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Bullet in the head (1990): la guerra rende tutti nemici (anche i migliori amici)

Ya brain dead, Ya gotta fuckin’ bullet in your head. Oggi iniziamo con un po’ di musica a tema, per caricarci, entrare nell’atmosfera e darvi al meglio il mio benvenuto al nuovo capitolo della rubrica… Who’s better, Woo’s best!

Trovo significativo che la rivoluzione cinematografica che da Hong Kong si è diffusa in tutto il mondo, cambiando per sempre le regole dei film d’azione, sia durata una manciata di anni, come del resto molte rivoluzioni e sia stata idealmente soffocata da una guerra, anzi più d’una.

La prima, la “faida” tra i due ex colleghi Tsui Hark e John Woo, i principali fautori della nascita del filone noto come heroic Bloodshed, che proprio sul finire degli anni ’80 e all’inizio dei ’90, hanno idealmente concluso l’epoca da loro stessi iniziata a colpi di dissidi e “divergenze creative”, prima sul set di A better tomorrow II e poi giù fino al definitivo strappo. Infatti anche “Bullet in the head” come The Killer, è nato come sorta di risposta di Woo al prequel raccontato sullo sfondo della guerra del Vietnam diretto da Tsui Hark ovvero A better tomorrow III.

Problema: senza la casa di produzione di Tsui Hark, esattamente come per The Killer, il genietto di Hong Kong ha dovuto sudare sette camicie a trovare fondi con la sua John Woo Film Productions, per un film a detta del regista, fortemente ispirato alla sua reazione ai fatti di Piazza Tiananmen a Pechino, e proprio per questo, non molto amato in patria alla sua uscita, forse perché i nervi erano ancora parecchio scoperti per un film comunque disilluso come questo.

La guerra del cittadino Joe John.

Poco male, d’altra parte il preverbio recita che nessuno è profeta in patria no? Il successo dei film di John Woo è stato immediato, motivo per cui è stato coinvolto in operazioni come Just Heros, ma visto che Hong Kong è stata il ponte che ha collegato oriente ed occidente, per una volta è stata da questa parte del globo che abbiamo capito al volo che insieme a The Killer, proprio questo violentissimo e disilluso “Bullet in the head” rappresenta ancora oggi uno dei migliori film di John Woo, quindi senza ombra di dubbio un Classido!

John Woo ha spesso paragonato la travagliata produzione di “Bullet in the head” alla sua personalissima versione di “Apocalypse Now” (1979) di Coppola, un film girato tra gli esterni della Thailandia ed alcuni interni di Hong Kong. Idealmente i due fratelli di cinema, divisi da dissidi creativi, uno con A better tomorrow III e l’altro con “Bullet in the head” hanno messo la parola fine agli anni ’80 e con loro anche al filone dell’heroic bloodshed, perché con la guerra di mezzo, l’onore, tipico dei moderni samurai di Woo non può che finire con la faccia nel fango. L’ultimo baluardo dell’umanità per il regista, resta il concetto di yichi, la lealtà personale, anche se i personaggi di “Bullet in the head” non hanno poi molto in comune con i vari Mark Gor oppure Jeffrey, ma restano fedeli a quello che per John Woo è un valore imprescindibile per i suoi (anti)eroi. Infatti Bullet in the head” è un film bellissimo per tanti motivi, il primo, il suo spogliare la trama di quell’amicizia virile che è sempre stata un punto chiave della produzione del regista, per concentrarsi sull’amicizia e basta, quella in cui tutti possiamo riconoscerci e che fa di “Bullet in the head” un titolo universale, malgrado gli anni sul groppone o la distanza culturale (e geografica) da Hong Kong.

Il regista sul set a spiegare a tutti come mettere l’amplificatore del dramma e dell’azione su undici.

“Bullet in the head” fa un salto indietro nel tempo all’anno 1967, per una storia, proprio come A better tomorrow III, a cavallo tra Hong Kong e Saigon. In quanto occidentali siamo abituati a pensare alla guerra del Vietnam in termini americani, anche perché i nostri cugini a stelle e strisce di Hollywood, si sono impegnati parecchio a raccontarla al cinema quella guerra, solo per fare qualche titolo enorme, “Platoon” (1986), seguito a ruota da “Full Metal Jacket” (1987), “Good Morning, Vietnam” (1987) e Vittime di Guerra, che però hanno in comune il fatto di raccontare quella che è la guerra del Vietnam per gli americani, basta dire che per i Vietnamiti, la vera guerra del Vietnam è stata quella combattuta contro i francesi, quindi cambiando il punto di vista cambia molto e dopo Abetter tomorrow III, abbiamo un’altra occasione per vedere la guerra raccontata dal punto di vista del porto dei fiori, questa volta però con lo stile di John Woo.

