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Brightburn (2019): Richard Donner perdonali!

Quali sono i due generi cinematografici che al momento
incassano per davvero, nelle sale cinematografiche nell’anno di grazia 2019?
Facile: gli horror a basso budget e i film di supereroi. Era inevitabile che
qualcuno prima o poi facesse l’obbligatorio due più due.

“Brightburn” in uno strambo Paese a forma di scarpa di mia e
vostra conoscenza ha ricevuto due regalini niente male: il primo un inutile
sottotitolo da sbadigli come “L’angelo del male”, l’altro una distribuzione in
sala sforbiciato di un paio di scene, pochi secondi da cui sono scomparsi i due
momenti più grondanti sangue del film. Se va bene si tratta di un minuto non
consecutivo che, però, si nota parecchio e denota un andazzo ben più pauroso del
film stesso. Cari amici della distribuzione, se decido di spendere dei soldi
per andare in sala a vedere un film horror, che so tipo La casa di Jack (tanto per stare in tema di film sforbiciati
malamente) potrò vedere le scene splatter per cui ho pagato? Ho capito che un
visto censura vietato ai minori lascerebbe fuori dalla sala quella porzione di
pubblico che al cinema ci va spesso (i ragazzi giovani), ma poi non lamentatevi
se il pubblico finisce per guardarseli a casina sua i film e no, non mi
riferisco a Netflix. Concluso il doveroso pistolotto passiamo al film.

Una pellicola che si vende da sola, ammettiamolo, quando il
soggetto è facile da riassumere e così intrigante, non ti serve davvero altro,
quello di “Brightburn” non è niente male: le origini di Superman rivisitate in
chiave horror. Eddài su, chi non vorrebbe vederlo un film così?

Kansas, lo stato americano con più alta percentuale di precipitazioni di bambini spaziali.

Parliamoci chiaro: per i lettori di fumetti non è certo una
novità assoluta, ma bisogna dire che nel 2019, dopo un ventennio di “Cinecomics”
abbiamo visto approdare al cinema quasi tutto, tranne i mitici “What If…?” della
Marvel Comics e il loro equivalente della Distinta Concorrenza, gli “Elseworlds”.
Si tratta di varianti rispetto alla storia classica che tutti conosciamo (cosa
sarebbe successo che Peter Parker non fosse stato morso dal ragno radioattivo?),
storie autoconclusive di questo genere. Parliamo di cosette come “Superman: A
Nation Divided” (1998) in cui Big Blue finiva per essere un soldato durante la
guerra civile americana, oppure un perfetto supereroe inglese, nella storia
scritta dal Monty Python John Cleese
intitolata “Superman: True Brit” (2004). Ancora meglio? Superman: Red Son dove, invece di precipitare nell’americano
Kansas, la capsula atterrava nella Russia comunista, giusto per ricordarci che
in fondo Stalin, in russo significa “Uomo d’acciaio” (storia vera).

Ora che ho scoperto che esiste un Superman Brexit scritto da
John Cleese, non riesco a pensare ad altro!

Non c’è molto da stupirsi nello scoprire che l’eminenza
grigia dietro a quello che potrebbe essere il primo “Elseworlds” cinematografico
è proprio un fanatico di fumetti come James Gunn, uno sempre in equilibrio tra
Troma e Marvel che qui ritroviamo nel ruolo di produttore e di “Padrino” dell’operazione.
Da alcuni suoi film arrivano gli attori e dalla sua famiglia gli
sceneggiatori, Brian e Mark Gunn, rispettivamente fratello e cugino del regista
di Guardiani della galassia. Alla
regia troviamo David Yarovesky, autore di qualche video musicale (anche per i
Korn) e regista di “The Hive” (2014) in cui recitava… Sean Gunn! Fratello di
James. No, solo per capirci: quanti altri Gunn ci sono? Solo per capire in quanti
altri film devo vederli spuntare.

