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C’era una volta a… Hollywood (2019): la serie B a guardia della serie A

Inutile stare qui a raccontarcela, che lo si ami o lo si odi, i film di Quentin Tarantino restano un evento sempre molto atteso, mai più che con il suo nono film il pubblico si è diviso, io non ho troppi dubbi, con una serie di distinguo e una scena in particolare che mi ha (quasi) fatto ribollire il sangue, a me “Once Upon a Time in… Hollywood” è piaciuto e non per forza poco. Chiarito questo, bisogna fare una deviazione di un paio di paragrafi, portate pazienza, ma se potete sopportare dodici scene di persone che guidano in auto lungo le strade di Los Angeles come accade nel film potete reggere anche questo.

Ho sentito ogni genere di parere su questo film, ma la costante è che sembra che abbiano scoperto tutti oggi che Tarantino sforni film dove i dialoghi sono articolati, lunghissimi e tutto tranne che realistici. Capisco perfettamente cosa può non essere piaciuto di questo, essenzialmente un espediente finale che Tarantino aveva già utilizzato in un altro suo titolo (tranquilli, ne parleremo più avanti nella parte affetta da “Spoiler” qui, bocche cucite), ma non credo ci sia nulla di strano nel trovarsi davanti ad un autore che ripete se stesso e le tematiche che gli stanno a cuore, lo fanno tutti, da Lansdale a Garth Ennis, quindi perché non Tarantino, uno con la propensione a “citarsi addosso” piuttosto sviluppata.

Tarantino riprende Tarantino, il regista che dirige se stesso (e i cinefili con la pipa e gli occhiali che si sciolgono)

Ormai dovremmo esserne tutti consapevoli, coloro che si professano “fan” di qualcosa o qualcuno sono spesso il nemico peggiore dell’oggetto del loro amore, perché “Once Upon a Time in… Hollywood” non è stato il quasi unanime consenso di pubblico? Il fatto che per raccontare una storia riassumibile in… Un attimo che le conto… Tre, quattro, undici parole Tarantino ci abbia messo 161 minuti? Lo abbiamo scoperto oggi che il ragazzo di Knoxville, Tennesse è logorroico? Oppure è mancato il fatto che questa volta non ci sia il film citato, da sventolare come capolavoro riscoperto dalla porzione hipster del pubblico?

Nessuno “Lady snowblood” (1973), oppure “Quel maledetto treno blindato” (1978), titoli che pochi dei cosiddetti “fan” di Tarantino hanno visto davvero, ma che sistematicamente diventano capolavori (spesso senza per forza esserlo) durante l’apericena, da tanti (troppi!) che hanno iniziato a citare Antonio Margheriiiiiiti (rigorosamente pronunciato come avrebbe potuto fare il tenente Aldo Raine) senza aver visto mezzo dei suoi film, questa volta il gioco è talmente citazionista che Quentin i film se li è inventati, alcuni anche con titoli tutti da ridere tipo “Uccidimi subito Ringo, disse il gringo”.

Ci facciamo una cassa di birra che tanti presunti esperti correranno a cercarlo su Amazon?

No, questa volta Tarantino sembra aver mandato l’Ultimatum a tanti là fuori, avete notato che malgrado ne abbia avuto l’occasione, qui manca la classica inquadratura dal bagagliaio? Secondo me Quentin si è rotto le palle di vederla replicata in dieci film in uscita ogni anno.

Bisogna dire che è innegabile che quel finale lì corra lungo il solco tracciato da un altro suo film, ma dire che “C’era una volta a… Hollywood” è un film svogliato, senza idee e che non ha nulla da dire… No, gente, non si può sentire. Secondo voi una pellicola con una tale ossessione nel riscostruire un 1969 volutamente immaginario (che esiste solo nella mente di Tarantino, come gli anni ’80 di “Strane Cose” da cui arriva per un paio di minuti anche Maya Hawke, figlia di Uma) è svogliata? L’interno della roulotte di Cliff Booth, con la scatola di cereali d’epoca e vecchi numeri di “Sgt. Fury and his howling commandos” è tutto quello che ha da offrire il film? Secondo me no.

