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Cane di paglia (1971): quando i film avevano i denti (e nessuna paura di usarli)

Avete presente quei film dai contenuti forti che il
cinema moderno cerca di evitare in tutti i modi, come se fossero contagiosi o
letali? Bene, oggi affrontiamo uno di quei film lì, anzi, forse uno dei più
controversi di sempre, benvenuti al nuovo appuntamento con la rubrica… Sam day
Bloody Sam day!

«Il Cielo e la Terra non usano carità, tengono le
diecimila creature per cani di paglia. Il santo non usa carità, tiene i cento
cognomi per cani di paglia» (Tao Te Ching). 

Con Il mucchio selvaggio Sam Peckinpah ha scritto il suo nome a caratteri cubitali nella
storia del cinema, l’apice assoluto del suo modo di raccontare la violenza e
malinconia per la frontiera americana sul grande schermo, una svolta per la
settima arte, ma con risultati al botteghino non della stessa portata.
Disgustato dal trattamento riservato ad un film a cui teneva molto (in quanto
estremamente autobiografico) come La ballata di Cable Hogue, a detta del regista distribuito in modo pessimo
nelle sale, il nostro Bloody Sam interrompe la collaborazione con la Warner
Bros. cerca nuovi spunti, anche lontano da Hollywood. Può
permetterselo, ormai è una celebrità, uno di quei nomi che scatena l’interesse
anche intorno alla sua persona, come non accadeva forse dai tempi di Alfred Hitchcock

Peckinpah si comporta di conseguenza, in questo periodo
comincia a sfoggiare il suo celebre look, con bandana sempre in testa e grandi
occhiali da sole a specchio, ma ancora non basta al mito del regista ribelle,
il cowboy venuto dalla frontiera per domare il cavallo selvaggio di Hollywood,
Bloody Sam aggiunge un altro vezzo: il lancio dei coltelli. I suoi stretti
collaboratori, i componenti di quello che lui chiamava il suo “Mucchio
selvaggio” ormai ci avevano fatto il callo, ma Peckinpah si divertiva a vedere
le facce dei giornalisti venuti ad intervistarlo, mentre lui senza scomporsi,
rispondendo alle loro domande… SBAM! Coltello lanciato e piantato nella parete
(storia vera). Si potrebbe fare una lunga analisi sull’atteggiamento di
Peckinpah che si era creato questa immagine di duro per mascherare le sue
insicurezze e i traumi del passato, un “guappo di cartone” o se preferite, un
cane di paglia.

Titoli di testa del film gentilmente offerti da Tao Te Ching.

Il produttore Daniel Melnick, uno dei pretoriani di
Peckinpah quello che ha salvato la sua carriera con “Noon wine” (1966) porta
alla sua attenzione un romanzo di cui aveva appena acquistato i diritti “The siege
of Trencher’s farm” di Gordon M. Williams, storia di un mite professore
americano che con la sua giovane e attraente moglie si trasferisce in un cottage
in Inghilterra, dove finirà per scontrarsi con un gruppo di “Inglesacci” locali
ubriachi e violenti. Una storia di pura exploitation,
raccontata al cinema in mille forme altrettante volte, ma che a Peckinpah piace
da subito, perché dopo un’annusata all’aria il regista capisce che è
l’occasione perfetta per sviscerare proprio quel tipo di storia: violenta nei
contenuti, ma rassicurante per il pubblico, in cui il “buono” messo alle
strette, alla fine ha la meglio uccidendo tutti i “cattivi”. 

Perché il pubblico ama così tanto questo tipo di storie?
Ben prima di Michael Haneke e del suo “Funny Games (entrambe le versioni,
quella del 1997 e il rifacimento in salsa Yankee del 2007), Peckinpah affronta
di petto la questione, lo fa con il suo stile poco avvezzo ai compromessi e
decide di andare a rimestare nel torbido dell’animo umano. Perché siamo
attratti da questo tipo di storie? Perché la violenza al cinema va sempre così
forte presso il grande pubblico? Ci piace vedere i cattivi puniti malamente e
tifare per dei buoni che, però, sono violenti tanto quanto i loro avversari? Cosa
dice di noi e della nostra società tutto questo? Peckinpah non fornisce
risposte, il cinema e l’arte in generale non sono tenuti a farlo, al massimo a
stimolare domande e riflessioni per chi è pronto a coglierle e come vedremo
più avanti, forse non tutti erano così preparati ad andare dove Bloody Sam
voleva portarci, infatti questo Classido è ancora oggi controverso.

