Sapete cosa odio davvero? Ok, GIEI GIEI Abrams, lui è sempre la risposta giusta a questa domanda, ma questa volta il discorso è un po’ più ampio, non me la cavo citando il Maledetto. Perché quello che davvero non sopporto, e lo dico da appassionato di cinema, è quando al telegiornale, in particolari in quelli che vanno in onda nelle fasce orarie più popolari, per far arrivare una notizia al pubblico, fanno i paragoni con i film.
Fateci caso, vale lo stesso principio per qui i giornalisti usano sempre l’espressione “Un vero e proprio”, non basta dire che so, un arsenale, devono dire, un vero e proprio arsenale. Ecco, allo stesso modo, una volta che avrete notato questo, non potrete più togliervi dalla testa la vecchia e ruffiana tecnica di paragonare il fatto di cronaca nera o estera del momento con la trama di un film.
Lo trovo irritante, perché non è un modo per cercare di “spiegare” al pubblico una situazione lontana dalla loro vita quotidiana, utilizzando come fattore di mediazione un film famoso, un elemento che sia un terreno comune per far arrivare per davvero agli spettatori il senso del dramma. Niente di tutto questo, per quello che mi riguarda quello non è giornalismo, al massimo è un servizio fatto a tirar via, che serve a sfruttare uno stagista sfruttato per montare immagini a caso per sfornare una roba che se fosse un articolo pubblicato sul web, verrebbe velocemente etichettato come acchiappa click.
Il giornalismo ha il dovere di cronaca, di raccontare i fatti, in un mondo ideale anche verificati (insomma, non bufale), il cinema non ha il dovere di essere realistico o tanto meno di “educare” lo spettatore, se non ad un – si spera – miglior gusto artistico. Ecco perché davanti ad un film come “Civil War” provo sentimenti contrastanti, amplificati dal nome del suo regista, Alex Garland che almeno un paragrafo se lo merita, anche perché è doveroso al fine di analizzare la sua ultima fatica con un minimo di logica. O forse avrei dovuto scrivere un vero e proprio paragrafo? Ditemelo voi, io intanto attacco a scriverlo.
Garland esordisce come romanziere, il suo “The Beach” diventa un film diretto da Danny Boyle che poi se lo tiene stretto, almeno come sceneggiatore del fondamentale 28 giorni dopo, in mezzo il nostro scrive un altro titolo per Boyle, ovvero “Sunshine”, poi ci aggiunge “Non lasciarmi” e intanto ha l’intuizione giusta con Dredd, ma si fa battere sul tempo da The Raid. Poco male, Garland colleziona recensioni anche ottime con il suo Ex-Machina il film che ogni volta che rivedo mi piace sempre un po’ di meno, poi manca il bersaglio di diversi chilometri con due regie piuttosto irrisolte e fuori fuoco come Annientamento e Men, che come sapete ho apprezzato uno meno dell’altro.
Ma è innegabile che Alex Garland si porti dietro i tratti caratteristici dell’autore, la propensione per la fantascienza e gli scenari, anche distopici, anche se questa parola è decisamente abusata (quasi quanto “vero e proprio”), spesso utilizzati per fare metafora del presente. Spesso i farciti da una certa propensione un po’ fighettina mediata da METAFORONI anche troppo urlati, almeno per i miei gusti, in una grammatica cinematografica che si alterna tra il realistico e il laccato, ma bisognerebbe essere ciechi per non vedere che la sua ultima fatica, questo “Civil War”, al momento tira una linea e riassume alla perfezione tutto il cinema di Garland facendo il punto sulla sua situazione di autore o per lo meno, della sua volontà di esserlo a pieno titolo.
“Civil War” parte da uno spunto molto semplice e nemmeno così improbabile come i fatti dell’assalto al Campidoglio hanno messo ben in chiaro. Gli Stati Uniti sono spezzati in due da una guerra civile con al centro l’alleanza tra due stati ribelli, opposti per indole, perché non riesco a pensare a qualcosa di più distante come filosofia di vita del Texas e della California. Tra alleati e ribelli, il conflitto interno lacera il Paese mettendo gli Yankee gli uni contro gli altri e tutto questo, ci viene presentato con il Presidente («Il Presidente di che?» cit.) barricato nella Casa Bianca che prepara un poco convinto discorso, anche se poi la trama segue un gruppo di reporter di guerra, con l’obbiettivo di raggiungere il presidente nella capitale per intervistarlo, prima di quella che sembra destinata ad essere un’inevitabile caduta per un’intera nazione.
