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Carlito’s Way (1993): la strada ti tiene d’occhio, ti tiene d’occhio continuamente

Vi va male, ma prometto di impegnarmi per rendere giustizia nel modo migliore al film, anche se dovrete fare pace con il fatto che la voce narrante nella vostra testa, non sarà quella di Al Pacino, ma la mia, però, se volete, potete leggere tutto il post come farebbe Giancarlo Giannini, in ogni caso, benvenuti al nuovo capito della rubrica… Life of Brian!

Tocca ripetersi, ma è un tema chiave per De Palma quello del doppio, una costante anche nel suo muoversi sul doppio binario, l’alternanza tra titoli magari più piccoli e il più delle volte dei thriller come Doppia personalità, alternati ad altri, incassi sicuri, ma non per questo meno artistici o curati dal regista del New Jersey. I fasti de Gli intoccabili erano un po’ troppo indietro nel tempo per Brian da Newark, specialmente dopo i flop sanguinosi di Vittime di guerra e Il falò delle vanità, malgrado questo, prima di accettare la proposta del produttore Martin Bregman, De Palma ci pensò su un po’.

Bregman con non poche difficoltà, era riuscito ad acquistare i diritti di sfruttamento cinematografico di due romanzi scritti da un giudice della corte suprema di New York di origini portoricane, Edwin Torres che, per altro, conosceva Al Pacino dai tempi di “Serpico” (1973). Il primo libro s’intitolava “Carlito’s Way“ il secondo “After Hours”, ma venne subito scartato per non creare confusione con il film di Martin Scorsese del 1985 (storia vera).

«Quindi mi assicurate che questa volta la Rockstar Games non farà nessuno videogioco ispirato al mio film, esatto?»

A questo punto Bregman, con Pacino già nella zona delle operazioni, pensò bene di rimettere insieme la vecchia banda di Scarface, anche se attore principale e regista concordavano sulla volontà di non restare incastrati in un seguito indiretto del film del 1983. Entrambi cambiarono idea quando venne consegnata loro la sceneggiatura completa, scritta da quel David Koepp che, trent’anni esatti fa, sembrava avesse la magia sulla punta delle dita, visto che nello stesso anno ha firmato questo gioiello ed è anche riuscito ad adattare alla grande un best-seller di Michael Crichton, finito nelle mani del regista amicone di De Palma, potreste averne sentito parlare.

A De Palma, armato da sempre di un umorismo nerissimo, ovviamente piace il tono fatalista della storia, l’ambientazione negli anni ’70 e la voce narrante di un personaggio che corre incontro al suo destino, un po’ Humphrey Bogart (a cui il protagonista si paragona nei suoi monologhi) un po’ “Viale del tramonto” (1950) di Billy Wilder. Al Pacino a sua volta, ovviamente, è della partita, ma non è più l’attore che aveva bisogno di sette ciak prima di scaldarsi e non si passava alla scena successiva se non si sentiva soddisfatto della prestazione che, comunque, De Palma aveva già gestito al meglio nei panni di Tony Montana, ma quello fresco di Oscar per “Scent of a Woman” (1992). Posso dirlo? Se per quello gli hanno dato la statuetta di zio Oscar, per come ha vestito i panni di Carlito Brigante, per me, era come minimo da premio Nobel.

Fosse per me, il coperchio del bidone avrebbe dovuto usarlo per ripararsi dalla pioggia di premi che gli avrei lanciato addosso.

Il doppio, torniamo a questo prima di trattare qualunque altra questione legata al film: c’è sempre il tema del doppio con De Palma in circolazione, anche nel filone “gangster” della sua filmografia, di cui “Carlito’s Way” è il punto più alto, il lavoro più personale, sentito, quasi intimo, lo dico subito e gioco a carte scoperte, un vero Classido!

A trent’anni dalla sua uscita e a dieci da Scarface è impossibile non mettere a paragone i due film che, però, non potrebbero essere più diversi, Doppelgänger per genere, attore protagonista e regista, ma a ben guardare anche per una certa familiarità diffusa, visto che anche “Carlito’s Way” torna a frequentare tutti quei luoghi Depalmiani classici: una discoteca come in Scarface che qui si chiama El Paraiso, come il teatro di Wan in Il fantasma del palcoscenico ed è fatta a forma di nave grazie alle bellissime scenografie di Richard Sylbert. Una stazione del treno con scalinata fatale come Gli Intoccabili versione 2.0 e poi, ovviamente, la metropolitana e gli ascensori mortali, come in Vestito per uccidere.