Tori Breyer (Elizabeth Banks) e Kyle Breyer (David Denman) sono
i coniugi Kent della situazione, hanno una grande fattoria a Brightburn da
qualche parte nel Kansas, ma non riescono a concepire un figlio. Problema
risolto dopo un minuto di film quando qualcosa precipita sulla loro proprietà e
senza nemmeno bisogno di mostrarci bambini dentro capsule aliene (così teniamo basso il budget), nella loro vita
arriva il piccolo Brandon Breyer, un’allitterazione nel nome come da tradizione
di ogni buon supereroe che si rispetti e dodici anni da figlio ideale, almeno finché
qualcosa non cambia.

“Si veste di nero, si fa una maschera e dice che è passato al Lato Oscuro, ma secondo me è solo l’adolescenza!” (Quasi-cit.)

Non sono riuscito a trovare informazioni precise sul budget
di “Brightburn”, si parla di un costo variabile dai sei a dodici milioni di
fogli verdi, con sopra le facce di svariati presidenti defunti, sta di fatto che
con ventiquattro milioni già incassati, è chiaro che lo spirito dell’operazione
sia più quella di un horror alla Jason Blum piuttosto che il vostro classico –
e costoso – film di supereroi. Nella prima parte “Brightburn” ricalca le
dinamiche che tutti conosciamo sulle origini di Superman, non importa se voi
siate accaniti lettori dei fumetti di Big Blue, se abbiate visto giusto qualche
episodio di “Smallville” in vita vostra, oppure abbiate passato ore a vedere
tutti i film dedicati all’Uomo d’acciaio, tanto il modello di riferimento resta Richard Donner, se non fosse per il budget
modesto, sembrerebbe di stare guardando un remake del suo Superman del 1978.

La svolta arriva in un modo piuttosto confuso, forse un
messaggio dalla sua vecchia navicella chiusa sotto chiave nel granaio, forse un
contatto con il suo pianeta natale (Brian e Mark Gunn fanno di tutto per non
specificarlo), ma Brandon Breyer diventa improvvisamente sinistro, passa le
giornate a disegnare uno strano logo stilizzato ricavato dalla doppia “B” del
suo nome (che ritroviamo anche nella cittadina di Brightburn ora che ci penso), senza aver mai dimostrato interesse per i super eroi, si cuce un mantellino e una maschera e decide che è il momento di usare i suoi
poteri per “Prendere il mondo”, come gli suggeriscono le voci, per farlo si
lascia dietro un numero ragguardevole di morti. Brutto? No di certo trattandosi
di un film, peccato che qui inizino i problemi.

Se la “S” sta per Superman, la doppia “B” cosa sarebbe? Brigitte Bardot?

Avete presente quando in un film dell’orrore i protagonisti
dicono e fanno cose cretine? Ecco, “Brightburn” è uno di quelli. Ora voglio
dire, cari coniugi Breyer, lo sapete che il vostro bambino non è proprio nato
nel modo canonico, altrimenti non fareste di tutto per tenere segreta la sua
navicella chiusa nel granaio, se per caso questo nel giro di poco tempo, inizia
a cambiare comportamento, a fratturare le mani alle compagne di scuola, se le
galline della vostra fattoria improvvisamente muoiono (male) dopo essere state
fissate in modo sinistro da Brandon nel cuore della notte… Ma due domande ve le
volete fare cazzarola!?

“Va bene avere appetito alla tua età, ma la forchetta no dai”

No, tutto il tempo a ripetersi che è colpa della pubertà,
che Brandon sta cambiando, sembra la battuta di Ortolani in “Star Rats” su
Piccettino passato al lato Oscuro, eddài! Elizabeth Banks fa un ottimo lavoro,
ma il secondo atto di “Brightburn” è un buco nero dalla quale non si esce, i
coniugi Breyer non hanno una caratterizzazione che non sia quella di due poveri
scemi che guardano il figlio con gli “Occhi dell’amore”. Per assurdo, se il film
li avesse rappresentanti come due contadinacci del Kansas rurale, avremmo
almeno potuto giustificarli grazie alla loro ignoranza. Ma vedere due perfetti
genitori ignorare tutti i segnali in questo modo, semplicemente ti tira fuori
dalla storia, sospendendo l’incredulità e rendendo la trama meno coinvolgente di quello che avrebbe potuto.