«Insomma Marvin stava seduto là dietro e poi all’improvviso PUM! Era sparso sul lunotto posteriore»

Tarantino parte da uno spunto abusato, uno di quelli che torna spesso al cinema: prendi dei personaggi immaginari e fai interagire e incrociare le loro vite con altri reali, per quanto sempre interpretati da attori. Ecco perché qui Marvin Schwarz (Al Pacino), George Spahn (Bruce Dern), Jay Sebring (Emile Hirsch) e il regista Sam Wanamaker (Nicholas Hammond) sono gustose aggiunte attorno ai personaggi che il film lo fanno per davvero, la Sharon Tate di Margot Robbie, ma soprattutto Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e Cliff Booth (Brad Pitt).

Il primo atto di “Once Upon a Time in… Hollywood” non si prende tutto il tempo che gli serve per raccontare i personaggi… Di più! Esiste una ragione per cui bisogna assistere alla lunga scena di Brad Pitt che prepara la pappa alla sua bellissima Pittbull Brandy (a mani e zampe basse, la migliore di tutto il film, non me ne vogliano gli altri componenti del cast) e quella ragione diventa chiara solo nel finale del film.

Nemmeno Angelina Jolie ha osato così tanto in pubblico con il vecchio Brad.

Tarantino posiziona i pezzi sulla scacchiera, tratteggia personaggi che si muovono in un 1969 che è quello che esiste nella mente di un appassionato di cinema, uno come voi e me, cresciuto fantasticando sulla Hollywood degli anni d’oro, un posto dove se Sharon Tate andava ad una festa, incontrava Steve McQueen (interpretato brevemente da un Damian Lewis molto somigliante), un posto realistico perché curato nei minimi dettagli, ma finto, idealizzato dal cinema come solo i set costosi nei grandi film possono essere.

Odio usare questa espressione, perché è quella che piace fin troppo ai critici seri e impegnati con la pipa e gli occhiali (quindi non io), però il film è un costante “cortocircuito” (brrr…) tra finzione e realtà, tra film e serie tv del passato altrui e pellicola dello stesso regista, per questo diventa normale che quanto lo stuntman Cliff Booth, debba incontrare il capo dei cascatori, quello sia interpretato da Kurt “Stuntman Mike” Russell (qui anche narratore) e sua moglie Zoë Bell, l’unica che stuntwoman lo è per davvero. Altro giro, altra parola brutta (ultima giuro!) se siete amanti del post-modernismo al cinema, Tarantino vi darà sempre pane per i vostri denti, questa volta tocca sopportare una parte finale di primo atto perfetta per un gioco alcolico: ogni volta che un personaggio prende l’auto e guida da una parte della città con la – notevole e non banale – colonna sonora del film a palla, si beve. Prima di metà film sarete più ciucchi di Rick Dalton, garantito al limone.

In ogni caso “Non piangere davanti ai Messicani” è la mia frase di culto della settimana.

I suoi protagonisti immaginari sono il cuore del film, Rick Dalton è un cowboy dei film che, però, sembra la versione “live action” (espressione che va di moda grazie alla Disney) di BoJack Horseman: Una specie di mezzo catorcio umanoide che fuma e beve troppo, la sua carriera da cowboy della televisione in “Bounty Law” (omaggio a tutti i vari “Bonanza” e “Rawhide” della nostra vita) sta per finire e l’alternativa a svalutarsi in piccoli ruoli da cattivo, sono gli spaghetti western di Sergio, non proprio QUEL Sergio, l’altro Corbucci, il secondo Sergio migliore.