Colonne sonore “sbagliate” che però potrebbero essere anche quelle giuste.

Facile notare il doppio ruolo – anche se opposto nello spirito – dei gemelli Pacino, Tony Montana e Carlito Brigante, ma trovo ancora più clamoroso il fatto che Sean Penn, diretto per la seconda volta da De Palma, di fatto interpreti lo stesso identico personaggio di Vittime di guerra, a parte i riccioli cotonati in testa, l’alleato del protagonista che prima gli salva la vita poi diventa il suo avversario principale, insomma anche qui, Doppelgänger e proprio su Sean Penn e la scena dell’ascensore di questo film, mi gioco la curiosità legata al mio bizzarro rapporto con “Carlito’s Way”, per un po’ uno dei miei titoli “maledetti”.

Nel senso che non riuscivo mai a vederlo, me lo sono perso al cinema e la prima volta che ho provato a recuperarlo, registrandolo da un passaggio televisivo, mio padre mi ignorò sottovalutando la maledetta rassegna stampa del TG e optando per una VHS troppo breve, risultato? Ero incollato allo schermo, morendo dentro per la tensione della scena dell’ascensore, si aprono le porte e PUFF! Finisce il nastro (storia vera). Ci ho messo anni per avere un’altra occasione per vedere il film, ma è sempre stato uno dei miei preferiti di De Palma.

«Ti sarebbe piaciuto vedere il finale di quella scena, vero Cassidy?»

L’altra storiella molto divertente legata al titolo mi serve a sottolineare la mia bizzarra teoria su come i bei film, debbano sempre avere una scena in metropolitana, nella corsa finale, disperata e frenetica del protagonista, impegnato a cercare di fuggire arrivano in tempo in stazione, c’è quella formidabile scena dove Pacino salta giù da un vagone per salire al volo sull’altro, tutta girata in estate, malgrado la trama prevedesse il freddo e una pesante giacca di pelle per l’attore che tra un ciak e l’altro correva di qua, correva di là, con De Palma che lo incitava a correre ancora più forte, più trafelato, sta di fatto che vuoi per il caldo, vuoi per la giacca, vuoi per gli ettolitri di sudore grondati da Pacino, ad un certo punto la produzione si perde il protagonista. Che cacchio di fine ha fatto? Al dove sei? Nell’enfasi e nel calore, Pacino era saltato sul vagone nella direzione sbagliata, qualcuno è dovuto andare a recuperarlo in auto alla prossima fermata (storia vera).

«Avresti almeno potuto lasciarmi un biglietti in più», «Lamentati con la produzione»

Anche se il vero depistaggio lo ha messo su De Palma con la scena iniziale di “Carlito’s Way”. I primi cinque fatidici minuti del film, quelli che ne determinano tutto l’andamento di una storia che qui, risulta essere circolare, che inizia dalla fine e diventa un lungo flashback di 144 minuti, un tentativo di redenzione impossibile come le regole del genere d’appartenenza impongono, perché dal noir non si scappa, il massimo che puoi fare è distrarre il pubblico, cosa che a De Palma riesce benissimo, in uno dei tanti giochi di specchi della sua filmografia, qui ci regala un inizio volutamente stilizzato, seguito da un film talmente riuscito e coinvolgente che, anche se tu spettatore sai già quale sarà il punto d’arrivo della storia del personaggio, ogni volta sei lì, seduto in punta di sedia alla poltrona a sperare che questa sia la volta buona, che Carlito riesca questa volta a salire su quel dannato treno con la sua Gail (Penelope Ann Miller).

Anche in un film così concentrato sul suo protagonista, non può mancare una donna angelicata.