Scritto e diretto da Alex Garland, sostenuto dai suoi due storici collaboratori, il direttore della fotografia Rob Hardy e il montatore Jake Roberts che fanno un grosso lavoro (spesso sprecato dall’abuso di lenti a focale corta, tanto amate da Sergio), inutile girarci attorno, la trama ruota attorno ad una giovane reporter appena ventenne, una fotografa di guerra di nome Jessie (Cailee Spaeny), cresciuta nel mito della sua eroina, Lee Smith, leggenda delle foto scattate durante gli scenari di guerra, interpretata da una Kirsten Dunst che ci ricorda che le bionde efebiche spesso invecchiano come contadine russe colte prima del tempo da un inverno rigido dopo un autunno tutto sommato mite. Come mi sia uscita questa proprio non lo so, forse avrei dovuto aggiungere un vero e proprio inverno.
Lee è disincantata, cinica, sembra ricordare a Jessie il principio per cui tante volte è meglio non incontrare mai i proprio eroi, ma con una nazione al crepuscolo forse, è anche il minore dei problemi e le due donne, troveranno un modo di legare lo stesso, anche considerando che nel gruppo troviamo Wagner Moura che finalmente batte un colpo dopo Narcos, e che qui conferma tutto il suo talento, anche nei momenti più intensi che comunque, in “Civil War” non mancano.
Un film che rappresenta l’esordio per la A24 nella produzione di “Blockbuster”, virgolette obbligatorie, visto che con i suoi cinquanta milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti di una nazione nella finzione narrata al tracollo, rappresenta un pulcino bagnato rispetto al costo medio del tuo filmone per tutti, però tutto questo è in linea con l’impostazione data dal regista al film.
Da un certo punto di vista è chiaro che “Civil War” nella sua semplicità (ora mi siedo qui e aspetto i criticoni dell’Infernet, che diranno che ha una trama troppo semplice, vediamo quanto ci metteranno ad arrivare), abbia parecchia voglia di risultare autoriale, per certi versi seguendo un po’ gli alti e i bassi della produzione di Garland, che abbraccia lo stile molto classico strizzando l’occhio a titoli come “Un anno vissuto pericolosamente” (1982) e allo stesso tempo, vorrebbe firmare il suo sconvolgente Salvador, con una differenza sostanziale: Oliver Stone, usava il cinema, quindi la finzione, per dire qualcosa di vero e concentro sulla politica estera americana, il nostro Garland invece, nei suoi momenti più paraculi in cui si trasforma in Alex Gardaland, si barrica come il Presidente del suo film dietro alla fantascienza distopica ed è qui che il mio post su “Civil War”, si ricollega all’inizio del mio post su “Civil War”.
Oliver Stone ci racconta del Salvador, basandosi su eventi reali, ma chissenefrega perché tanto molti americani, diciamo circa un 48%, non saprebbe nemmeno indicarlo su una mappa. Ma se raccontiamo una guerra civile nel cuore degli Stati Uniti, ovvero se usiamo la finzione cinematografica, magari qualcuno capirà che le guerre civili sparse per il mondo sono brutte, che è un po’ lo stesso principio descritto lassù, utilizzo scene a caso di un film (quindi finto) per rendere il reale un po’ più reale, anche se resta il dubbio di fondo: perché per il pubblico occidentale deve essere “vero” solo se accade in America? Qui ci vorrebbe una risposta complessa ad una domanda non così semplice, ma siccome andrei fuori tema, diciamo che è colpa di GIEI GIEI Abrams, tanto qualcosa di male l’ha fatto di sicuro, quindi non si sbaglia ed io posso tnare al vero e proprio commento del film. Visto? Ho usato vero e proprio.