Per raccontarci tutto di Rick Dalton, Tarantino si prende il suo tempo apparentemente facendo melina a centro campo con scene comunque divertenti che prevedono Nazisti morti e un lanciafiamme in un vecchio film dell’attore, al resto ci pensa un Leonardo DiCaprio abbastanza gigantesco, che carica il suo personaggio di tantissime sfumature: si commuove quando si riconosce nel vecchio “Bronco Buster” arrivato a fine carriera in un tascabile western e dev’essere consolato da una ragazzina, diventa patetico quando per colpa di troppi whiskey sour si dimentica le battute – le facce che fa DiCaprio per recitare un attore che recita male sono commedia pura – e diventa grandissimo, quando fa un grande ritorno di recitazione, proprio come i cowboy nei film. Sappiamo tutto di Rick “Fuckin” Dalton (“La bestia” nel doppiaggio piuttosto diligente del film), ma anche del suo socio, Cliff Booth.

«Sembra l’inizio di un film porno» (Cit. per questa ringraziate Sergio, non Corbucci e nemmeno Leone però)

Ora, non ne faccio una questione di “Sesso a pile”, sono insensibile al fascino di Brad Pitt, però quando pensi che quell’uomo posso essere figo, nel senso di “Stiloso” del termine, lui se ne esce con lo stuntman Cliff Booth e va oltre ogni aspettativa. La parlata rilassata, l’atteggiamento di chi rotola fuori dalle auto in fiamme, quindi non è preoccupato da nulla e sul suo passato delle ombre con più cicatrici di quelle che ostenta lui sul corpo. Tra Rick e Cliff del perfetto “Bromance” («Sei un buon amico», «Ci provo») che va oltre le dinamiche tipo “A spasso con Daisy” (1989), oppure il fatto che uno sia abituato a prendere i colpi al posto dell’altro. Quasi intercambiabili come diventa chiaro dalla posizione dei nomi degli attori che li interpretano sui titoli di testa, per quanto quasi opposti tra di loro.

Sono i due personaggi attraverso i quali Tarantino omaggia il 1969 e tutta un’era di Hollywood che, come avrebbe detto Stephen King, è sprofondata come la civiltà di Atlantide, spazzata via dal momento in cui l’industria del cinema (e la società americana) ha perso la sua verginità, il massacro di Cielo Drive e il brutale omicidio della bellissima Sharon Tate. Se mai l’umanità un giorno dovrà fare i conti con la sua cattiveria, l’agghiacciante foto del corpo senza vita della Tate sarà quello che verrà servito nel salato conto. Scusate la dissertazione fuori tema, ma sono sceso con il piede “Tarantiniano” (usare questo aggettivo in un post su un suo film: fatto!) dal letto stamattina.

La progressiva trasformazione di Brad Pitt in Roberto Ford Rossa.

Per Tarantino Rick Dalton e Cliff Booth sono l’incarnazione di tutto quel cinema di genere con cui Tarantino (e tanti di noi) è cresciuto, vi ricordate Clarence Worley che diceva preferiva Mad Max e “Il buono, il brutto, il cattivo” ai film da Oscar? Ecco, quello.

Proprio per questo Quentin si diverte a portare in scena molto di quel cinema di genere usando i suoi protagonisti immaginari, fa parecchio Western (anche grazie Timothy Olyphant, lui si un moderno cowboy del piccolo schermo), oppure a strizzare l’occhio a Corbucci e Margheriti, ma (perché no?) anche un bel po’ di sanissimo Horror. Tutta la lunga sequenza dell’arrivo di Cliff allo Spahn Ranch urla fortissimo ad ogni fotogramma le parole Non aprite quella porta e, visto che siamo in tema, fatemi arrivare ad un punto che a me sta molto a cuore, quella scena di sangue che ribolle a cui accennavo lassù all’inizio.

