Home » Recensioni » Cannibal Holocaust (1980): cannibale mangia cannibale, uomo mangia uomo

Cannibal Holocaust (1980): cannibale mangia cannibale, uomo mangia uomo

Qualche settimana fa ci ha lasciato il grande Ruggero Deodato, sarà pur vero che come caratterino non era tra i più facili del mondo, ma questo non alterna il fatto che il suo lascito come artista sia stato molto importante. Mi sembra doveroso rendere omaggio a colui che i nostri cugini transalpini avevano battezzato Monsieur Cannibal, con quello che è il suo film più famoso. O famigerato.

Secondo film a tema, visto che fu proprio il successo di “Ultimo mondo cannibale” (1977) a convincere i produttori tedeschi a chiedere a Deodato un altro film sullo stesso filone, solo che il regista nato a Potenza questa volta aveva dei piani ancora più bellicosi. Ovviamente il primo dettaglio che colpisce di “Cannibal Holocaust”, il motivo per cui viene ricordato non è il suo essere un trattato sulla finzione e la realtà messo su (graffiata) pellicola, lo è a tutti gli effetti, ma siccome Monsieur Cannibal ha reso onore al suo soprannome, il vistoso contorno ha un po’ come dire, divorato l’obbiettivo del film.

La leggenda ci tramanda come Deodato abbia avuto l’idea dal figlio, impressionato dalle immagini violente che passavano al tempo regolarmente sui telegiornali italiani, era il periodo delle Brigate Rosse e senza arrivare per forza agli apici grafici di “Cannibal Holocaust”, andrebbe ricordato a tutta quella tipologia di persone che sollevando un sopracciglio, ti guarda come se fossi Hannibal Lecter quando dici che ti piacciono gli horror. Da appassionato del genere trovo molto più violento e di cattivo gusto il telegiornale (e il suo contenuto), potrà sembrare una banalità, ma fatevelo venire in mente la prossima volta che vi ritroverete davanti a tanta sana (sana?) pornografia del dolore più o meno ad ora di cena.

Un’altra giornata in ufficio per Ruggero Deodato.

Ci sono due questioni monumentali quando si affronta un titolo come “Cannibal Holocaust”, due elefanti al centro della stanza che barriscono: il found footage e la violenza. Andiamo con ordine è iniziamo dal primo, anche senza voler trasformare questo post in un trattato sulla materia, si potrebbe dire che all’interno del genere horror, il padre nobile del testo pieno di orrore ritrovato resta H.P. Lovecraft, nell’immaginario collettivo il primo found footage per molti sarà The Blair Witch Project, mentre altri, calendario alla mano, vi diranno giustamente che Deodato aveva già esplorato questa selvaggia terra di nessuno nel 1980 proprio con “Cannibal Holocaust”. A voler fare la punta ai chiodi, ci sono esempi di falso documentario applicato al cinema horror anche antecedenti, faccio un titolo solo proprio per evitare l’effetto trattato e ricordo la caccia al Bigfoot di “The Legend of Boggy Creek” (1972).

Per evitare l’incriminazione, Deodato ha portato a testimoniare il cast, ancora vivo (storia vera)

Eppure “Cannibal Holocaust”, anche prima della streghetta di Blair è il film che detiene il titolo di primo found footage, perché ha detto quello che aveva da dire con una forza e una brutalità ancora oggi unica, e questo mi porto al secondo Dumbo nella stanza, la violenza del film.

Qui le fonti abbondano, la realtà super a destra le leggende popolari (facendo anche i gestacci) e tutti conosciamo i fatti, le scimmiette in gabbia morte di crepacuore guardando quello che succede alla loro simile, Luca Barbareschi che spara in testa al maiale e poi passa la vita a non rilasciare dichiarazioni in merito anche se, lo dico fuori dai denti, non sarebbe l’unico fatto per cui provare vergogna rispetto alla sua carriera (non si può scrivere di “Cannibal Holocaust” senza sporcarsi le mani, fatto!) oppure per concludere, lo straziante incontro tra la tartaruga e il machete, che è un po’ il paradosso di Zenone, però alla moda di Ruggero Deodato.

La normale (si fa per dire) gavetta del futuro deputato.

Ecco, tutto questo è il prezzo da pagare nell’affrontare un film che non si guarda mai a cuor leggero come “Cannibal Holocaust”. Ribadisco un mio vecchio cavallo di battaglia: quei giandoni che specialmente sui Social-cosi si sparano le pose dicendo robe tipo «Io a dieci anni guardavo Cannibal Holocaust e L’esorcista ridendo», sono appunto questo, dei giandoni intenti a tirarsela, facilmente sbugiardabili calendario alla mano che del genere (e dei film in questione) non hanno capito una fava, perché sono troppo impegnati ad atteggiarsi. Se guardi un film come questo a cuor leggero, sei indistinguibile dagli altri giandoni che ti giudicano per la tua passione per l’horror.