La guerra civile è brutta, ma sul territorio americano di più, infatti si stanno sprecando parole da cinefili con la pipa e gli occhiali per l’ultima fatica di Garland, espressioni come “Un film necessario”, “Una storia importante” che coglie il momento storico (che vuol dire anno di elezioni negli Stati Uniti) a cui manca solo un bel “Vero e proprio” davanti per essere completo. Quindi la parte che ho trovato vagamente urticante in “Civil War” è quella sottotraccia sempre presente in tutta la filmografia del regista, che vorrebbe essere caustico e sanguigno come Oliver Stone, ma si barrica dietro allo scudo di plastica comodo della fantascienza. Garland poi in altri momenti cerca di essere satirico, ma allo steso tempo è troppo in posa da Autore (con pipa e occhiali) per mandare davvero a segno zampate in grado di non farti mai più guardare politici, militari e giornalisti allo stesso modo, come faceva ad esempio Joe Dante in quel capolavoro (si avete letto bene) che era “La seconda guerra civile americana” (1997).
Garland è sempre lì, nella Terra di Mezzo tra fare quel deciso e convinto salto tra i registi giusti e quelli che invece, qualunque cosa facciano (anche roba più che mediocre come Men) comunque si beccano qualche «Bravò!» quindi nel dubbio cosa fa? Punta sul suo pezzo forte, l’estetica. Anche se va detto che qui, un accenno di quel salto che per lui sarebbe auspicabile, almeno l’ho intravisto.
Il linguaggio utilizzato da Garland mescola diverse soluzioni, abbiamo il racconto del viaggio (anche un po’ di formazione, mentre la nazione attorno si sfalda) narrato in modo molto classico, anche nel ritmo e nelle scelte di inquadratura. Poi ci sono le parti d’azione, dinamiche, ruvide, macchina da presa a spalla e via, in equilibrio tra il realismo delle scene di guerra e i videogiochi bellici, quelli in prima persona, insomma, efficacissimo eh? Ma vagamente cerchiobottista.
Nel mezzo poi ci mette elementi “diegetici” (altro giro, altra parola da cinefilo che sentirete usare spesso con questo film), le fotografie scattate lungo tutto il viaggio dai protagonisti, raccontano a loro volta storie di un Paese allo sbando, e che vanno di pari passo con lo sviluppo (o in qualche caso, l’involuzione) di alcuni dei protagonisti. Bellissimo, anche se poi le “fotografie” prendono il possesso dello schermo e cristallizzano momenti, li rallentano, come succedeva in Dredd con la droga spacciata nel palazzo, Garland spara a mille tutta la sua ricerca estetica e nel mezzo dell’azione, o di una scena violenta, ci mette del Rap o in generale, della musica fuori contesto, cercando di cogliere il momento al rallentatore, come se fosse sceso dal lato Robert Capa del letto.
Oh! Tutto questo lo guardi pensando: «Garland, puro Garland», la somma di tutto quello che lo sceneggiatore e regista ci aveva già mostrato in precedenza fino ad ora, ma quando funziona davvero? Forse solo quando entra in scena Jesse Plemons, militare pronto a spiegarci con una sola domanda («Che tipo di americani siete?») quanto davvero sia spezzato in due il Paese che guida l’occidente e qui, non sto per forza parlando della finzione cinematografica, anzi.
Il personaggio di Jesse Plemons porta con se una delle scene più intense di un film in cui ogni tanto, in qualche dialogo, fanno capolino pallidi tentativi di satira, cancellando anche un paio di risatine che ho sentito in sala (storia vera), perché sempre che ormai, se in un prodotto americano per tutti, non si siano le battutine, il pubblico se le vada a cercare dove sono appena accennate. Poco male, da quel punto in poi un film che come i suoi protagonisti, riusciva a mantenere il giusto distacco richiesto dal ruolo, porta nella storia un freddo cinismo che mi ha un po’ ricordato “The Road” (2007) e che mette in moto la valanga, il crescendo che è il finale di “Civil War”.
Tirando le somme, se amate Alex Garland e la su idea di cinema, date il benvenuto al vostro nuovo film preferito, se invece fate parte della mia squadra e Garland per voi è ancora un autore in divenire, sicuramente “Civil War” sarà un deciso colpo sparato della direzione giusta, ma non ancora la zampata che avrebbe potuto essere, ci vedo ancora un po’ troppa propensione all’immagine laccata a tutti i costi, oppure semplicemente torniamo al punto per cui Joe Dante era già stato su questi territori, prima, e anche meglio. Mi dispiace Alex, anche questa volta sei arrivato secondo.
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