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Che vita da cani! (1991): chi più perde, più guadagna

Ah tu, ah tu, zigiribirì bambù ah tu! AH TU, AH TU!
ZIGIRIBIRI’ BAMBU’ AH TU! Ho capito, pubblico difficile oggi. Vediamo se questo
attira la vostra attenzione, benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Tutto
quel Mel!

Il Maestro Brooks ha concluso gli anni ’80 con il botto, Balle Spaziali è ancora oggi
universalmente riconosciuto come uno dei suoi film più famosi e amati, con
l’arrivo degli anni ’90, gli Stati Uniti erano nel bel mezzo di un periodo di
crisi economica che mi verrebbe da dire, perdura ancora oggi, così nacque la sua
idea per un film intitolato “Life Stinks”, del tutto non consolatorio fin dal
titolo, che però va detto, oltre ad essere forse l’ultimo ottimo lavoro di Mel
Brooks, prima di abbracciare la demenzialità più non-sense (e per questo
irresistibile) è anche un film attualissimo, se non per un dettaglio, ovvero
come l’ho scoperto io.

Pozzanghere, il barometro per misurare la distanza tra ricchi e poveri.

 

Riportate gli orologi del tempo indietro a metà degli anni
’90, la televisione era ancora un soprammobile pieno di film e non solo di
gente che cucina, da quella scatola poteva uscire di tutto, anche un ebreo di
Brooklyn con un vestito sgualcito, che per chiedere l’elemosina per strada,
prova ad imitare un ben più talentuoso ragazzino di colore, che balla per
strada per qualche spicciolo improvvisato un motivetto, tipo beatbox, insomma la scena
che ho pateticamente cercato di omaggiare in apertura. Da bambino, beccai “Che
vita da cani!” (adattamento italiano del titolo, più avanti ci torniamo) già
iniziato in tv, proprio da quella scena, riconoscendo subito Mel Brooks che mi aveva già
fatto molto ridere altrove. Bene, quella singola scena mi fece così tanto ridere,
ma così tanto ridere, che io ancora oggi, ogni tanto mi canticchio da solo Ah
tu, ah tu, zigiribirì bambù ah tu! Ridendo come il cretino che sono (storia
vera).

AH TU! (niente, mi fa sempre ridere)

L’altro dettaglio che mi colpì molto alla prima visione
furono gli “undici” dietro il collo, ancora oggi chiamo così quelle due linee, ben in vista lì dietro quando una persona è troppo magra o malata. Quel miscuglio dolce e amaro del film me lo fece apprezzare fin da subito, nella sua
autobiografia (“Tutto su di me” edito da la nave d Teseo) Brooks parla di
questo titolo con la lucidità che solo il tempo può darti, ne racconta la genesi
come se già nei primi anni ’90 fosse partito per sfornare un film al massimo,
in grado di andare in pari con gli incassi, però chiude con una riflessione
interessante.

L’unico Paese al mondo dove “Che vita da cani!” andò benino
nelle sale era quello a forma di scarpa che conoscete tutti molto bene. Mad Mel
se lo spiega sostenendo di aver realizzato un film sulla condizione umana, con
dentro un po’ di Fellini e un pizzico di De Sica (inteso come padre
ovviamente), non ha torto affatto, ma forse sottovaluta la sua popolarità di
allora, confermata dal fatto che si poteva inciampare in un suo film in
qualunque palinsesto, come accaduto a me. Mai pentito, visto che ancora oggi è
un signor film!

Mad Mel pronto a dirigersi nella prossima scena.

 

Consapevole di non poter fare chissà che soldi con un film
il cui titolo suona come “La vita fa schifo” e che cerca di parlare di crisi
economica profonda e povertà, inoltre senza essere “Furore” di John Ford (tratto da Steinbeck
e diventato un film nel 1940), il nostro Mel pensa bene di scrivere il suo
soggetto, avvalendosi come al solito di una piccola squadra di sceneggiatori da
lui stesso capitanata, Steve Haberman era stato suggerito da Rudy De Luca,
quest’ultimo non potete mancarlo, è anche l’attore che interpreta il ruolo di
beh, Paul Getty Junior, il senzatetto senza qualche rotella, che mette su una
gara di schiaffi con il protagonista (palese omaggio allo stile dei Three
Stooges) con il protagonista, per stabilire chi dei due, malgrado le evidenti
pezze al culo, sia il più ricco. Scena micidiale che arriva proprio nel momento
più azzeccato della storia.

