita nel ghetto. Quando dice che alcune incertezze in fase di regia si notano ma
sono perdonabili, mi riferisco a quella pisciata estemporanea ma fondamentale per i destini dei personaggi,
che è del tutto realistica ma nel film vista in quel momento, risulta un po’
troppo “finta”, forse perché da spettatori, siamo abituati a narrazioni avvolte
nel pluriball e meno affilate.
Stand by Me – ricordo di un’estate nel South Central.

Sta di fatto che nessuno ha saputo essere così
brutalmente onesto con il suo film d’esordio, un titolo che merita di essere
festeggiato in occasione dei suoi primi trent’anni dall’uscita perché è un film attuale più che mai,
nessuno ha iniziato la sua filmografia in modo così dolente e sincero, un po’
come a voler ringhiare a denti stretti: «Io sono John Singleton e vengo da qui, questa è la mia vita e come
mia di tanti altri come me.»

Today, I diddn’t even havvta use my AK
I gotta say it was a good day
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