Risultato? Woo cambia molto del suo approccio, ma resta sempre il migliore del lotto di registi di Hong Kong, portando in scena una maturità che Tsui Hark – con tutto il rispetto – può solo sognarsi, visto che “Bullet in the head” è due film in uno. Hanno ragione quelli che lo hanno paragonato ed etichettato come la risposta orientale a “Il cacciatore” (1978), ma è anche vero che nel suo DNA il film di John Woo si porta tracce di un amorevole “come eravamo” che lo avvicina a titoli come American Graffiti oppure a Un Mercoledì da leoni, perché non so voi, ma io ho un debole per i film che cambiano genere e direzione in corso d’opera e il cambio di passo di “Bullet in the head” è uno dei più riusciti (e dolenti) che io ricordi.

Lo so, a vederlo così sembra più “Una notte da leoni”, ma dategli tempo.

John Woo inizia sulle note liete di “I’m a Believer”, come molti grandi film (e un altro di Coppola in particolare), si inizia con un matrimonio, quello di Ben (Tony Leung Chiu-Wai) con la sua amata Jane (Fennie Yuen), che non rende proprio onore al detto “sposa bagnata sposa fortunata”, visto che quella poveretta il marito se lo dovrà sudare per tutto il film. Con un ritmo velocissimo, un gran montaggio e una capacità di narratore ormai rodata, John Woo ci racconta il doloroso passato di Paul (Waise Lee), il flashback sul padre povero in canna che gli dice di non diventare mai come lui, è di fatto la rapidissima genesi del più grosso tra tutti i traditori della filmografia di Woo, un personaggio insopportabile, ma con motivazioni se vogliamo anche sensatissime che lo animano.

Una caratterizzazione impeccabile tanto quanto quella di Frank (Jacky Cheung), che è matto come un cavallo, per tutto il film prende colpi in testa nemmeno come se fosse il protagonista di un film di Stuart Gordon, anticipazioni del colpo alla capoccia definitivo e drammatico che dà il titolo al film, perché Frankie è matto, buono come pane e Nutella ma matto col botto, uno pronto a farsi pestare dagli strozzini, pur di avere i soldi per il regalo di matrimonio del suo amico. La frase chiave che riassume il legame tra questi tre? La pronuncia non a caso proprio lui: «Siamo nella merda, ma ci siamo tutti insieme», con la musichina tenerella che sottolinea il loro legame, che non somiglia a LA MUSICHINA, però sortisce lo stesso effetto emotivo nello spettatore.

Con amici così…

John Woo è geniale nel sottolineare il rapporto tra amici con una corsa in bicicletta al porto tra i tre, come se “Stand by Me – Ricordo di un’estate” (1986) di colpo si fosse teletrasportato ad Hong Kong nel 1967, anche se i casini non tarderanno ad arrivare, Woo ci tiene a mostrarci i suoi protagonisti felici e ancora amici, prima di essere proprio lui, nei panni dell’investigatore (vecchia abitudine) a bussare alla porta di Ben.

Indebitati e incasinati, i tre diventano traffichini per un loro “zio”, che li spedisce dove i soldi girano, Saigon, perché si sa che il malaffare prospera con le stragi e la guerra rappresenta terreno fertile. Qui Woo non tira via la mano quando è ora di raccontare i disordini, la scena con i tre protagonisti, sicuri del loro passaporto di Hong Kong che quasi vengono fucilati in piazza dai soldati Vietnamiti è la prima di tanti momenti di ansia per noi spettatori, ma anche la critica di Woo alla guerra e ai suoi disastri.

La statua messa a fuoco nel finale, come riassumere tutta l’arte di John Woo.

Lontani da casa i tre compari fanno la conoscenza di un altro esule, un personaggio che da solo sembra l’ultimo legame rimasto con gli epici pistoleri dell’heroic bloodshed al tramonto, il mezzo francesino Luke (Simon Yam), innamorato della paesana Sally (Yolinda Yam) costretta ad esibirsi e non solo in un localaccio di Saigon. Luke è tutto quello che resta dei personaggi solitamente impersonati da Chow Yun-fat, certo lo fa per la sua amata, ma non si tira indietro nemmeno quando è il momento di fare da armato angelo custode ai tre scappati da casa che questo film ha come protagonisti. Non è un caso se la prima grossa (enorme!) sparatoria nel locale, veda proprio il francesino come scatenato protagonista, tra Mitra Thompson, proiettili che volano tra un piano e l’altro e ovviamente scivolate all’indietro sparando, insomma, puro Woo!