Le storie di gangster corrono sempre il rischio di passare per esaltazioni della vita criminale, quasi un’elegia a quel tipo di vita, anche se secondo me solo i brutti film di questo sottogenere lo fanno, quelli davvero buoni mai e Al Pacino in carriera ha preso parte ad un paio di questi. Sicuramente “Carlito’s Way” non glorifica la vita criminale, anzi, se mai il contrario, visto che il suo protagonista si muove in direzione opposta a quella del suo Doppelgänger Tony Montana che usava tutta la sua foga e le sue capacità per raggiungere la vetta del mondo criminale, quella da cui Carlito Brigante fugge, vergognandosi di un passato criminale che non sente più suo, i due personaggi sono simili, ma opposti tanto che idealmente è un po’ come se Tony Montana fosse entrato in carcere e nei sia uscito cambiato, ne sia uscito come Carlito Brigante.

La discriminante, l’ancora che tiene legato il protagonista al suo passato e lo trascina verso il fondo e le vecchie abitudini è anche il motivo per cui è di nuovo in libertà. Invece di trent’anni, con abile mossa il suo avvocato David Kleinfeld (Sean Penn più matto che mai) lo ha fatto uscire dopo cinque anni, tempo ritrovato per un uomo che in carcere si era già rassegnato a morirci. Un debito da Samurai che va a braccetto con il codice etico di Carlito, uno che solo questo conosce, la strada tanto evocata e citata nei suoi monologhi, la sua personale versione dell’Hagakure, il codice del samurai a cui si affida («La strada ti tiene d’occhio, ti tiene d’occhio continuamente»).

«Sono Benny Blanco del Bronx, tu ed io siamo uguali», «Tu al massimo puoi essere il fratello minore di Super Mario»

“Carlito’s Way” è un copione scritto benissimo, affidato nelle mani di un regista capace di dettarne i tempi al microsecondo, lavorando sul senso di minaccia costante e sul fatto che come spettatori, capiamo perfettamente che la volontà di redenzione del protagonista è reale, Carlito non è l’ennesimo criminale scarcerato dell’immaginario, destinato a tornare a delinquere alla prima o al massimo seconda tentazione possibile, la sua volontà nel cambiare vita, mettere insieme i soldi necessari e scappare con la bella Gail è ferrea, ma è il destino a lavorare contro di lui, come succede sempre ai protagonisti nei noir.

Da qui De Palma si mette al lavoro e tira fuori una scena magistrale dopo l’altra, proprio perché la posta in gioco per Carlito e per noi spettatori che ci ritroviamo a tifare per lui è alta, ma chiarissima. Basta la prima scena, mentre il nostro come Ulisse, non riconosce più Itaca, il suo vecchio quartiere che lo dobbiamo seguire nel retro bottega di un locale che urla “PERICOLO!” ad ogni fotogramma. De Palma crea la suspence con quella porta del bagno che si apre e si chiude, con il riflesso nelle lenti dei Ray-Ban, perché per il regista di Newark è sempre lo sguardo, la capacità di vedere dei suoi personaggi che salva loro la vita o li mette nei guai, infatti dopo una scena così, che per un altro film sarebbe quella madre, ma per “Carlito’s Way” è solo riscaldamento, come fa il protagonista a riallacciare i rapporti con il personaggio di Penelope Ann Miller? La vede ballare, ovviamente osservandola da una finestra, perché De Palma non si smentisce mai.

Specchi, con De Palma non mancano mai, nemmeno in una scena bomba come questa.

Il doppio è l’altro grande filo rosso che tiene insieme i film del nostro Brian da Newark, per certi versi è un Doppelgänger di Carlito anche lo stramaledetto Benny Blanco del Bronx che, oltre ad avere la faccia da schiaffi di un perfetto John Leguizamo, sembra una versione giovane del protagonista e proprio per questo, Carlito lo odia così, a pelle, perché gli ricorda il passato da cui vorrebbe scappare e da cui non fuggirà mai. Un personaggio che sembra il classico sassolino che rotola diventando una valanga, il gas dimenticato aperto, la finestra non chiusa, l’ultimo dei tanti tradimenti che il protagonista subisce che, guarda caso, sono tutte coltellate alle spalle, visto che quelli che Carlito riesce a vedere (vi ho già detto dello sguardo per i protagonisti Depalmiani no?) sono anche quelli che in qualche modo riesce a gestire, come il microfono nascosto sotto la camicia di Viggo Mortensen oppure la discesa nella megalomania dell’uomo che lo ha salvato, David Kleinfeld, che smette di essere un avvocato e inizia a fare il gioco dei gangster.