Facciamo finta di aver già fatto tutto il discorso per cui voi date a me dell’insensibile perché non mi curo dei poveri animaletti (non sarebbe la verità) ed io che vi spiego la strategia con cui Deodato, si è difeso in sede legale ovvero che si, quegli animali sono stati veramente uccisi, lui ha ripreso le scene con spirito documentaristico (in linea con uno che si incazzava quando gli davano del regista di Horror, lui faceva film realistici, storia vera) che ha integrato nel film, perché se metti tanta gente in marcia verso Leticia, una piccola città della Colombia, al confine con Perù e Brasile, raggiungibile o per via fluviale, lungo il Rio delle Amazzoni o per via aerea e quelli devono portarsi dietro macchine da presa giganti e pellicola in abbondanza (perché il digitale non era ancora stato inventato) dovranno anche mangiare qualcosa e lo faranno così. Deodato avrebbe potuto evitare di inserire quelle scene nel montaggio del film? Forse, ma il risultato sarebbe stato “The Green inferno” (2013) di Eli Roth, film che pesca tutto da Deodato, dai tagli brutali di montaggio al titolo.

Posto bellissimo, accoglienza freddina, cibo non commentabile, due stelline.

Anche Michael Powell ci ha detto che guardare violenza su pellicola ha degli effetti a lungo termine e guarda caso, anche il suo film ha scatenato un vespaio, però ancora oggi L’occhio che uccide viene studiato ed è giustamente un classico del cinema. Ruggero Deodato a parità di polemiche non verrà mai studiato nei corsi di cinema, proprio perché rendendo onore al suo soprannome, il regista ha abbracciato un approccio che non prende prigionieri, grezzo, brutale e che, alla faccia dei giandoni, non si guarda a cuor leggero ridendo (a patto di non avere qualche tara mentale) che però a tutti gli effetti merita di essere considerato un Classido, spargo un po’ di rosso sangue anche io con il logo.

Una volte beh, digerito, l’approccio coltello tra i denti di Deodato, “Cannibal Holocaust” è una discesa all’inferno che rimesta nel torbido dell’animo umano e dei suoi istinti più bassi, raccontato con uno stile diretto e brutale su tutta la linea, anche quella estetica, visto che è diviso in due parti, la prima “The last road to hell” con le ricerche del professor Monroe (Robert Kerman) girato in 35 mm e la seconda, intitolata “Green Inferno” con i quattro reporter, tutta girata in 16 mm per risultare ancora più grezza, tanto che lo stesso Deodato, ha graffiato di suo pugno la pellicola per rovinarla ancora un po’ (storia vera).

Film che non si dimenticano, alla faccia dei giandoni.

“Cannibal Holocaust” è talmente giusto che persino le musiche di Riz Ortolani, apparentemente fuori luogo, sono invece uno degli esempi più celebri di musica fuori contesto, perché quella melodia dolce sdraiata sopra tanto orrore su pellicola, crea un contrasto che non può passare inosservato. Il film di Ruggero Deodato è un trattato sulla violenza nei film che anticipa per certi versi i due “Funny games” di Michael Haneke: siamo noi spettatori, spinti dal nostro impulso guardone a restare lì, complici e testimoni degli eventi, insomma quello che accadrà nel 1992 con Il cameraman e l’assassino, ma con i veri animaletti morti ammazzati per essere mangiati al posto dell’umorismo nero, perché ribadisco, Deodato non prende prigionieri.

Il cambio di formato che ribalta tutta la prospettiva.

Da una parte il film sembra guardare i locali dall’alto verso il basso, infatti tra le polemiche sollevate dal film anche accuse di razzismo nei confronti dei locali, ritratto appunto come selvaggi cannibali pronti a punire le adultere in modi che non mi soffermo nemmeno a descrivere, perché tanto il film l’avete visto tutti e sarebbe superfluo. Ma si tratta proprio del senso del film, la discesa all’inferno di “The last road to hell” è propedeutica alla seconda parte, perché è in “Green Hell” che il messaggio di Deodato colpisce alla giugulare.