Luke insieme a Mitra Thompson, quello che resta degli anti-eroi Wooviani.

“Bullet in the Head” non ha un minuto di tregua che sia uno, sopravvissuti a questo massacro da interni, i tre protagonisti fuggono ma si portano dietro la guerra (e Sally) con una scusa riescono a passare il confine e il posto di blocco dei militari, con John Woo impegnato ad offrirci un altro spaccato di vita durante la guerra, in quello che dovrebbe essere “solo” un film d’azione ma non lo è affatto, perché dopo circa un’ora e un quarto (su 136 tiratissimi minuti in totale), inizia un altro film, uno che non esisterei a definire brutale, visto che la regia di Woo così volutamente brutta, sporca e cattiva, non lo è stata mai più, ovvero l’unico registro narrativo possibile quando devi raccontare l’orrore della guerra.

Il senso di predeterminazione per le vite dei protagonisti è una costante in “Bullet in the head”, prima abbiamo la ferita alla testa di Frank ad inizio film, poi ci sono le sadiche torture dei Vietcong, che costringono il poveretto a sparare ai soldati prigionieri inermi e successivamente, anticipando il destino beffardo, i soldati vorrebbero che Ben sparasse in testa all’amico Frankie. Avete presente De Niro e Walken nel film di Cimino che giocano alla roulette russa sotto minaccia armata? Non voglio dire che a confronto di “Bullet in the head” quella scena sia una passeggiata, però quasi, perché Woo trova il modo di rendere il tutto una lunga tortura della goccia. Ci saranno anche i quintali di melodramma che da sempre caratterizzano il cinema di Hong Kong, però a livello personale, poche altre scene mi fanno “friggere” e arrotolare su me stesso, anche dalla comodità della mia poltrona, come questa porzione di “Bullet in the head”.

La guerra nel Viet-fottuto-nam! (cit.)

Quando poi si consuma il dramma, deve farlo in maniera ancora più melodrammatico altrimenti è troppo facile per le nostre coronarie, mentre Paul è in preda alla febbre dell’oro (sono sicuro che Woo avesse in testa il classico “Il tesoro della Sierra Madre” di John Huston) si consuma il drammone, tra la lezione paterna e l’amicizia, il bastardo sceglie il denaro vincendo la medaglia (ovviamente d’oro) del peggior traditore mai portato sul grande schermo da Woo, specialista in personaggi così perché quando i tuoi film ruotano intorno al concetto di yichi, chi lo calpesta diventa subito il nemico. Infatti il colpo alla testa sparato dal bastardone a Frank è uno dei rallenti più dolenti di tutto il cinema Wooviano, una sofferenza che non vi dico, che si ripete ad ogni visione.

… Chi ha bisogno di nemici.

Tutto questo è legato a filo doppio ad un’altra tematica chiave del cinema di John Woo, ovvero l’amico caduto in disgrazia, un tema che ritroviamo dei primi due A better tomorrow e ovviamente anche qui, però di più! Perché il livello di (melo)dramma di “Bullet in the head” è fuori scala. Frank, che è anche il nome che Ben ha dato al suo primo figlio, proprio in onore dell’amico, vive come l’ombra di se stesso per le strade di Saigon, a vegliare su di lui ancora il più improbabile degli angeli custodi, Luke, che gli fornisce la droga che è l’unico palliativo per tentare di frenare il lancinante dolore dalla pallottola sparata da Paul e impossibile da estrarre dal cranio di Frank senza ucciderlo. Altro che il neorealismo pesante da digerire di Aldo, Giovanni e Giacomo, qui siamo al drammissimo vero! John Woo a piena potenza.

Se negli altri film del regista, l’amico caduto in disgrazia trovava un modo per rimettersi in piedi e tornare a combattere, in “Bullet in the head”, ovvero il tramonto dell’heroic bloodshed, non viene concesso nemmeno questo, Ben come atto di pietà alla fine, è costretto a sparare all’amico per davvero, quello che segue dopo un gesto così, può essere solo la rabbia e la vendetta contro chi ha distrutto la vita di Frank e simbolicamente, anche la loro amicizia, ecco perché il finale del film ci dà dentro con il simbolismo.