Ogni artista vive la sua arte con infinito trasporto, ma
Peckinpah non aveva limiti nel perdersi nelle sue passioni, che fossero il
cinema, l’alcool e le donne (rigorosamente in quest’ordine), colleziona amanti
come bottiglie vuote nel suo nuovo lavoro, vede l’occasione di affrontare
qualcuno dei suoi traumi, ecco perché riscrive la sceneggiatura pescando a
piene mani da elementi del suo passato, le modifiche apportare da Bloody Sam
rendono una piccola storia di exploitation,
qualcosa di grosso, la casa di produzione ABC ci crede e gonfia il budget
portandolo a due milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti
spirati, Beau Bridges, Stacy Keach e Sidney Poitier vengono presi in
considerazione per il ruolo del protagonista, ma è quando un divo in rampa di
lancio come Dustin Hoffman firma per il ruolo del professor David Sumner che il
film diventa un progetto di punta, gli manca solo un titolo all’altezza. Lo
pesca Peckinpah dalla massima di Tao Te Ching che ho riportato lassù, la natura
è violenta con l’uomo e l’uomo violento con i suoi simili, ma potete stare
sicuri che Bloody Sam non è stato tenero con nessuno, non con la sua assistente
di produzione Katy Haber (un giorno faranno un film sulla sua vita e l’attrice
che la interpreterà vincerà sicuramente un Oscar), ma nemmeno con la giovane
Joie Gould, attrice che tra un divorzio e l’altro da Begonia Palacios, è stata
la moglie del regista per… Oh, tantissimo tempo (un anno solare). Tutte le donne
della vita di Bloody Sam, senza dimenticare la sua manipolatoria madre Fern,
sono il modello su cui viene basata Amy Sumner, la bella e giovane moglie del
protagonista di “Cane di paglia”, interpretata da Susan George una che in
carriera ricorderete magari per “Zozza Mary, pazzo Gary” (1974) o L’invincibile ninja, ma che è entrata
nella storia del cinema proprio diretta da Peckinpah e credetemi, non è stata
una passeggiata, lasciatemi l’icona aperta, più avanti ci torniamo.

“Guarda che io a mi padre j’ho già sputato in faccia, attento fascio, che nun ce metto niente” (cit.)

Con il sostegno di Katy Haber e dei pretoriani del suo
“Mucchio selvaggio”, le riprese di “Cane di paglia” in Inghilterra filano via
lisce, anche il nuovo direttore della fotografia John Coquillon piace molto al
regista tanto che i due torneranno a lavorare insieme, ma il preferito di
Peckinpah sul set è Ken Hutchison che nel film interpreta l’odioso (e
odiabile) Scott. Il regista trascina l’attore inglese in una giocosa lotta
corpo a corpo così, per riempire un tempo morto sul set e da allora, inizia a
chiamare Hutchison “Fratello Cane” (storia vera). Quando distribuivano la
pacatezza, Peckinpah era al bar più vicino a darci dentro con la vodka.

Il “Fratello Cane” di Sam Peckinpah (BAU!)

Una notte verso le tre e mezza, Peckinpah piomba nella
stanza d’albergo del suo “Fratello Cane”, indossa una fascia indiana in testa,
un poncho messicano ed è armato di bottiglie di Tequila, «Andiamo a vedere il
mare!», non vuole sentire ragioni, nel cuore della notte i due sono fuori, nel
gelo della notte, a bere come spugne tanto che a Sam prende la “ciucca triste”
e per di più canterina, al suo “Fratello Cane” insegna le parole di “Butterfly
Morning” e iniziano a cantarla insieme, solo tempo dopo Hutchison scoprirà che
era la canzone di La ballata di Cable Hogue. No, forse quando distribuivano la pacatezza, Peckinpah era in
qualche bordello messicano a ubriaco di mescal e abbracciato ad un paio di
prostitute.