«Famm’ senti’ ‘n po’, chi è lo re?» (cit.)

Ci sono tanti punti d’osservazione da cui si potrebbe guardare “Carlito’s Way” godendoselo per il capolavoro che è: gli ingranaggi della trama che filano come un rolex, senza nemmeno una riga di dialogo che sia di troppo, le prove degli attori che sono uno più bravo dell’altro, ma a tenere insieme il tutto, rendendolo anche migliore ci pensa proprio la regia di Brian De Palma che fa filare tutto alla grande rendendo le scene già ottime su carta, grandiose e incredibilmente coinvolgenti sullo schermo.

Altro materiale per la mia teoria sulle scene in metropolitana nei grandi film.

Tutto l’ultimo atto del film è talmente teso, da farti sperare che questa volta sia davvero quella buona per Carlito e Gail, anche se il film è a tutti gli effetti un noir con tanti gangster, la sua natura di thriller emerge perché il nord magnetico per De Palma è sempre la suspence, quindi come spettatore stai a chiappe strette quando i soldi nella cassaforte spariscono e Carlito deve andare a recuperarli dietro al bancone fingendo naturalezza. Superate le rapide di quella scena, arriva quella in metro che mette alla prova le coronarie (e pensate a Pacino che ha dovuto recitarla tutta correndo e con la giacca di pelle d’estate addosso), poi senza un attimo di tregua, si passa alla scena delle scale mobili che sembra voler dire: ti ricordi quella della scalinata de Gli Intoccabili? Bene, oggi facciamo sul serio.

«Guarda altro, fai finta di nulla…»

A parte il lavoro mirabile in fase di montaggio, nel far durare il tempo di una lunga e articolata sparatoria la corsa di una scala mobile nella realtà anche piuttosto breve, ma anche qui è lo sguardo quello che prima frega e poi salva la vita al protagonista, a costo di ripetermi devo dirlo: De Palma ha sempre difeso a spada tratta l’uso della “grammatica hitchcockiana”, ma sono scene magistrali come questa per cui bisognerebbe parlare di “grammatica depalmiana” perché qualunque film ucciderebbe per concludersi con una scena così, ma non “Carlito’s Way”, che dopo ne ha un’altra ancora migliore, quella che chiude – letteralmente – il cerchio.

«… ti ho detto fai finta di nulla!»

Io sono per la ripetibilità dei film, facile cavare emozioni dal pubblico se hai una colonna sonora potente, uno schermo gigante e un impianto sonoro da terremoto, senza spingersi all’eccesso (per me assurdo, ma anche per Scorsese), di guardare i film sullo schermo dello smartphone, una pellicola davvero bella deve coinvolgerti anche rivista sulla tv di casa. Per me “Carlito’s Way” è l’esempio migliore di film che potresti vedere cento volte e ogni volta, Luis Guzmán e Benny Blanco del Bronx del cazzo ti colpiscono in faccia anche se lo sai già cosa succederà, anche se De Palma te lo ha già mostrato nella prima scena. Magistrale utilizzo della suspence e totale coinvolgimento nella storia e nelle motivazioni del personaggio, non è un peccato di vanità quando De Palma, sempre molto critico con il suo lavoro, quando ha rivisto questo film sul grande schermo della 44aesima edizione del festival di Berlino, ha dichiarato che non avrebbe potuto farlo meglio di così (storia vera), è un dato di fatto che si ripete ad ogni visione. Quando si fanno i paragoni tra capolavori, si tira sempre fuori “My way” di Sinatra come metro di paragone, anche secondo me anche per assonanza di parole, si potrebbe usare il film di De Palma per dire che quando ha scritto, diretto, disegnato o cantato il suo “Carlito’s Way”.

La mia faccia, ogni volta che mi rivedo il finale di questo film.

“Carlito’s Way” non è stato solo un successo al botteghino, costato trenta milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, ne ha portati a casa il doppio, ma a distanza di trent’anni dalla sua uscita è ancora giustamente considerato uno dei punti più alti della filmografia di uno dei più grandi Maestri della settima arte, il classico titolo da andare e rivedersi per fare pace con il cinema. Fare meglio di così? Una missione impossibile, ma per quella avremmo tempo tra sette giorni, non mancate!

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