Di tutti gli amici caduti in disgrazia del cinema di Woo, lui è il più tormentato di tutti.

Ed è qui che “Bullet in the head” chiede al pubblico di lanciarsi in un notevole salto dello squalo, che però va detto, in questa atmosfera così melodrammatica, alla fine può non balzare così tanto agli occhi, anche se in quanto occidentale (e cagacazzo) non ho mai potuto fare a meno di notare il dettaglio non da poco, per cui in un tempo ridicolmente breve, con l’oro rubato, protetto con denti, artigli e pallottole, Paul sia diventato il Megadirettore Galattico di un’azienda. Oddio, ne ho conosciuti alcuni con trascorsi anche più criminosi, ma mi pare improbabile che lo abbiano fatto CEO solo sulla base della sua valigetta piena d’oro di dubbia provenienza, ma anche qui, alcuni imprenditori hanno iniziato allo stesso modo.

Essere o non essere? Non essere! (cit.)

Anche perché in questa porzione di film, diventa tutto piuttosto metaforico e il melodramma è sempre in Nord magnetico del cinema di Hong Kong, quindi con la stessa semplicità, Ben può andare a trovare il vecchio amico, proprio durante la riunione del consiglio d’amministrazione e la sua nomina a Capo dei Capi (cosa avrà detto alla segretaria all’ingresso per entrare? Vabbè) portandosi dietro, non il teschio di Yorick, ma quello del povero Frank. Sostengo che tutto questa vada filtrato attraverso il simbolismo e il metaforico senso del (melo)dramma orientale, perché proprio Paul ad un certo punto, idealmente si lancia nel suo monologo (da super cattivo) con il teschio dell’ex amico in mano.

Metaforico o no, il dramma va decisamente a segno e apparecchia il tavolo per un finale che è tutto azione, il coronamento di un film che non alza MAI il piede dall’acceleratore. Anche nei momenti più drammatici e intimisti, John Woo è così abile a creare coinvolgimento con le vicende di questo gruppo di amici, da tenerci tutti emotivamente in pugno, il colpo di grazia alle coronarie? Quando con il suo uso scientifico del montaggio, crea un parallelismo tra la gioiosa corsa in bici al porto tra gli amici, quella vista all’inizio del film, quando erano spiantati ma felici e tutti insieme, e la corsa in auto tra i due ex fratelli, ora acerrimi nemici, che si smitragliano dal finestrino, quando non sono impegnati a fare a sportellate con le fiancate delle rispettive auto in corsa.

Il traffico nell’ora di punta è una guerra!

A ben guardare il finale di “Bullet in the head” è forse anche un pelo esagerato per un dramma bellico, tutto sommato molto aderente alla realtà, ma mi interessa pochissimo, perché proprio nella conclusione John Woo lascia andare le briglie del realismo e mette tutta l’azione tipica dello stile di Hong Kong al servizio del bruciante finale di un dramma che si è consumato sotto i nostri occhi per 136 minuti. Esplosioni, fiamme e ovviamente il cattivo che viene “punito” a revolverate, rigorosamente sparando e saltando in contemporanea, perché il cinema d’azione ci ha insegnato che il cattivo deve morire male, figuriamoci una carogna infame che ha tradito il sacro concetto di yichi.

Ve lo ripeterò in eterno, sapete come chiamiamo tutto questo qui alla Bara? Arte.

“Bullet in the head” in patria, tocca troppi nervi scoperti, forse il pubblico si aspettava un altro A better tomorrow (in tal senso Tsui Hark si è confermato produttore più attento) ma le chiacchiere stanno a zero o meglio, da anni si discute se sia questo o The Killer il miglior film della produzione di John Woo, mi interessa pochissimi fare classifiche, sono solo felice di essermeli potuti godere entrambi in questi anni, ma era diventato chiaro come il sole che ormai John Woo, il genietto del cinema di Hong Kong, a quel punto della sua carriera fosse decisamente un pesce troppo grosso, per uno stagno (o meglio un porto dei fiori) che per lui cominciava ad essere un po’ troppo piccolo.

Ma prima del grande salto, ci sono ancora un paio di metri di rincorsa da prendere, ci vogliono polmoni e muscoli allenati, perché questa rubrica è una maratona e la prossima porzione di chilometri da percorrere, arriveranno la settimana prossima, non mancate!

Sepolto in precedenza venerdì 16 giugno 2023

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