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Breakfast Club (1985): con affetto, uno dei più iconici film di sempre

Padre Tempo continuerà a scorrere inesorabile sgretolando tutto al tuo passaggio, solo alcuni fattori resteranno eternamente immutati, uno di questi il fatto che ogni generazione precedente non capirà mai quella successiva, i giovani, gli adolescenti, saranno sempre strambi, fragili perché hanno avuto tutto, ascolteranno della musica di merda rispetto a quella che ascoltavamo “noi” e andranno in giro vestiti e pettinati peggio.

L’altro dettaglio che resterà eterno è il modo in cui John Hughes sia riuscito a congelare il tempo, o meglio, quella sensazione attraverso cui siamo passati tutti durante l’adolescenza, in un film che non esito a definire anche per questo motivo immortale, con il suo piccolo “Club dei perdenti” (per dirla alla Stephen King), Hughes ha fermato Padre Tempo, che in quanto più grande critico cinematografico del mondo, gli ha riconosciuto tutti i suoi meriti, io non posso che accodarmi con il doveroso logo dei Classidy.

Se titoli come “Gioventù bruciata” (1955) e “I 400 colpi” (1959) sono universalmente e giustamente ricordati come capisaldi del cinema “alto”, sono anche quelli che hanno congelato nel tempo e su pellicola per sempre icone in tumulto adolescenziale come James Dean o il protagonista del film di Truffaut. Noi bambini degli anni ’80 invece abbiamo avuto, Sporty, Saccarina, Aquila o John Bender a seconda dei vostri gusti o dei vostri trascorsi personali, anche se come in una riuscita gag di “How I met your mother”, quest’ultimo è sempre stato in vantaggio, il Wolverine del gruppo ci ricorda che tutti amano i ribelli e i disallineati, anche per questo “Breakfast Club” è un titolo fondamentale.

John Hughes aveva scritto il copione in pochissimo tempo, come da sua abitudine visto che è stato uno degli autori più prolifici mai visti all’opera nella settima arte, passato dal suo testone alla carta nel corso del 1982 mentre era alle prese con altri mille lavori in corso, tra cui i vari seguiti per “National Lampoon’s. Quando Molly Ringwald, icona del decennio delle spalline larghe e i jeans a vita alta lesse il copione, lo considerò il più brillante mai letto, talmente riuscito che Hughes, geniale ma schivo, se lo tenne nel cassetto in attesa di diventare un regista più pronto, da qui il suo esordio “Sixteen Candles – Un compleanno da ricordare” un titolo diventato di culto ma più canonico rispetto ai film adolescenziali che Hughes con il sto stile, ha rivoltato come un calzino.

Ci siamo tutti immedesimati in uno di loro, o forse, in tutti quanti.

Mentre “Sixteen Candles” era ancora nelle sale, le riprese di “The Breakfast Club” (da noi senza l’articolo) cominciarono il 28 marzo del 1984, il giorno della punizione del gruppo dei protagonisti, Molly Ringwald sognava il ruolo di Allison, assegnato d’ufficio ad Ally Sheedy già vista in Wargames. In compenso Ringwald e Anthony Michael Hall si sono ritrovati dopo aver recitato insieme nel primo film da regista di Hughes, il secondo poi, si è portato madre e sorella minore per coprire gli stessi ruoli nel film, mentre il padre del suo personaggio, Brian, è ricoperto dal regista in un veloce cameo (storia vera).

Emilio Estevez, figlio di cotanto padre, tenuto a battesimo da Coppola e lanciato da Repo Man, battè la concorrenza di Nicolas Cage che io avrei voluto nei panni di Bender, ma che semplicemente chiese troppi soldi, si vede che già collezionava fumetti allora. Era così nato il “Brat Pack”, la meglio gioventù degli anni ’80, tenuta sotto l’ala protettiva di Hughes e destinata a prendersi il decennio, con il loro nome storpiatura del “Rat Pack” di Sinatra e compagni, insomma, gli eroi della generazione precedente.

«Oh cacchio la premessa di Cassidy non è ancora finita!»

Lanciato dalla Universal con un trailer tutto ritmato, montato sulle note di un pezzo di Chuck Berry, forse per mettersi in scia ad un altro filmetto abbastanza famoso del 1985, il tentativo disperato di vendere al pubblico un film con cinque adolescenti, un bidello e un preside (impersonato da Paul Gleason quello odioso degli anni ’80, che sia alle prese con il rapporto sulle arance o al palazzo della Nakatomi) tutti bloccati nella biblioteca del liceo Shermer, un sabato pomeriggio.