La notte leoni, la mattina… Polmoni (ma forse non era così
il detto), il gelo notturno e un corpo già provato da costanti sbevazzamenti
provoca a Peckinpah una bella polmonite e un ricovero in ospedale che ferma la
produzione per cinque giorni. La ABC si agita, Dustin Hoffman si agita e si
parla già di sostituire il regista con qualcuno di più affidabile, Peckinpah
scottato dalle esperienze passate è
paranoico, teme che un altro film gli venga portato via, è la visita in
ospedale del suo agente Martin Baum a convincerlo a rigare dritto per non
perdere il suo film, da allora Baum entrerà per sempre a fare parte del
“Mucchio” di fedelissimi del regista e con Katy Haber ad annacquargli i Martini
e a fargli iniezioni di vitamine, Bloody Sam torna in pista e mena il suo colpo
più duro.

“Ti giuro Dustin, una punturina così e ti senti un leone”, “O un cane di paglia?”, “Vabbè, è lo stesso”

“Straw Dogs” comincia con il professor David Sumner (Dustin
Hoffman) che si fa aiutare da alcuni locali, a caricare in auto un’enorme
tagliola per orsi che la sua nuova moglie, la giovane ed affascinante Amy Sumner
(Susan George) ha appena acquistato, una spesa che si rivelerà drammaticamente
utile nel corso del film, infatti quando la mia Wing-woman vuole comprare
qualcosa non dico mai di no, non si sa mai nella vita. I due sono tornati in
pianta stabile del paesino della Cornovaglia dov’è cresciuta Amy, per dare
tempo a David di lavorare alla sua grossa teoria matematica, numeri e formule
scritti con il gesso su enormi lavagne nel suo studio.

“Se è una scusa per giocare al professore e alla studentessa, sappi che sei partito con il piede sbagliato”

Ma Amy attira l’attenzione (il fatto che sia bella e
allergica al reggiseno non aiuta), tutti i locali le ronzano attorno come api
sul miele a partire dal più insistente di tutti, Charlie Venner (Del Henney)
che in passato aveva avuto una storia con la bionda e vorrebbe tanto
ricominciare da dove si erano lasciati. David fa di tutto per non inimicarsi i
locali, anche se questi lo sfottono perché è palesemente un pesce fuor d’acqua:
un intellettuale occhialuto, per di più non propriamente prestante (la prova
di Dustin Hoffman è incredibile e persino la sua non propriamente incredibile
altezza recita un ruolo nella storia), non ha nulla a cui spartire con la
mentalità che potremmo definire contadina di questi Inglesi della Cornovaglia,
tutti lavoro, caccia e Pub. David li paga per aggiustare il tetto della casa, ma
questi più che altro aspettano l’ora di apertura dei pub e si rifanno gli occhi
sulle grazie di Amy.

Regola numero uno: non inimicarsi i locali (anche se provocano)

Il tutto mentre la coppia cerca di far funzionare un
matrimonio in equilibrio precario, già il fatto che i due si siano
trasferiti in Cornovaglia in questo modo, ci offre degli indizi, ma per quanto
tra i due non manchino momenti di tenerezza, sono due caratteri complicati, due
personaggi che Peckinpah ha saputo rendere realistici grazie alle prove dei
suoi attori, ma anche perché quelle dinamiche di coppia le conosceva bene. Suo
padre era un astrofisico, quindi quelle lavagne piene di formule erano quasi un
ricordo d’infanzia per Peckinpah e sua madre Fern, poi, era famigerata per i
suoi metodi manipolatori che un po’ ritroviamo qui nel personaggio di Amy. Ma, a
ben guardare, la giovane moglie intrappolata in casa a modificare per ripicca le
formule scritte dal marito nel dispettoso tentativo di attirare la sua
attenzione, distraendolo dal suo amato lavoro, ricorda anche un po’ Begonia,
nella loro casa sull’oceano a Point Dume, quindi Peckinpah avrà anche firmato
il primo film non Western della sua carriera (anche se l’assedio finale è
molto Western), ma sicuramente scrive e dirige materiale che conosce bene e che
gli permette di concentrarsi sul discorso della violenza radicata nell’animo
umano che tanto gli interessa.

