Quando la Pixar sforna un nuovo titolo, state sicuri che il sottoscritto non se lo perderà, figuriamoci, poi, se è un film come “Coco” ambientato durante los Día de Muertos, il fanatico di robe macabre che c’è in me è attirato magneticamente.
Bisogna dire che guardandolo, questo “Coco” porta nel suo DNA una decisa impronta classica Disneiana, un po’ come era già accaduto per Zootropolis che risultava piuttosto moderno per essere un classico Disney, insomma le due case di produzione ormai hanno gli uffici sotto lo stesso tetto e nel loro rapporto di buon vicinato s’influenzano gli uni con gli altri. Ed ora… sotto con la trama!
Nella cittadina messicana di Santa Cecilia vive Miguel Rivera, un ragazzino il cui destino è quello di… Fabbricare scarpe, come i suoi genitori e i suoi parenti su su su fino alla tris nonna Mamá Coco (Ana Ofelia Murguia in originale, da noi ehm, Mara Maionchi, lasciatemi l’icona aperta che ripasso). Ma Miguel (son mi!) non ha voglia di lavorare nella “Zapateria” (vedere tutte quelle volte “Pulp Fiction” è servito a qualcosa) di famiglia, lui sogna l’unica cosa che la sua famiglia ha totalmente bandito: la musica.
L’arma più potente del mondo: La ciabatta della nonna! |
Sì, perché mamma Abuelita è stata mollata dal papà fuggito per il mondo in cerca di gloria con la sua chitarra, quindi i Rivera hanno bandito la musica costringendo Miguel a coltivare la sua passione in gran segreto, sì, perché il piccoletto sogna di diventare come il suo grande idolo Ernesto de la Cruz: cantante, attore, istrione, in pratica una specie di Elvis Presley messicano.
Mentre tutti nella cittadina si preparano a festeggiare los Día de Muertos, esponendo le foto dei loro cari passati a miglior vita, Miguel medita di partecipare alla gara per talenti musicali, ovviamente le cose si complicano e rimasto drammaticamente senza una chitarra, Miguel pensa di prendere in prestito quella esposta nel mausoleo alla memoria di Ernesto de la Cruz e se per caso state pensando a Semola che in cerca di una spada per Caio mette le mani su una piantata dentro una grossa roccia, tranquilli, Disney e Pixar sono vicini di casa!
Mettendo le mani sulla sei corde Miguel finisce dell’altra parte, non del muro che vorrebbe costruire Trump (che sono sicuro amerà tantissimo questo film pieno di Messicani), intendo proprio dire dall’altra parte, in un mondo appena sotto e dove vanno tutti una volta lasciata questa valle di lacrime, unico ragazzino vivente in un paese di scheletri e, per dirla alla John Nada: «Sono circondato da teste di morto!»
L’unica occasione in cui i parenti non possono dirti che sei pelle e ossa. |
L’unico modo per tornare tra i vivi è ricevere la benedizione di un parente, lasciapassare per la terra di noi respiranti, bisognerebbe trovarne uno che non vuole vietare al ragazzo di suonare come lui desidera e complice una foto portata via dall’altarino per i defunti, Miguel capisce che il suo scomparso parente, quello che ha scatenato il patatrac musicale in casa Rivera, non è altro che il mitico Ernesto de la Cruz, il suo eroe!
La reazione spontanea che ti coglie quando incontro il tuo mito. |
Per raggiungerlo Miguel troverà l’aiuto di un esule di nome Hector (in originale doppiato da Gael García Bernal) strimpellatore giramondo dimenticato perché tumulato senza una foto, questo strambo soggetto potrebbe portarlo da de la Cruz, ma bisogna fare presto, solo durante los Día de Muertos è possibile zompare da un mondo all’altro e man mano che passano i minuti le sue dita scompaiono sempre più diventando, beh… scheletriche.
Un ragazzino che deve suonare un pezzo allegrotto (qui “Poco Loco”, ma potrebbe essere che so, “Johnny B. Goode”) per risolvere un problema di famiglia mentre le punte delle sue dita iniziano a scomparire non so voi, a me ricorda qualcosina che, però, non era di proprietà della Disney, oh ma poco importa, tanto dopo la Fox si compreranno anche loro, quindi non fateci caso!
Se anche voi come me siete stati grandi videogiocatori di avventure grafiche della Lucasart, allora un pezzettino del vostro cuoricino batterà ancora per quel capolavoro chiamato “Grim Fandango”, un’avventura in puro stile Noir, una specie di Casablanca ma con Manny Cavalera, un Humphrey Bogart decisamente più pelle e ossa (ma anche solo ossa!)
«Ah la mia falce! Mi piace tenerla qui dove una volta c’era il mio cuore» (Cit.) |
“Coco” si gioca la stessa splendida ambientazione, gli scheletri protagonisti ricordano proprio il trucco sul viso usato durante los Día de Muertos e gli animatori della Pixar si divertono a popolare il mondo di personaggi tipici della cultura messicana, si va dalla tostissima Pepita (una tigre gigante, animale guida sulle tracce di Miguel) fino ad alcuni personaggi storici e più che alle tante gag di Frida Kahlo, vorrei citare la comparsata di El Santo, il più grande Luchadores della storia del Messico, ay carramba!
Mi basta una maschera da Luchadores per farmi contento. |
Ma oltre al design di personaggi ed ambienti (La Lucasart adesso fa ufficialmente parte della Disney no?) la regia è ottima Lee Unkrich e Adrian Molina, non sono gli ultimi della pista, basta dire che sono responsabili di un paio di “Toy Story”, quindi a curriculum sono ben messi (ah ah! Hai detto culum!)
Come ogni cartone animato non può mancare la morale di fondo, quella di “Coco” tiene botta per parecchio tempo, cercare se stessi seguendo i propri sogni, con il passare dei minuti diventa, ma ricordati che la famiglia ti vuole bene e (dovrebbe) supportarti, per poi scadere in un forse anche fin troppo conservatore: la famiglia prima di tutto. Eh, vabbè.
Para bailar La Bamba se necessita una poca de gracia… |
Di pari passo procede a colpi di canzoni, anche una certa critica alla fama, non voglio rovinarvi la trama che comunque tiene botta almeno fino ad una certa rivelazione piuttosto grossa, a mio avviso, dopo quella, il film perde un po’ di mordente, imboccando un finale che a quel punto diventa prevedibile, ma che fino ad un minuto prima non era così scontato.
Un mondo pieno di ossa ed ossicine, in pratica il sogno del mio cane! |
Per fortuna, “Coco” nel finale si gioca appunto la Coco del titolo, l’adorabile vecchina sulle cui fragili spalle sta tutta l’emotività di una storia che nei minuti finale rischiava di perdersi tra troppe canzoni. Ora, permettetemi di chiudere l’icona lasciata aperta là sopra, facciamo finta di aver già fatto tutto il discorso sul “Più grande doppiaggio del mondo che però poi fa doppiare i film a doppiatori non professionisti”, ma scegliere Mara Maionchi per dar voce alla tenere vecchina mi ha fatto temere che la nonna scoppiasse in uno sguaiato: “MA VAFFANCULO VAAHHH!!” che, per fortuna, non arriva, ma onestamente è una scelta che non comprendo, se non per l’antico discorso rate del mutuo da pagare.
Insomma, se escludiamo un fisiologico calo di ritmo del finale, devo dire che ho apprezzato questo “Coco”, però se proprio volete farmi contento amici della Disney/Pixar, calate la maschera a la prossima volta fatemi un bel film su “Grim Fandango”, non sarebbe niente male.