La versione Rock ‘n’ Roll del nostrano «Sacchi? Tre!»

John Hughes non prende prigionieri (a parte i ragazzi in punizione) e inizia il film come lo finirà, sulle note di “Don’t You Forget About Me” dei Simple Minds e le parole del tema di almeno mille parole “Chi sono io?”, che è il compito assegnato ai ragazzi dall’odioso preside Vernon. L’entrata in scena dei protagonisti infrange – letteralmente – la citazione alle parole di David Bowie dal brano “Changes”, una dichiarazione d’intenti molto riuscita da parte del geniale regista di Chicago, che prosegue con il piglio giusto, non di certo quello di uno che si apprestava a dirigere il suo secondo film.

Se inizi con il Duca Bianco, devi mantenere alto il livello, in linea di massima, missione compiuta.

L’entrata in scena dei ragazzi dice già molto di loro, Claire in punizione per aver preferito lo shopping alla scuola, Andy pressato dal padre che vede anche la punizione del sabato come una competizione da vincere, Brian sotto il costante fuoco di fila per la sua media dei voti e poi Allison, scaricata in corsa dai genitori nemmeno fosse un sacco della monnezza, per non parlare di John Bender, per lui il sabato di punizione è un giorno come altri, ormai abbonato.

Bender, icona di stile, maestro di classe.

Il film si gioca un’unità di luogo ben rappresentata dalla biblioteca, una manciata di banchi circondati da una balconata all’ombra di una statua (che finirà imbrattata dal contenuto del pranzo di Allison), già dal modo in cui si siedono i ragazzi capiamo quasi tutto del loro carattere, con Sporty e Saccarina, i due socialmente in vista della scola vicini al primo banco, Allison ultima e di spalle e Bender che caccia Brian dal suo posto, così, per il gusto di farlo.

“Breakfast Club” anche a quarant’anni dalla sua uscita, resta un manuale su come si debbano scrivere grandi dialoghi, su come ogni dettaglio (anche la vite di una porta) contribuisca a creare un film impeccabile, così come la costruzione dei suoi personaggi, Hughes, schivo di natura, amava considerarsi più che un regista, parte di un gruppo di lavoro, qui con i suoi giovani protagonista ha saputo fermare per sempre nel tempo un momento di tale sincerità da risultare ancora disarmante. Sarà anche vero che “Breakfast Club” non è l’esempio perfetto del tipico film di John Hughes, il cui cinema ha sempre saputo spaziare molto di più, eppure resta la somma di tutta la sua idea di raccontare una storia, talmente riuscito ed iconico da nobilitare un intero genere, quello dei drammi adolescenziali, in un modo che ancora oggi, a quarant’anni dalla sua uscita, altri film e serie tv della stessa tipologia (ma non solo) stanno ancora pescando a piene mani da questo perfetto esempio di grande scrittura e iconografia anni ’80 reale, non al sapore di anni ’80 come va fin troppo di moda ancora oggi, citando l’espressione coniata da Leo Ortolani.

Divertente finché non parte il filo e poi devi infilarlo nel cappuccio.

Nel mezzo dell’era reaganiana dell’edonismo a tutti i costi, questi ragazzi hanno l’ardire di essere rivoluzionari per davvero, John Bender sarà anche la scintilla, se non proprio il tritolo necessario a scuoterli – bellissima la scena in cui Claire lo scongiura di smetterla di auto flagellarsi, mentre il preside Vernon continua ad appioppargli una settimana dopo l’altra di punizioni – ma poi l’unità di luogo, anzi il non luogo della biblioteca, diventa una Casablanca (ma senza i nazisti, a parte Vernon), un porto franco dove lasciar cadere le convenzioni anche sociali, lunedì saremo di nuovo amici o quando mi vedrai nei corridoi, mi darai addosso perché le convenzioni di quella versione in piccolo della società occidentale che è il liceo lo richiedono?

Da qui scaturisce un momento di disarmante sincerità, certo, condito da momenti musicali, ballettini, cannette e una corsa tra i corridoi sulle note dei Wang Chung, perché tutto questo fa parte della convenzione dei drammi adolescenziali del cinema anni ’80 che Hughes allo stesso tempo ha contrinuito a creare e a ridefinire, perché l’unico altro film che somiglia davvero a “Breakfast Club” è suo fratello maggiore, uscito due anni prima, quello che radunava anche lì la meglio gioventù disponibile, più grandicelli del “Brat Pack” ma comunque riuniti per un capolavoro estremamente parlato come Il grande freddo.