«Dove mi porti?», «Vieni con me, andiamo ad aprire quella porta»

Ho visto il film due volte in due giorni (storia vera), durante la prima, quando ho visto la scena con il maestro Bruce Lee (Mike Moh) avrei voluto alzarmi e andarmene, non l’ho fatto perché le poltrone del cinema Arcadia a Melzo sono comodissime (storia vera). Parliamoci chiaro: chiunque conosca la storia e la filosofia di Bruce Lee (e Tarantino come tutti noi cresciuti con i film di Lee, la conosce benissimo) sa perfettamente che quello che si vede nel film, è un’imitazione grottesca, una roba da sputare in un occhio a Tarantino, sul serio. Vedere “Bruce Lee” atteggiarsi come il peggior tamaretto di provincia e fare a botte con Cliff va contro tutta la filosofia del Maestro, quello che mi fa girare le pelotas è il fatto che Tarantino è tenuto in altissima considerazione da moltissima parte di pubblico, quindi già lo so che mi toccherà fare a testate con tanta gente per ridimensionare l’uso ridicolo fatto dal regista di un personaggio tanto iconico, ridotto a macchietta. Ma, devo aggiungere un ma.

Lucius, non guardare questo film. Lucius. Non. Guardare.
Questo. Film!

Ma (ve lo avevo detto…) per quanto mi girino vorticosamente, capisco perché quella scena esista, era necessaria in preparazione del finale far capire che Cliff è una bestia in grado di tenere testa a chiunque, quindi tanto vale usare il migliore di sempre. Ma anche ora che l’ho messa nero su bianco, non mi cala il nervoso… Mannaggia a te Quentin! Hai fatto incazzare la figlia di Bruce Lee, ma anche i parenti di Steve McQueen dovrebbero dirti due paroline, secondo me.

Molti hanno criticato anche la rappresentazione di Sharon Tate, però a differenza di Bruce Lee riesco a comprenderla con più facilità. Per Tarantino Sharon Tate è quasi una donna angelica, un simbolo di purezza descritta come volutamente ingenua perché proprio quello deve rappresentare: l’ingenuità di un’epoca andata. E in questo senso Margot Robbie è perfetta. Le auguro di trovare più ruoli come Tonya, perché che sia “Bella bella in modo assurdo” (cit.) è chiaro, però la ragazza sa fare anche altro anche se questo forse non è il film migliore per dimostrarlo.

Margot, l’attrice con cui ogni ciak è bona la prima… Ehm! Buona la prima, volevo dire buona!

Il vostro affezionatissimo qui, considera Sharon Tate una delle donne più belle che siano mai comparse in un film, quindi capisco perché Tarantino che si è divertito ad infilare DiCaprio in una scena di “La grande fuga” (1963), non abbia voluto replicare mantenendo inalterate le scene in cui la finta Sharon Margot Tate va al cinema a vedere la vera Sharon Tate e no, la risposta non è infilare i piedi nudi della Robbie, anche se da questo punto di vista “C’era una volta a… Hollywood” è il “Quarto potere” dei feticisti dei piedi… Strano che insieme al biglietto d’ingresso in sala non sia stato imposto anche al pubblico di togliersi le scarpe, perché qui Quentin ha davvero dato fondo alla sua ossessione. Detto questo, da qui alla fine SPOILER!

«Questa qua mi cammina sul cruscotto ed io sarei pignolo!» (Quasi-cit.)

Sharon Tate è la gioia del cinefilo che al cinema ci va per davvero, la felicità assoluta di intrufolarsi in una sala a caso, per godersi le reazioni del pubblico anche se tu il cinema lo fai per mestiere. Insieme al marito Roman Polański, Sharon Tate rappresenta la serie A del cinema, quello che va omaggiato e salvaguardato, rendere Rick Dalton e Sharon Tate vicini di casa lungo la famigerata Cielo Drive è una dichiarazione d’intenti da parte di Tarantino.

Sì, perché è facile amare il cinema di serie A, è semplicissimo voler bene a Sharon Tate impersonata da Margot Robbie, provate ad amare il cinema per la serie B (se non proprio quello di serie Z) quando a rappresentarlo è un attore sulla via del fallimento che tossisce come un minatore ed è quasi sempre ubriaco come una scimmia sul ponte di una nave pirata!

