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Collateral (2004): odissea nella notte di Los Angeles

Il post di oggi richiederà di adattarci, di seguirei il flusso, Darwin I Ching roba così, quindi non perdiamo altro tempo, ready steady go e benvenuti al nuovo capitolo della rubrica… Macho Mann!

Dopo l’immotivato insuccesso di Alì, Michael Mann è subito al lavoro sulla biografia di un’altra figura di spicco della storia americana, Howard Hughes su una sceneggiatura di John Logan, ma il vincolo di un’altra storia vera poteva essere un limite per il regista di Chicago, ecco perché rimase a bordo dell’aeroplano di “The Aviator” (2004) solo in veste di produttore, prima di passare il progetto a Martin Scorsese, il nostro Michele Uomo aveva un’altra strada da percorrere, possibilmente di notte.

Perso nella notte e nei vari cassetti delle scrivanie di Hollywood era anche il soggetto di “The last domino”, firmato dallo sceneggiatore australiano Stuart Beattie, un progetto che fece un giro enorme, venne proposto a registi come Mimi Leder e per un po’ finì nel mirino della compagnia di produzione fondata da Frank Darabont (che, infatti, risulta tra i produttori) che per un lungo periodo pensarono di farne un film a basso costo per il canale televisivo HBO, almeno finché la sceneggiatura non finì misteriosamente nella mani di un neozelandese in quel periodo piuttosto famoso.

Il professor Michele Uommo insegna la posa degli eroi della Bara a Tommaso Missile, suo studente laureando.

Russell Crowe in quel periodo della sua vita, ogni febbraio aveva una poltrona ad attenderlo durante la cerimonia degli Oscar, la storia del killer Vincent che sale sul taxi di Max gli interessa molto, forte dell’esperienza con Insider è lui a proporre Michael Mann come regista, ma poi seguendo il flusso, Darwin I Ching e quella roba lì, si stufa presto con le lungaggini della preproduzione, quindi lascia solo Mann alle prese con lo sceneggiatore Stuart Beattie che per il ruolo di Vincent vorrebbe Robert De Niro in un film tutto ambientato a New York. Me lo immagino Mann, fresco dell’aver appena consegnato un film proprio a Scorsese, davanti ad una richiesta del genere, lui che De Niro lo ha diretto, ammettiamolo anche piuttosto benino. Per essere un film dove Michele Uommo non ha rimesso mano alla sceneggiatura (cosa più unica che rara nella sua filmografia), il regista di Chicago ottiene un cambio di titolo, nel ben più significativo “Collateral”, attira l’attenzione di un altro divo come Tom Cruise, interessato al ruolo di Vincent che passa da serial killer a freddo sicario in missione, ma soprattutto sceglie lui l’ambientazione del film, a mio avviso il vero motivo per cui Mann ha deciso di dirigere questo soggetto, perché il regista non sarà di Los Angeles, ma pochi hanno raccontato la Città degli Angeli al cinema meglio di lui.

«Raga solo una birra, non finiamo a girare ubriachi per Los Angeles fino alle cinque del mattino come al solito, ok?»

Se Alì sperimentava con il digitale, la sfida per Mann e i suoi due direttori della fotografia (Dion Beebe e Paul Cameron) è quella di girare un intero film in digitale, perché per Mann la città di Los Angeles doveva essere protagonista tanto quanto Vincent e Max, doveva risplendere nella notte, basta guardare “Collateral” per pensare: missione compiuta.

A proposito di missioni, oggi siamo abituati a pensare a Tommaso Missile come ad un eroe dell’azione, uno che ha sostituito la sia volontà di vincere un Oscar con il desiderio di morire sul grande schermo, impegnato in qualche stunt senza controfigura, una tradizione iniziata proprio con il primo “Mission: Impossibile” (1996) di Brian De Palma, ma non bisogna dimenticare il fatto che anche Tommaso Missile, proprio come Will Smith prima di lui, si è laureato all’Università Mann per gli attori, la sua prova in “Collateral” è stata, ovviamente, ignorata dall’Accademy (come sempre con Macho Mann di mezzo), ma forse è l’ultima volta in cui Tommaso Missile ha fatto l’attore e non la parte di se stesso.

L’ultima grande prova inseguendo un Oscar per Tommaso, prima di dedicare la sua filmografia all’azione.