Il fratello minore di un capolavoro, una sorta di “Il piccolo freddo”.

Il film di Lawrence Kasdan richiede di essere visto in varie fasi della vita, più ti avvicini a quella dei protagonisti, più è facile capirli o capirli ancora meglio, “Breakfast Club” invece inquadra così bene quel sentimento serpeggiante nella testa degli adolescenti (e nella poetica di John Hughes tutta) quel sinistro: diventeremo come i nostri genitori? Ben riassunto nella frase «Quando uno cresce, il suo cuore muore», quello stesso cuore a cui Hughes concede di fermare il tempo, come il sabato al liceo in un giorno di punizione, per ricordare a tutti cosa provavamo noi quando qualcun altro, il Vernon della situazione, ci vedeva come un genio, un atleta, un pazzo, una principessa o un criminale.

Il finale di “Breakfast Club” è liberatorio (letteralmente, i ragazzi possono finalmente uscire) ma non consolatorio, quasi un ammonimento a dare valore a quelle ore in cui la vita dei personaggi si è fermata e insieme, hanno fatto emergere riflessioni altrimenti soffocate dalla convezioni e dalla società. Lo scambio di coppie sarà anche una concessione in parte al canone della tipologia di film a cui questo gioiello appartiene, ma fino ad un certo punto, nessuna rivincita dei nerd qui, non per Brian ad esempio, ma le altre due coppie che si formano mettono in chiaro che la lunga tirata di Emilio Estevez e la confessione sull’imbranato tentativo di suicidio di Brian forse hanno davvero lasciato qualcosa.

Iniziano a ballare a caso e comunque è un Classido, questo qualcosa vorrà pur dire no?

Di sicuro a lasciare qualcosa è stato “The Breakfast Club” capace di portare a casa quarantacinque milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidi, ah no, presidenti spirati, in un’annata, come quella del 1985, leggerissimamente piena di icone che ancora oggi scaldano il cuore del pubblico. Lungimiranti le parole del genietto di Chicago, pronunciate da Hughes prima di proiettare il suo film in un cinema di Westwood in California: «Questo è un film che rimarrà in giro per molto tempo. E anche se non dovesse diventare fonte di guadagno, sappiate che l’importante è aver documentato una piccola parentesi della vita che normalmente non viene mai mostrata sullo schermo.», capite da soli che un film di tale portata non poteva che concludersi come è iniziato, tanto indimenticabile da dover essere in dovere di ribadire il concetto chiave, “Don’t You Forget About Me”, impossibile farlo, basta dire che lo stesso titolo del film è diventato un modo di dire, basta dire che lo utilizzavano anche MJ e compagni (storia vera)

Potrei passare la giornata ad elencare quanti film e serie tv si sono ritrovate a citare apertamente questa bomba H sganciata sulla cultura popolare che risponde al titolo di “Breakfast Club”, andiamo da Chuck Palahniuk a TUTTE le vostre serie adolescenziali e non del cuore, basta dire che Matt Groening, papà dei Simpson, ha pescato da John Bender la mitica «Eat my shorts!» (da noi «Ciucciati il calzino!») diventata frase simbolo di Bart mentre il cognome del personaggio, è finito al robot alcolista della serie gemella “Futurama”.

Bart SImpson ha preso appunti.

Ma “Breakfast Club” è iconico anche da prima del suo iniziale fotogramma d’apertura, fin dalla locandina, firmata dall’allora emergente Annie Leibovitz, oggi tra le più affermate e famose fotografe americane, capace di cogliere in un solo scatto l’essenza del film, con Molly Ringwald, Emilio Estevez, Judd Nelson, Anthony Michael Hall e Ally Sheedy, stretti in un piramidale abbraccio, in una posa di sfida che più che la locandina di un film, sembra la copertina di un album Rock, e ad oggi, a quarant’anni distanza dall’uscita di questa pietra miliare, la singola locandina più citata ed omaggiata della storia del cinema, mica male per un branco di perdenti in punizione il sabato pomeriggio no?

Bender nella parte di Cassidy, che arriva alla fine di un post su uno dei cult più di culto di sempre.
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