“Chissà se riuscirò a rifilare anche te al vecchio J.D.

Sì, perché in fin dei conti “Brightburn” non è un brutto
film, ma è uno di quelli che gioca in difesa, si accontenta di essere
esattamente quello che tutti si aspettavano da lui, la storia di un Superman
cattivo, anzi, a ben guardarlo, anche meno. Perché almeno nei “What If…?” della
Marvel e negli “Elseworlds” della Distinta Concorrenza, arriva sempre il
momento in cui il protagonista fa una scelta diversa da quella che tutti
conosciamo e fa cambiare la sua storia, qui Brandon Breyer non lo fa,
va a letto che è un bravo bambino e si sveglia assassino e potenziale genocida
di massa con super poteri perché sì. Forse perché ne era semplicemente
destinato, perché era “L’angelo del male” dell’inutile sottotitolo italiano, ma in
pratica è impossibile non pensare che da Superman, questo film decida di colpo di diventare un altro film di Richard Donner, ovvero “Il presagio” (The Omen, 1976).
In questo senso, il giovane protagonista Jackson A. Dunn è molto più azzeccato come nuovo Damien, piuttosto che come Clark Kent malvagio, bisogna dirlo.

Da qui in poi “Brightburn” abbraccia l’etichetta di horror, che i poteri di Brandon siano di origine aliena oppure demoniaci poco importa,
perché tanto al film non interessa andare oltre la sua premessa iniziale, Brandon spunta ovunque uccidendo adulti senza
soluzione di continuità, sempre al netto della scene splatter che sono state sforbiciate
dal film senza pietà.

“Cercherò di lievitare, diciamo di svulazzare” (Cit.)

“Brightburn” prende un minimo di respiro nell’ultimo atto,
dove Brandon si scatena e il finale è davvero quello di un horror che strizza l’occhio
a “Il presagio” di Richard Donner, anche nell’ultima scena (e nei titoli di coda). Ma l’idea che mi sono fatto guardando il film è
che per gestire un soggetto così, senza nessuna volontà di approfondirlo per
andare oltre la sua premesse, allora tanto valeva trasformare il tutto in un
episodio della rediviva “The Twilight Zone”, bastava farlo durare 45 minuti anziché 90 e sarebbe stato perfetto per la rinata serie patrocinata da Jordan Peele, perché così non è il
piccolo Superman che diventa cattivo, ma più che altro un Damien con i super
poteri e un terzo dell’inventiva e del talento di Richard Donner.

Probabilmente per un pubblico a digiuno di “Elseworlds” e in
cerca di un horror che mantenga la sua premessa, potrà andare benissimo, ma a
vederlo così per me è stato più che altro lo spreco di un’idea sfiziosa,
applicato a fin troppi cliché da film horror. Capisco che nel 2019 i film che
incassano siano gli horror e quelli con le super calzamaglie, posso anche capire
che prendere come esempio il grande Richard Donner – uno che ha primeggiato in
entrambe le specialità – sulla carta sia una buona idea, ma se poi un soggetto
lo sfruttate in questo modo così misero e senza uno straccio di approfondimento,
no sul serio, un bell’episodio di “Ai confini della realtà” e siamo tutti
contenti, lasciate in pace Richard Donner!

Super(O)men.

Ah! Quasi dimenticavo: a causa del doppiaggio italiano,
oltre alle due scene più splatter del film, ci siamo persi anche la comparsata (solo
vocale) del mitico Michael Rooker, un’altra vecchia conoscenza di James Gunn.
No, sul serio, già sono pigro e mi smuovo dal mio divano a fatica, ma se questo
è il trattamento per certe pellicole, mandatele su Netflix oppure su Amazon
Prime senza pensarci due volte.

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