Mann lo ha fatto allenare a sparare come un forze speciali (due colpi al petto e uno alla testa), poi, non pago, gli ha chiesto di vestirsi da corriere UPS, con la missione di consegnare alcuni pacchi in giro per la città, seguito da una telecamera nascosta (ovviamente digitale), con la precisa richiesta di interagire con le persone, ma senza farsi riconoscere, complicato quando il tuo volto è solo uno dei più famosi e popolari sui poster delle camerette di tutto il pianeta, ma fondamentale per calarsi nel ruolo di Vincent, un personaggio a cui Mann ha fornito una storia passata (nato nell’Indiana, figlio di un padre violento) che nel film non viene nemmeno accennata, ma serviva a Tommaso per calarsi nel ruolo di un fantasma, un uomo invisibile in una città che non gli appartiene, pensateci: capelli grigi, abito dello stesso colore, altezza (si fa per dire) media, età indefinibile (in quanto Tom Cruise), Vincent è già l’uomo della sua storiella, quello che sale sulla metropolitana e muore, senza che nessuno si accorga che il suo cadavere ha fatto il giro di una città a cui, per certi versi, è completamente collaterale.

Un fantasma in una città che non gli appartiene.

La poetica Manniana è chiara fin dal suo esordio, già in Strade Violente abbiamo trovato professionisti dediti al loro lavoro, calati in una città dall’estetica impossibile da ignorare, in corsa contro il tempo e pronti a riflettersi nel proprio opposto, con il rischio di scoprire qualcosa su loro stessi, qui a mancare è il consolatorio utilizzo dell’acqua e del “Blu Manniano”, se proprio non vogliamo ricercarlo della cartolina dell’isola che Max tiene nell’aletta parasole del suo Taxi e che utilizza per “evadere” dalla ruotine, per questo “Collateral” è forse il titolo migliore per fare la conoscenza del cinema di Mann, per accedere alla sua poetica, perché ne mantiene tutte le caratteristiche, semplificate, ma chiarissime, anche la contrapposizione tra il colore delle pelle dei due protagonisti che sembra arrivare dritta da Miami Vice e che a differenza di registi di riferimento come Walter Hill, per Mann non è mai un elemento politico o sociale, tanto che il regista aveva pensato ad Adam Sandler per il ruolo di Max, fresco della sua prova drammatica in “Ubriaco d’amore” (2002), ma l’attore deve aver preferito evitare l’Univeristà Mann e per questo è stato scelto qualcuno già pronto ai metodi del regista, Jamie Foxx al secondo film con Mann (e il tassametro corre, è il caso di dirlo) si portò a casa una nomination all’Oscar dando spessore al personaggio, forse l’unico momento in cui il colore della sua pelle viene evocato, resta quando il boss Felix (Javier Bardem) lo sfotte dandogli dell’aiutante di Babbo Natale, pedro el negro, ma l’espressione di incazzato disgusto di Foxx davanti alla parola con la “N” è solo uno dei tanti tocchi di una prova assolutamente perfetta.

Il taxista di notte, quello a suo agio lungo queste strade.

“Collateral” è la prova di cosa può tirare fuori un regista da un soggetto non scritto di suo pugno, ma suo nel DNA, perché questo film risulta essere Manniano fino al midollo, anzi se posso aggiungere una nota personale, oltre ad essere il titolo perfetto da consigliare a chi volesse avvicinarsi al lavoro del regista di Chicago, resta anche il tipo di film che vorrei vedere sempre: storie di uomini che s’intrecciano, su un poliziesco tesissimo, tutto ambientato in un’unità di tempo e di luogo (poche ore e un taxi) lungo le strade di una città, i cui vicoli, svolte, sopraelevante e locali diventano veri protagonisti, quindi ho pochi dubbi per me “Collateral” si merita un posto tra i Classidy!

La trama è semplice: Vincent (Tommaso Missile) sbarca all’aeroporto, sbatte contro Jason Statham e invece di morire sul colpo come accadrebbe a chiunque sbattendo contro la roccia britannica, riceve una valigetta e un benvenuto nella Città degli Angeli, perché Vincent è tutto tranne che un angelo, ma è un personaggio apparentemente proattivo.