Charlie Venner e i suoi compari sono un branco che si fa
sempre più insistente, uccidono la gatta dei Sumner solo per poter dimostrare
di poter entrare in casa (e in camera da letto in particolare), i tentativi di
Amy di sfidare i locali, sono un modo per spingere il marito ad una reazione che
non sia sempre quella del posato matematico calcolatore. Però David è un
personaggio più sfaccettato, per certi versi sfidante nel suo ribadire la sua
superiorità intellettuale ad ogni occasione utile, lo fa con Amy sminuendola per essere più poppe che cervello, ma lo fa anche con il prete che
passa in visita alla casa, l’ottima occasione per un uomo di scienza di
piazzare una stoccata nei confronti di un uomo di chiesa: «In nessun altro
regno c’è stato tanto spargimento di sangue quanto in quello di Cristo» dice
gongolante il protagonista, anche perché nei suoi film Peckinpah, non perde mai
occasione per criticare la Chiesa infilando nella trama un “predicatore”
insopportabile.

La faccia dell’uomo di scienza dopo aver “blastato” un uomo di chiesa (chiedo perdono per il giovanilismo)

La svolta arriva nel modo più drammatico: David accetta
l’invito di Charlie e soci di andare a caccia con loro, dove risulta ancora più
stonato, ma è comunque un’occasione per essere parte del branco, come quando
suo padre portava a caccia il piccolo D. Sammy nel loro ranch a Fresno, altro
ricordo del passato per il regista finito nel film. Solo che con il marito
lontano, Charlie vede l’occasione per ottenere ciò che desiderava da Amy, la
famigerata scena dello stupro che ha bollato questo film e buona parte della
carriera di Peckinpah, è talmente tosta da meritarsi un paragrafo tutto suo. 

Visto che me lo chiederete, due parole sul remake di questo film del 2011: fa schifo. Sono due parole no?

Avete presente quando tutti citano i maltrattamenti
subiti da Shelley Duvall per mano di Stanley Kubrick che la voleva
costantemente terrorizzata per Shining?
Al secondo posto di questa classifica di registi adorabili arriva Sam Peckinpah
che ha torturato la povera Susan George: «Cosa diranno i tuoi genitori quando
ti vedranno in quella scena? Vedrai cosa ho in serbo per te!». Un logorante
lavoro ai fianchi che ha preoccupato non poco la povera Susan George, leggendo
nella sceneggiatura di peli pubici in bella mostra e altre trovate estreme
affrontò il regista, intento come suo solito a lanciare coltelli. Susan chiese
a Sam di girare la scena solo con i primi piani, se gli avesse concesso una
possibilità lei avrebbe trovato il modo di rendere tutto l’orrore, senza
bisogno di mostrarlo con dovizia di dettagli violenti, ovviamente Peckinpah
resta della sua idea, ma sapendo di aver quasi perso il suo film accetta, la
scena viene girata come descritta dall’attrice e a Peckinpah piace! Piace
tantissimo tanto che da quel giorno i rapporti tra loro cambiano. La bionda
aveva dimostrato di avere le palle (metaforiche) per tenergli testa e nella
mentalità da cowboy del regista questo è lodevole. Peccato che da quel giorno a
smettere di parlare alla George è stato Dustin Hoffman, da sempre attore di
metodo, se il suo personaggio doveva dimostrare freddezza per la moglie nella
storia, doveva farlo anche lui sul set (storia vera). Qui ci starebbe
un’affermazione ironica e sagace sul movimento MeToo, ma preferisco dire che il
genio è così: visto da lontano affascina, ma da vicino, se non sei pronto a
sopportare il caldo rischi di scottarti. Vale per Peckinpah, Michael Jordan,
Picasso e anche Dustin Hoffman.