Preservazione e valorizzazione del patrimonio cinematografico.

Quello che non hanno capito quelli che ripetono a pappagallo che “Quel maledetto treno blindato” è un capolavoro, non solo molto probabilmente non lo hanno visto (altrimenti non so se lo direbbero), ma proprio non hanno idea di cosa voglia dire spulciarsi tutti gli Spaghetti Western in cerca dei migliori, trovare la bellezza in un film di Polański è bellissimo, ma relativamente semplice, provate a trovarla nei cestoni tutto ad un euro, nei film di arti marziali, in quelli di Antonio Margheriti e lì che si vedono i cinefili veri!

Il cinema di serie B è sempre stato la palestra, dove molte idee venivano consumate oppure allenate, prima di arrivare nel caso, ad essere usate in serie A. Lo stesso nome “B-Movie” deriva dal film B, il secondo programmato in un doppio spettacolo dopo il film A, quello di punta, in grado di attirare il pubblico con gli attori famosi. Serie A e serie B, eterni vicini di casa come Rick Dalton e Sharon Tate.

Quindici anni di allenamento immaginario, possono essere d’aiuto nella vita reale? (Cit.)

Quando ha la possibilità di farlo Tarantino porta avanti la sua crociata, usare il cinema per migliorare sul grande schermo qualche torto (e uccidere qualche membro del KKK grazie ad un Django nero. La “D” è muta), oppure fare ancora di più: ribadire che per lui il Cinema è più forte anche della storia stessa. Quindi, se dopo “Bastardi senza gloria” (2009) tanti miei colleghi sono venuti a dirmi che non si ricordavano che Hitler fosse morto così (storia vera. Storia tristemente vera!) qui Tarantino si ripete e usa il Cinema per correggere uno degli atti più brutali mai compiuti dall’umanità, talmente violento, da dare il via ad un decennio cinematografico arrabbiato e pieno di disillusione come gli anni ’70 della New Hollywood al cinema.

Charlie don’t surf. Tanto per citare un film disilluso degli anni ’70.

Cosa utilizza per farlo Tarantino? Il Cinema di serie A? No no, usa proprio quello tanto bistrattato di serie B, rappresentato dai talenti e dal Pittbull di Cliff (che in una scena piuttosto grossolana ha inspiegabilmente il pene… Il cane Brandy, non Cliff Booth. Un errore degno dei B-Movies) e il lanciafiamme di Rick Dalton. In una scena che risulta tragica e comica in parti uguali, in base alla vostra sensibilità ed ora che siamo tra di noi nella zona in cui nessuno teme la anticipazioni posso dirvelo, quelle famose undici parole con cui riassumere tutto il film sono queste: “Un attore quasi fallito e la sua controfigura salvano Sharon Tate”. Che volendo potrebbero diventare quattordici se volessimo aggiungere alla fine “Con un lanciafiamme”. Fine SPOILER!

«Ti rendi conto? Persino Cassidy riesce a riassumerlo questo film e Tarantino no!»

Tarantino, come tutti cresciuti con Sergio (non Corbucci), sa che i film di ampio respiro che contano devono intitolarsi come una favola (infatti è lui che all’amico Rodriguez ha suggerito il titolo per il finale della sua trilogia su El Marichi, storia vera) e in questo caso proprio di questo parliamo, una favola in cui la serie B si erge un po’ sgangherata, sbronza e strapiena di Margarita a scudo per proteggere la serie A. Potete immaginare quanto tutto questo possa aver presa su un ragazzo come me, con una certa predisposizione per il cinema di genere, che non fa differenze nel dividere la sua passione tra film “alti” e pellicole “basse”.

Pensare che ero anche un po’ pronto a dare addosso a Tarantino e al suo post modernismo sfrenato, invece niente, anche questa volta ha avuto ragione lui, anche se quella di Bruce Lee non so se te la perdono Quentin. Inizia a farmi arrivare a casa un lanciafiamme da tenere nello sgabuzzino, poi vediamo come andrà.

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