Il momento in cui Jason Statham ha definitivamente perso il resto dei capelli (anche se a ruoli invertiti questi due…)

Ad una prima occhiata un agente del caos che ama far accadere gli eventi («lo hai ucciso tu», «No io gli ho sparato, i colpi e la caduta lo hanno ucciso»), giusto per continuare la mia crociata personale, da dove pensate che sia uscito il pagliaccio pazzo di quello che vorrebbe fare Mann da grande? Dal Vincent di questo film che, non a caso, si diverte a mentire (o forse no) sul suo passato, per tenere Max sulla corda.

«Show me the money!» ah, no scusate, quello era un altro film.

Vincent è il personaggio che improvvisa fuori dallo spartito come lo descrive Pier Maria Bocchi nel suo fondamentale “Michael Mann creatore di immagini” (edito da Minimum Fax), non a caso ama il Jazz e appena è in anticipo sul suo percorso a tappe del suo “contratto immobiliare” (virgolette obbligatorie), trascina uno sconvolto Max in un Jazz club, per parlare di Miles Davies con uno degli attori feticcio di Mann, Barry Shabaka Henley che si rivela essere, in realtà, solo un’altra tappa della lunga notte di lavoro di Vincent.

«Di’ “cosa” un’altra volta, di’ “cosa” un’altra volta!», «Guarda che anche quello era un altro film»

La bellezza di “Collateral” sta anche in questo essere un po’ più sfaccettato del semplice scontro, dei danni collaterali generati dalla contrapposizione del freddo Killer sempre in controllo Vincent e del “caldo” tassista Max, l’uomo con il taxi più ordinato di Los Angeles, uno con cui mi viene molto facile immedesimarmi perché come lui odio quando mi fanno saltare per aria la routine mettendo in disordine le mie cose e la mia giornata, ma in realtà i due personaggi sono più di due semplici opposti: ordine contro caos, assassino contro civile, come nelle teorie di Darwin o nell’I Ching spesso citati da Vincent (e da Max quando è costretto a spacciarsi per lui), un elemento senza controllo ha il suo ruolo, ma il vero scontro in “Collateral” è nel gioco di forza tra i due personaggi agli antipodi che finiranno per riflettersi uno nell’altro non solo attraverso lo specchietto retrovisore del taxi di Max.

«Ma non potevi prendere l’autobus come fanno tutti? La metro? Non ti piace viaggiare in metro?»

d una prima occhiata Vincent è quello in controllo, colui che colpisce la prima tessera dando il via all’effetto domino, in realtà anche in “Collateral” proprio come in Heat, il caso, le coincidenze hanno il loro peso specifico, elementi che, come abbiamo visto, di norma un buono sceneggiatore dovrebbe dimenticarsi quando scrive, perché le coincidenze al cinema passano per cattiva scrittura o trovate pigre di sceneggiatura, ma nella vita esistono e per la seconda volta Mann al cinema non solo le controlla, ma ne fa un elemento chiave della sua storia.

Max sembra in balìa del caos (quindi di Vincent), in realtà è l’assassino ad avere bisogno di lui, lo sceglie per caso o forse per istinto, ma trova un tassista in grado di portarlo dove vuole nel tempo pronosticato («Sette minuti, non otto e non sei»), Max minimizza («Sono stato fortunato con i semafori»), ma i due personaggi sono opposti anche perché Vincent in città è fuori luogo («Decisamente non è di qui» dice Max quando Vincent lascia la sua borsa in bella vista sul taxi), mentre l’altro sembra stato partorito della città, la conosce come le sue tasche, per Vincent LA è un incubo dove puoi morire sul vagone della metro senza che nessuno se ne accorga, per Max è casa sua, tanto che, infatti, è lui il personaggio veramente proattivo, quello che fa scatenare gli eventi.

Fatti non foste a viver come bruti taxisti.

Vincent deciderà pure di ammanettare Max al volante con le fascette elettriche, lo trascinerà in ospedale a trovare la madre dell’autista, facendo cadere il suo castello di bugie, quelle con cui Max mente a se stesso e che lo rendono intrappolato nella sua routine che sarà anche sicura, ma per lui è una gabbia, da cui non riesce a liberarsi nemmeno quando ci prova, infatti, fateci caso, è lui che mette la retro per dare un passaggio alla bella avvocatessa Jada Pinkett Smith che se fosse stato un idraulico con i baffi di nome (super) Mario, state tranquilli avrebbe ignorato, anche se poi non riesce a chiederle di uscire, perché a Max manca quella spinta oltre la porta che sarà rappresentata da Vincent.