I due marmittoni (voi li vedete così ma sono ricchissimi eh?)

 

Prodotto dalla sua Brooksfilms e distribuito dalla MGM,
stando alle parole del Maestro nella sua autobiografia, avrebbe potuto
funzionare solo tenendo bassi i costi di produzione, che si attestano attorno
ai tredici milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti, che
il film però non ha più visto tornare indietro in termini di biglietti staccati
al botteghino, un brutto investimento andato in pari solo grazie all’home video
e ai passaggi televisivi, ed è curioso perché lo spunto iniziale parla proprio
di questo, un investimento rischioso, con una scommessa alla base. Oltre ad essere il film con cui Brooks ha fatto il punto della situazione sulla sua vita e sulla sua carriera: perdere tutto quello che è stato accumulato, con una sottotrama amorosa che non può non far pensare alla sua amatissima Anne Bancroft, che in un altro momento della sua carriera, qui sarebbe stata di sicuro la protagonista femminile.

La storia è molto semplice, ruota attorno a Goddard Bolt e
Goddard Bolt è uno stronzo, per di più ricco, potente, e a capo di una grande
industria, uno che mette le sue scarpe costose sulla sua scrivania di marmo e
mentre ascolta i suoi avvocati fargli il resoconto di quanta foresta amazzonica
dovranno abbattere per fare ancora più soldi risponde: «E allora?», insomma
Goddard Bolt è identico a tutti i grandi capi d’azienda ricchi, stronzi e
potenti che avete avuto la sfortuna di conoscere in vita vostra.

«Dobbiamo cacciare Cassidy dalla sua Bara», «E allora?» 

 

Mel Brooks lo interpreta con baffo e parrucchino, tanto da somigliare al Presidente Scrocco del suo film precedente, il piano del personaggio prevede una speculazione edilizia, comprare a
pochissimo un quartiere di Los Angeles pieno di poveracci per costruirci Delta
City, ed intendo proprio la Delta City di
Robocop
visto che il piano viene presentato con un modellino identico a quello usato
dai dirigenti della OCP.

Con Delta City va detto, non è finita tanto bene. 

 

Come a Monopoli però, prima di costruire devi possedere
tutti i terreni, Bolt è proprietario solo del 50% di quel lotto di terreno
popolato solo da quella che per lui è feccia, l’altro 50% è in pugno al suo
rivale Vance Crasswell (interpretato alla grande da Jeffrey Tambor, l’attore
che avete visto in tutti i film) che gli propone una scommessa: se riuscirai a
passare trenta giorni nel ghetto, senza soldi, senza farti riconoscere usando i
tuoi contatti e senza mai uscire dal perimetro, avrai il mio 50% del quartiere.

«Abbiamo un accordo, ma niente fregature o ti inseguo con una ruspa ok?» 

 

Ed è così che comincia la trasformazione di Goddard Bolt,
via i baffi, i soldi, i capelli, proiettato per strada tra i poveracci, il
nostro rinascerà come Pepto, nomignolo che gli resterà incollato addosso
(letteralmente!) mentre proverà a tirare a campare per strada, con tanto di
cavigliera pronta a suonare nel caso di piedino messo fuori dai confini prestabiliti
dalla scommessa.

Non sei pelato, sei solo povero.

Per certi versi, “Che vita da cani!” è una sorta di Chi più spende… più guadagna! però al
contrario, con la componente della scommessa ribalta stato sociale di Una poltrona per due, quindi siamo
nell’anno uno dei ’90, ma ancora si sente la coda lunga degli ’80. Basta la
prima notte da senza tetto a Goddard Bolt per ritrovarsi Pepto, scacciato anche
dalla (non tanto) amabile suora, costretto a dormire tra i topi, impegnato in
tentativi patetici e ovviamente spassosissimi per noi spettatori, di racimolare
monetine facendo la carità («Elemosina, non ho raggiunto una vera
professionalità in questo campo»), la svolta arriva quando il rinato Pepto, re
dei barboni viene aggredito da un paio di criminali locali, il più grosso dei
due immediatamente riconoscibile, visto che ha la mascellona di Brian Thompson.