Montaggio sincopato e scene controverse ne abbiamo? In abbondanza direi.

La scena in sé è violentissima pur non mostrando nulla, è
violenta perché realistica, non siamo di fronte a «il cattivo violenta la
moglie del protagonista provocando la sua vendetta STOP», l’approccio di Charlie
ad Amy è violento all’inizio, ma poi lentamente sfocia in una scena d’amore quasi
tenera. Amy con il suo modo di fare addolcisce l’uomo, i due improvvisamente
sotto i nostri occhi diventano lei, una donna che finalmente trova un uomo che
la desidera davvero e con passione (a differenza di David) e Charlie sembra
tornato indietro ai tempi in cui era il fidanzatino della bionda, sono quasi
carini se non fosse che a rovinare tutto ci pensa Scott (Ken Hutchison) che
vuole anche lui fare un giro e qui davvero, non ci sarà più nulla di tenero per
la povera Amy che mantiene il segreto. Una reazione comprensibile, se vogliamo
anche realistica, che, però, dal pubblico è stata interpretata malissimo, ma più
avanti ci torniamo.

Scene da un (pessimo) matrimonio.

David all’oscuro di tutto pensa di aver appianato i
rapporti con i locali, ma il casus belli
è un altro, in una scena bellissima in cui il montaggio di Peckinpah ci porta
nel tormento interiore di Amy (ottenuto alternato scene della festa in chiesa e
dei “flash cut” della violenza subita), lo scemo del villaggio Henry Niles, un
ragazzone grande e grosso con il cervello di un bambino interpretato da David Warner (attore voluto fortemente
da Bloody Sam), attratto da una provocante ragazzina del villaggio, la uccide
per errore,  scatenando l’ira degli
abitanti del villaggio. Sfiga! Chi se lo ritrova davanti e decide di dargli
ospitalità in casa? Proprio il professor David dando così il via ad una
situazione in puro stile Distretto 13
(quindi con un DNA estremamente Western), fuori gli assedianti incazzati che
vogliono fare la pelle a Henry Niles, dentro David che prende una posizione,
questa è la sua casa, una parte di lui, nessuno può prendersi qualcosa di suo.

“E faccio la mia cosa nella casa, nella casa, faccio la mia cosa nella casa, faccio la mia cosa” (Dustin hi-nrg mc)

Raramente nel cinema di Peckinpah i personaggi femminili
sono rassicuranti, sono un po’ come intendeva le donne in vita Peckinpah, da
conquistare finché appetibili, ma poi gli uomini devono affrontare da soli le
situazioni o per lo meno tirare le fila, una mentalità datata quanto volete, ma
coerente con il personaggio. La rabbia che monta dentro David, la sua decisione
di imporsi per la sua casa, ma non per sua moglie, è il risultato del rancore
accumulato durante un matrimonio sbagliato. Peckinpah non prende una posizione
contro tutti gli intellettuali con gli occhiali o tutte le donne del pianeta,
ci racconta due personaggi che sono due “cani di paglia” che reagiscono alla violenza
subita e a loro volta ne provocano altra, ma sono due personaggi realistici
perché non comodamente etichettabili come “buoni” oppure “cattivi” che, poi, è
quello che mi manca nel cinema moderno con i paragomiti e le punte arrotondate
e che, invece, abbondava negli anni ’70, quelle sfumature di grigio a cui il
pubblico moderno sembra allergico.

