Lo dico sempre
che il Western è tutto tranne che morto come genere, mi fa molto piacere vedere che sempre più spesso il Rock ‘n Roll dei generi cinematografici si ritrova a fare comunella con l’altro mio genere del cuore: l’horror.
“Brimstone”, che
vuol dire zolfo, è anche il titolo giusto per un western sulfureo violento e
nerissimo, che al pari di Bone Tomahawk si gioca dei momenti quasi horror e al pari di The Hateful Eight e Jane got a gun offre il punto di vista femminile su un genere
considerato come il più maschile per eccellenza.
bravissima Dakota Fanning) è una levatrice muta che vive nel suo allegro
villaggio insieme al marito e alla famiglia. La ragazza è molto rispettata
dalla comunità, proprio per il suo talento nel far nascere i bambini, ma la
bionda inizia ad avvertire la puzza di Zolfo quando pare riconoscere l’altra
grande personalità rispettata nel villaggio, quella dello sfregiato reverendo (Guy
Pearce in gran spolvero) che con i suoi sermoni carichi di antico Testamento
tiene in pugno gli abitanti.
“Non mi va di stare a sentire un predicatore del cavolo che mi parla dell’inferno e del paradiso” (Cit.) |
Le cose vanno a
zampe all’aria quando Liz si trova costretta a fare una scelta difficile: salvare
la partoriente o il suo bambino dalla testa troppo grande? Al regista Martin
Koolhoven basta inquadrare un forcipe sporco di sangue per piazzare il primo
“Momento gulp!” del film.
tormentata di Liz fa incazzare due righe il padre del bambino morto durante il
travaglio e attira sulla ragazza l’odio della comunità, abilmente fomentata
dal predicatore, ma tra Liz e l’uomo di Chiesa ci sono dei trascorsi, le quasi
tre ore del film ci racconteranno quali sono.
detto Martin è un regista olandese che esordisce in un film
americano forte di una lunga filmografia in patria. Pronti via, decide subito
di affrontare di petto il genere yankee per eccellenza: il Western.
Questa locandina rende meglio l’idea, quella principale è un po’ ingannevole. |
Lo fa, però, con un
tocco oscuro, quasi gotico, tipico della tradizione di certa pittura fiamminga
e un gusto per la violenza applicata al Western, che il buon Martin ha
candidamente ammesso di aver imparato ad amare grazie gli spaghetti Western
italiani, cosa che si nota e non poco, perché se in Django non mancavano le orecchie mozzate, qui mutilazioni e
maltrattamenti non mancano, quindi sappiate che il “Momenti gulp!” abbondano
ed è anche la ragione per cui il film ha provocato così tante polemiche.
poi ogni film è una polemica: e le Ghostbusters donna non vanno bene e le Rossella Di Giovanni che veste all’Occidentale
non va bene… Marò che palle, abbiamo più polemiche che film tra un po’.
“Brimstone” è stato accusato di misoginia, di eccessiva violenza, di essere
eretico e pornografico, se escludiamo l’aggiotaggio, l’effetto serra e il furto
di cavalli è stato accusato della qualunque, cose che capitano se dai un film
così in pasto al pubblico della mostra del cinema di Venezia, dove il film è
stato presentato l’anno scorso.
Il party dopo la proiezione a Venezia? No. No ok è una scena del film (beh però sembrava!). |
“Brimstone” è un
film biblico, non per la durata, le quasi tre ore scorrono piuttosto in fretta,
è biblico nel ricordarci che la religione può essere utilizzata come un’arma,
uno strumento di terrore con cui i potenti hanno sempre (e continuano) a
controllare le masse e la storia insegna che le donne sono sempre state poste
nella condizione di chi le imposizioni, al massimo, le subisce.
delle chiavi di lettura mica male da sviscerare, ma non voglio rovinarvi la
sorpresa, sappiate solo che “Brimstone” è Biblico anche nella suddivisione in
quattro capitoli (Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo) che, in modo non lineare,
come si intuisce dall’ordine volutamente errato dei capitoli, narra in modo
esaustivo i trascorsi tra Liz e il Reverendo, in quello che, di fatto, è un
revenge movie, ma visto che sono in vena di etichette, potremmo quasi dire un
Weird West che mette alla berlina la religione e il patriarcato.