A salvarlo e a dargli le dritte necessarie per sopravvivere
per strada, ci pensa Molly, ad una prima occhiata una pazza tendente al manesco,
che ha arredato un vicolo, due camere e tinello secondo una logica da
arredatrice d’interni tutta sua. Il Maestro Mel ha l’intuizione geniale di
mettere il ruolo in cassaforte affidandolo alla bravissima Lesley Ann Warren,
un passato da ballerina e tanti ruoli in carriera, di cui ve ne segnalo solo
uno con cui si guadagnò anche una nomination agli Oscar, ovvero la parte di
Norma in quel gioiellino di “Victor Victoria” (1982) di Blake Edwards.

Angeli con la faccia sporca (e la mazza da baseball)

 

Il momento in cui “Life Stinks” ti acchiappa e non ti molla
mai più? Sta tutto sulle spalle di Lesley Ann Warren, davanti alla decadente
cappella dove una coppia è impegnata in un grottesco matrimonio (puro Brooks al
100%) la sua Molly si lancia in un monologo sul suo passato, che oltre ad
essere un pezzo di bravura per l’attrice, è anche la prova della bontà con cui
questo film è stato scritto. Altrove sarebbe un momento ricattatorio, qui parte
come lo scapocciare di una matta che vive in strada, con una certa propensione
artistica nella sua vita precedente, che recitando ci racconta il suo passato, fatto di maltrattamenti, un marito violento che le ha
lasciato solo lividi, debiti e per finire, un esaurimento nervoso perché il
principio è sempre lo stesso,
basta una brutta giornata. Nella prova della dolce Lesley Ann Warren e sul faccione
di Mel Brooks, che passa da cinico a comprensivo, per la prima volta per il suo
personaggio, ormai definitivamente rinato Pepto, ci sta tutta l’abilità di “Che
vita da cani!” di rendere visibili gli invisibili.

Splendida, ma se i tempi fossero stati diversi, nel ruolo ci sarebbe stata Anne Bancfroft, garantito al limone. 

 

Mandato a segno, con grande eleganza, questo notevole colpo,
a questo punto vale tutto, anche far entrare in scena altri senzatetto come
l’avvinazzato Scarico (Teddy Wilson) o il simpatico Ancora, ruolo affidato da
Mel Brooks ad Howard Morris, un suo vecchio amico fin dai tempi di “Your Show
of Shows”, responsabile della faccenda degli “undici” dietro al collo e sempre
secondo l’autobiografia del Maestro, anche colui che gli ha suggerito la gag
delle ceneri da spargere, visto che a quanto pare, la funzione funebre di suo padre, Howie Morris, non si è svolta in modo poi tanto differente da come vediamo nel film.

La teoria degli undici, che nella mia vita non ho mai più potuto ignorare.

 

Resto sul vago perché non voglio rovinare la visione a
nessuno, visto che è un film che vi consiglio caldamente di recuperare (non
posso essere solo io a canticchiarmi: Ah tu, ah tu, zigiribirì bambù ah tu!),
però un dettaglio chiave ve lo devo rivelare: avete presente la grottesca ed
esilarante scena delle ceneri sparse in mare di “Il grande Lebowski”
(1998)? Non mi chiedete quale perché tanto lo conoscete tutti a memoria quel
film. Benissimo, non sarebbe mai esista se i Coen non l’avessero presa di peso
da “Life Stinks”, vedere per credere, giusto per ribadire che la lista dei
discepoli del Maestro è lunga, molto ma molto lunga!

Da qualche parte nel Minnesota, i fratelli Coen prendono appunti.

“Che vita da cani!” è forse l’ultimo gran film di Mel
Brooks, perché è carico di quella caratteristica ben presente nel suo cinema,
che passa sempre in secondo piano rispetto al gran quantitativo di risate e
battute, ovvero quel fattore umano, quella caratterizzazione attenta dei
personaggi, che rende i suoi film molto più che semplici commedie o parodie,
qui ad esempio gli basta una riga di dialogo e un primo piano («Devo chiamare i
pompieri?», «Sta zitta! É solo un mucchio di porcheria!») per farti salire il
groppo in gola, tra una risata e l’altra.

Quei piccoli tocchi di umanità che hanno sempre reso grandi i film del Maestro.