«Non sarà mica tua marito quello? No, perché ho sentito che è un tipo nervosetto»

Però è sempre Max a decidere di dare un passaggio proprio a Vincent, aprendo idealmente al caos, eppure è anche quello che decide di parcheggiare proprio sotto la finestra dalla quale il killer farà piovere cadaveri e sarà sempre lui a decidersi di ostacolarlo, distruggendo prima la valigetta con i dati e poi inscenando con lui un duello negli uffici, che Mann dirige grazie al digitale al buio, non il classico blu scuro che anni di film ci hanno insegnato per convenzione ad accettare come personaggi che brancolano nel buio, intendo proprio il nero della notte, di quando va via la corrente, perché tanti registi amano la pellicola, ma Mann è stato uno dei primi a capire che il digitale ti permette, tra i tanti vantaggi, anche di mantenere i colori sul grande schermo come siamo abituati a vederli nella realtà, per questo la sua Los Angeles è così reale anche quando Mann decide di dargli un tocco onirico, quasi selvaggio con la scena del coyote (non Willy).

Beep Beep!

Sottolineare l’entrata in scena del predatore (per certi versi un altro) non solo sottolinea il momento in cui qualcosa nella testa di Max scatta, ma è anche la continuazione ideale dei momenti musicali messi a punto fin dai tempi di Miami Vice, il fatto che, poi, abbia scelto “Shadow on the sun”, semplicemente il più bel pezzo degli Audioslave in linea di massima aiuta alla resa finale della scena e del film.

«Scelta musicale discutibile, gli Audioslave poi erano un gru…» BANG! BANG! BANG!

Proprio come Vincent e Max, però, Mann è pronto ad adattarsi, a seguire il flusso sperimentando e improvvisando anche fuori dallo spartito, ma pronto a rientrarci quando la storia lo richiede, ecco perché la sparatoria nel locale è l’unico momento girato dal regista di Chicago su pellicola (35mm), sulle note ritmate di “Ready Steady Go”, Mann firma un momento d’azione in cui tutti i personaggi, compreso il detective interpretato da Mark Ruffalo (ve lo ricordate prima della sua vita da Hulk che attore era? Ecco, qui potete ripassare) mi verrebbe da dire… Collidono tutti nello stesso punto, Mann organizza tutti questi personaggi in movimento con una coreografia dove come spettatori, nemmeno per un momento non abbiamo chiaro dove ogni personaggio coinvolto si trovi, un controllo del tempo e dello spazio che si conferma anche nel finale, ovviamente in metropolitana.

Tutti i film belli dovrebbero avere una scena in metro, Mann mi offre materiale per questa teoria.

Cosa vi dico sempre? Ogni grande film dovrebbe avere una scena in metro e Mann è il poeta delle scene in metropolitana, anche qui, a ben guardare, il fato e la casualità ritornano, ma sembra quasi che sia la città a proteggere Max (il suo figlio prediletto) con il tassista che sale di corsa sul vagone migliore e la luce che salta proprio quando ne ha più bisogno, non è un caso se Mann ha voluto spostare la storia nella città che non sarà quella che gli ha dato i natali, ma quella che conosce meglio e che nessuno forse meglio di lui, ha saputo raccontare così bene al cinema.

“Collateral” è la classica storia ad una prima occhiata semplice, in realtà più sfaccettata di quello che si potrebbe pensare, in cui l’estetica non è mai fine a sé stessa, anche perché nel cinema di Mann non lo è mai, Max e Vincent sono due icone in movimento che si scontrano, creando anche effetti collaterali, due archetipi narrativi raccontati per immagini da uno dei più grandi Maestri dell’immagine (che diventa sostanza) cinematografica, niente male per essere un film di cui non ha scritto nemmeno la sceneggiatura.

Prossima settimana, faremo un altro viaggetto nelle immagini Manniane, spero che vi piaccia il Mojito perché andiamo in un posto dove lo fanno benissimo, tra sette giorni qui, non mancate!

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