Guy Pearce nella sua migliore imitazione del Robert Mitchum di “La morte corre sul fiume”. |
L’uso della
narrazione in capitoli volutamente non cronologici, sono sicuro, provocherà
l’effetto collaterale che tanti finiranno ad utilizzare l’aggettivo
“Tarantiniano” per descrivere questo film, sarebbe una falsa pubblicità al
film e riduttivo nei confronti del piglio autoriale sfoggiato dal regista Martin
Koolhoven che dimostra di essere perfettamente a suo agio con generi,
tematiche ed atmosfera del film.
che sfociano in estremismo e in soprusi ai danni delle protagoniste, non sono
mai utilizzati da Koolhoven solo per fare clamore, anche se alcune torture sono
esagerate per motivi cinematografici, come la museruola che Anna (Carice van
Houten, la Melisandre di Giocotrono)
è costretta ad indossare, servono, comunque, a far arrivare forte e chiaro il
messaggio.
“Guarda il lato positivo, potresti vincere una gara di Cosplay di Bane”. |
Se da una parte
abbiamo una grande interpretazione maschile, con Guy Pearce che riempie la
scena e risulta minaccioso ogni volta che compare, i personaggi femminili sono
talmente ben scritti e ben recitati da risultare credibili, ma anche il cuore
della pellicola.
davvero bravissima, dopo averla vista in 600 film interpretati da bambina, mi
ero pure rotto di lei, c’è stato un periodo in cui era ovunque,
qui si rilancia grazie ad un prova maiuscola, non potendo parlare per ragioni
di trama, riesce solo sgranando gli occhi a far percepire tutta la gamma delle
emozioni che la sua Liz attraversa e anche grazie alla sua prova, il suo
personaggio ha orgoglio e fierezza anche nei momenti peggiori.
Come comunicare solamente cacciando gli occhi fuori dalla testa. |
Menzione speciale
alla bravissima Carla Juri, la sua Elizabeth Brundy è un personaggio frizzante
e pieno di grinta, in parte secondaria rispetto alla storia, ci si
affeziona anche a lei, non avevo mai visto nessun film con questa attrice, ma
devo dire che qui è stata bravissima, spero lo sarà anche nel “Sequel di cui
nessuno sente il bisogno”, meglio noto come “Blade Runner 2049”.
azzeccato il modo in cui Martin Koolhoven ha utilizzato Kit Harington nel film,
l’attore reso celebre per il ruolo di Giosnò in Giocotrono, qui compare come il pistolero solitario, lo straniero
(quasi) senza nome che è un archetipo del cinema Western. Ecco, dico solo che
la sua trionfale entrata in scena e la conclusione dell’arco narrativo del
personaggio, mi hanno fatto pensare a certe scelte di casting di quel provocatore
nato che è Lars Von Trier, non vi rivelo altro per non rovinarvi la visione.
Voi lo vedete così pensando a Giosnò, poi guardatevi il film che ne riparliamo. |
A proposito di
archi narrativi, quello di Liz si conclude, in maniera volutamente circolare,
con un film che riesce a mescolare i generi molto bene e allo stesso tempo a non
sembrare un santino femminista a tutti i costi, dettaglio non da poco nel
cinema di oggi.
atipico che riesce allo stesso tempo ad essere anche un horror atipico, un
ottimo esordio americano per Martin Koolhoven, oh! Scrivendo di The Salvation,
scherzavo su una possibile invasione di western diretti da registi provenienti
dalla Danimarca e dai Paesi Bassi, ma vuoi vedere che il boom degli “Smørrebrød
Western” non è poi così lontano?
Go and tell that midnight rider
Tell the rambler, the gambler, the back biter
Tell ‘em that God’s gonna cut ‘em down
Hey, non perdetevi il commento del Cumbrugliume, anzi vado a leggerlo anche io!