Il gioco del falso documentario in realtà è una finta di corpo, una mossa Kansas City che ribalta tutta la prospettiva, quando insieme al dottor Monroe noi spettatori, ci ritroviamo a guardare il documentario ritrovato insieme ai rappresentanti dell’ente televisiva Newyorkese che lo ha commissionato, ci ritroviamo a scoprire che i quattro report che pensavamo essere le vittime, si sono adattati alla grande agli usi e ai costumi locali, con il risultato di essere peggio dei famigerati cannibali tanto temuti. Per far funzionare questo discorso Monsieur Cannibal mescola le carte tanto che non si sa più cosa sia finzione e cosa realtà, o meglio lo sappiamo benissimo (ad esempio la frase finale sulla multa pagata per via del materiale scabroso è una farloccata bella e buona, storia vera), però il gioco del film è proprio questo. Certo ottenuto nel modo più feroce possibile, visto che gli animaletti che sarebbero stati uccisi e mangiati comunque, sono morti sotto i nostri occhi di spettatori ma Luca Barbareschi invece è ancora vivo e vegeto. Deodato porta in scena l’osceno, cannibale mangia cannibale, uomo mangia uomo, per restare in tema di musica allegrotta fuori contesto ma nemmeno tanto, visto che sempre di arte trasformata in merce si parla.

La famigerata immagine simbolo del film.

Il percorso che Ruggero Deodato decide di farci percorrere è la via che porta all’inferno, probabilmente senza ritorno visto che nella vita di chiunque esiste un ACH e un DCH (Avanti Cannibal Holocaust e Dopo Cannibal Holocaust), penso che non potesse esserci riflessione più lucida e laconica dell’ultima frase del dottor Monroe, quando davanti allo sfruttamento del materiale ritrovato e ovviamente al suo contenuto afferma: «Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali.»

Ci sarà sempre un horror con cui le persone si mettono alla prova, qualcuno reagendo stile giandone va detto. La generazione di Tik Tok (minchia che frase da anziano che ho scritto!) l’ha trovato in “Megan is missing” (2011), ma nessun altro film potrà mai buttare giù “Cannibal Holocaust” dal suo trono fatto di ossa e teschi umani, quel titolo di film più violento mai realizzato se lo è guadagnato a colpi di denunce legali, di ore di difesa in tribunale studiate con i legali e di una censura figlia di un tempo in cui, alla faccia dei giandoni, i film te li dovevi andare a procacciare, non proprio come il dottor Monroe e la sua squadra di recupero, ma quasi. Non esiste un Paese del mondo in cui l’uscita del film non sia stata osteggiata, anche attraverso cavilli legali, oppure semplicemente rimandata a data da destinarsi tipo pallone calciato il più lontano possibile. I metri di pellicola tagliati sono stati chilometri e gli aneddoti o le volte in cui Deodato ha rischiato la vita e il linciaggio per il suo film, potrebbero essere materia non di un post sul film, ma di un paio di saggi. Non c’è moda di Tik Tok che regga al confronto di un film la cui brutta fama è cresciuta nei bassifondi, roba che se qualcuno ti minaccia con un coltello, tuoi puoi sempre metterlo in fuga urlandogli «Cannibal Holocaust!» o giù di lì.

Il momento esatto in cui rivaluti l’insalata.

Eppure il film di Ruggero Deodato è ancora oggi un trattato sull’osceno, un manifesto programmatico sulla finzione e la realtà nei film e sul modo in cui noi reagiamo ad essa. Molto più probabile che il vostro professore di storia del cinema vi consigli giustamente Michael Powell, ma nessuno ha rimestato nel torbido delle manie del pubblico, tenendo a mente il famoso principio dell’abisso che ti restituisce la cortesia dello sguardo più e meglio di come abbia fatto Monsieur Cannibal, che ribadiva ad ogni piè sospinto di non fare film horror ma realistici, ecco, ricordatevelo la prossima volta che dovreste sentire un istinto giandone dentro di voi.

Per quanto riguarda ricordare Ruggero Deodato, oggi la pelle e la pagnotta l’ho portata a casa (la battaglia continua nella sezione commenti), ma non è detto che io abbia finito con i film del regista qui su questa Bara, ci sono un altro paio di suoi titoli che mi piacerebbe trattare.

0 0 voti
Voto Articolo
Iscriviti
Notificami
guest
0 Commenti
Più votati
Recenti Più Vecchi
Inline Feedbacks
Vedi tutti i commenti
Film del Giorno

Mirtillo – Numerus IX (2025): Pampepato Fantasy

Non me ne vogliano i senesi o i ferraresi, ma per quanto mi riguarda, esiste una sola ricetta di Pampepato, quello giusto, quello ternano. Il Pampepato è un dolce della [...]
Vai al Migliore del Giorno
Categorie
Recensioni Film Horror I Classidy Monografie Recensioni di Serie Recensioni di Fumetti Recensioni di Libri
Chi Scrive sulla Bara?
@2025 La Bara Volante

Creato con orrore 💀 da contentI Marketing