Amy subisce indesiderate attenzioni dai locali e si sfoga
provocando il marito, David viene bullizzato dai ruspanti abitanti del paese e
ogni volta cerca di ribadire la sua superiorità intellettuale sulla moglie. Lo
stesso Henry uccide una ragazzina, ma è in balia di un padre violento che
pensa di sapere come tenerlo a bada, i personaggi sono tutti “cani di paglia”,
dei guappi di cartone che pensano di essere più duri o furbi di quello che sono, nessuno davvero buono o innocente, quasi tutti più o meno esecrabili e
giustificabili in parti uguali, insomma sono perfetti per permettere a
Peckinpah di fare arrivare il suo messaggio: la rabbia e la violenza è insita
nell’animo umano, ci vestiamo di abiti civili (gli occhiali di David, che non a
caso si rompono quando lui da fondo alla sua furia), me dentro di noi siamo
ancora mossi da istinti animaleschi, per quello al cinema ancora amiamo questo
tipo di storie, sono uno specchio in cui rifletterci e vedere noi stessi.

La quintessenza del cinema Western: l’assedio.

Nel finale Peckinpah scatena tutta la violenza del suo
cinema, con rallenti a sottolineare i colpi di fucile, l’acqua messa a bollire sul fornello, la tagliola,
l’ambiente casalingo tira fuori tutte le sue armi e David Sumner getta vie le
vesti dell’intellettuale per tirare fuori la belva dentro di sé, quando
l’assedio termina sembra quasi risvegliarsi da una trance «Mio Dio li ho fatti
fuori tutti!», quasi non ci crede e un po’ ridacchia compiaciuto, infatti nel
finale sorride, quando guida nella notte verso una strada oscura, come qualcuno
che si è liberato di una rabbia che aveva accumulato in un matrimonio
sbagliato.

Peckinpah non era interessato ad attaccare tutti gli
intellettuali mostrandoli piccoli e deboli, né a portare in scena un bello
stupro che è quello che ci vuole per rimettere una donna al suo posto, ma è
quello che il pubblico nel 1971 ha capito. Le associazioni femministe lo hanno
additato come un maschilista misogino e una buona fetta della critica (in
particolare negli Stati Uniti, perché nessuno è quasi mai profeta in patria) ha
bollato il film come un’apologia fascista, che esaltava atteggiamenti da
“macho”, ma le polemiche tirano, quindi se non altro il film al botteghino ha
messo insieme dei numeri validi.

“Coraggio… Fatti ammazzare” (eppure io Clint lo ricordavo diverso)

Peckinpah ha saputo firmare uno di quei capolavori
controversi che mancano come l’ossigeno nel cinema contemporaneo americano,
sempre più “per tutti” (aprire il vocabolario alla voce: per bambini). Nello
stesso anno sono usciti altri film dai contenuti forti come Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo! oppure “Il braccio violento della legge”, ma forse il film che più si
avvicina all’analisi della natura umana uscito insieme a “Cane di paglia” resta
“Arancia Meccanica”, con una differenza sostanziale, però.

Il cinema di Kubrick è sempre stato geometrico e gelido
nella forma, un occhio distaccato con cui raccontare, Peckinpah invece si è
sempre gettato nelle sue trame mettendo molto di se stesso e non si è mai
tirato indietro, anche quando hanno iniziato a piovere immeritate accuse di
sessismo e razzismo, approcci diversi a quel cinema non fatto solo da bianchi e
neri assoluti, che mi piace riassumere con la bella frase di William S. Pechter
scritta su “Commentary”, una delle poche reazioni positive al film: «Kubrick ci
insegna freddamente che viviamo in un inferno che ci siamo costruiti da soli,
Peckinpah brucia nelle fiamme con noi, agonizzante».

Guidare lungo una strada buia verso un futuro sconosciuto (secondo classificato nella specialità)

Quando ci vorrebbero più capolavori come questo, per
aiutare le persone a capire che anche nella vita, non siamo tutti solo buoni o
solo malvagi, come invece diventa più comodo etichettare tutti al telegiornale
o sui socialcosi. “Cane di paglia” resta una pietra miliare perché non offre
risposte, un’opera anarchica e di rottura che fa sorgere domande scomode sulla
natura umana, quella che cerchiamo di nascondere sotto il tappeto, ma che torna
sempre a grattare alla porta, anche al telegiornale o sui social. Tra sette
giorni, invece, affronteremo un altro rodeo, portatevi gli stivali e non
mancate.

Intanto non perdetevi la locandina del film dalle pagine di IPMP.

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