 

Trattandosi di Brooks poi, non può mancare il momento
musicale, qui ne arriva uno tenerissimo e davvero molto Felliniano sulle note
di “Easy to love” di Cole Porter, il tutto prima della brillante trovate della
passione amorosa, che mal si sposa con i mille mila strati di vestiti di chi
vive per strada. “Life Stinks” prima trascina nel fango il proprio
protagonista, poi procede in crescendo, tanto che il lieto fine sembra arrivare
sul finale del secondo atto, ma siccome le idee a Brooks non mancano mai,
l’ultimo è quello dove la lotta di classe esplode.

Il monologo di Pepto sul tetto, all’alba dell’ultimo giorno
della scommessa, riassume tutto il gusto dolce amaro di questo film, con quel
rivolgersi a Dio in puro stile Mel Brooks, ovvero un ebreo di New York, in un
modo che probabilmente avrà fatto ridere anche Will Eisner.

Una chiacchierata con il Grande Capo.

 

Anche se il
messaggio del film è chiaro, ovviamente arriva per bocca di colei che è il
cuore del film, Molly, che riesce anche a rendere digeribile la scena in cui il
protagonista viene salvato dal potere dell’ammMMMmmore, grazie a quel dialogo
onestissimo: la vita è questo, una serie di momenti, soprattutto terribili, ma
ogni tanto succede anche qualcosa di buono.

Il momento musicale, Brooks ci tiene e sa sempre come dirigerlo.

 

Un concetto drittissimo, newyorkese al 100%, che arriva dopo
l’altro momento onestissimo della trama, “Che vita da cani!” non è il solito
filmetto caramelloso che ti dice che puoi essere ricchissimo ma povero di
cuore, no no, Pepto rinasce come una persona migliore, però quando vede sfumare
per sempre il suo mucchione di soldi sicuri, ha un tracollo verticale che
Brooks sa rendere esilarante e amarissimo in parti uguale.

Mettendo dentro una bella critica anche alla mala sanità (il
medico in fissa con la torazina per curare tutto), il film fa toccare
nuovamente il fondo al protagonista, che tra le corsie del fatiscente pronto
soccorso, dà il via ad un coro che è il titolo del film, trasformato nel
doppiaggio italiano in «La vita fa schifo! La vita fa schifo!» che sarebbe
stato il titolo giusto, ben più dritto di “Che vita da cani!”, dopo un momento così è inevitabile che
il passo successivo sia la riscossa.

La vita è meravigliosa si, quando hai i soldi forse!

 

Mi fa morire dal ridere ogni volta il fatto che il “discorso
motivazione alle truppe” del protagonista, venga totalmente ignorato, mentre le
parole di Molly riescano a scaldare i cuori, quello che segue è la versione
Brooks di “Il quarto stato”, Giuseppe Pellizza Da Volpedo e tutta quella bella
robina lì, con i poveri che fanno irruzione alla festa per la demolizione dei
ricconi, scatenando il panico e un’infilata di gag esilaranti.

Forse l’unico salto dello squalo vero della trama sta nello
scontro finale (occhiolino-occhiolino), una concessione hollywoodiana ai buoni
che devono trionfare e al cattivo che va punito, se in diretta tv meglio. Non è
chiaro come un riccone come l’ex Bolt rinato Pepto, sappia manovrare una ruspa,
ma nella frase del suo rivale («Non è l’unico che sa guidare uno di quegli
affari!») forse abbiamo la spiegazione e anche l’ultima grossa trovata comica
di Brooks nel film. Ok, lo so benissimo che la lotta tra ruspe va interpretata come uno scontro tra dinosauri, anche gli effetti sonori sono
lampanti in tal senso, però è più forte di me, in questa rivincita proletaria a
colpi di macchine a movimento terra, non posso non rivedere la versione Brooks
dello scontro tra regina aliena e power loader!

Get away from her, you bitch Vance!

 

“Che vita da cani!” incassa pochissimo come detto, eppure
resta oltre ad uno dei film che mi ha definitivamente segnato a vita come
fan(atico) del Maestro Brooks, anche un film spassoso, cinico, tenero, caustico
e con punte di romanticismo che merita di essere ricordato di più o almeno
riscoperto. Forse l’ultima volta che il drago ha davvero mosso la coda, prima
di dedicarsi anima e corpo all’umorismo non-sense, che badate bene, ho sempre
apprezzato, quindi dalla prossima settimana, stirate la vostra calzamaglia
perché questa rubrica, imbocca gli ultimi metri, non mancate!
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