Sarebbe bello poter chiedere a Richard Stanley che cos’ha
fatto in tutti questi anni, probabilmente come Noodles ci risponderebbe che è andato a letto presto, per leggere
quanti più racconti di H.P. Lovecraft possibili.
Il regista sudafricano, il genietto che ci ha regalato Hardware e Dust Devil, non dirigeva qualcosa di diverso da documentari sull’occultismo
da quell’enorme pasticciaccio brutto intitolato L’isola perduta, un film e una storia produttiva così tormentati da
essere in grado di spezzare la carriera (e la volontà) a chiunque, ma non al
regista con il cappello che cinque anni fa circa ha promesso un adattamento
cinematografico del racconto di H.P. Lovecraft, “Il colore venuto dallo spazio”
(1927) e ha mantenuto la parola data.
fogli verdi con sopra facce di altrettanti ex presidenti defunti come Budget e
un solo grande nome in cartellone, quello di Nicolas Cage, capace da solo di
attirare il pubblico, oppure di far scappare via quei poveri di spirito che
ancora si ostinano a non capire la regola Cage: Nicola recita in un film? Quel film
si guarda. Punto. Se poi lo dirige Richard Stanley, ancora di più.
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Nicolas Cage l’attore che riesce a dare di matto, solo come i personaggi di Lovecraft sanno fare. |
Trent’anni esatti dopo il suo esordio con Hardware e quasi venticinque dopo il
disastro del dottor Moreau, Stanley riparte dal solitario di Providence e dall’attore
più… Diciamo sopra le righe, perché matto potrebbe essere un’affermazione
forte, ovvero Nicolas Cage, colui che Stanley desiderava in un suo film dai
tempi di Devil Dust (storia vera) e
che, per altro, ha almeno una cosa in comune con il regista con il cappello: entrambi
in qualche modo sono stati legati alla ricerca del Sacro Graal (storia vera).
mantenendo il suo status di divo vecchia scuola, cercando di coltivare una
certa aurea di mistero, perché quando si apre al pubblico (in interviste come
quella lasciata al New York Times),
vengono fuori perle degne del “Vangelo secondo Cage”. Purtroppo, Richard Stanley
e la sua capacità di scomparire anche per anni, lo rendono un personaggio ancora
più riservato, quindi non sapremo forse mai cosa potrebbe essere uscito fuori
delle interazioni tra il divo più, più.. Beh, Nicolas Cage (che è già un
aggettivo) di Hollywood e il regista, ma vi giuro che pagherei tanto oro quanto
peso per conoscere il contenuto medio di un qualsiasi dialogo tra questi due
stranissimi bipedi.
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Vi prego ditemi che qualcuno ha registrato la conversazione, vi prego! |
Ma un’altra ottima ragione per stimare sia Nicola che
Riccardo è che fanno parlare i fatti al posto loro e “Color Out of
Space” parla, canta, balla e fa di conto. Un film in cui non s’intravedono per
niente gli anni “in panchina” del regista, anzi, risulta un lavoro fresco, in
grado di portare Lovecraft e le sue trame dritte nel 2020, ci voleva la
dedizione di Stanley per riuscirci, ma anche quel suo modo di essere fuori dal
tempo, come se arrivasse anche lui da molto più lontano del Sud Africa.
il solitario di Providence. Quello che trovo straordinario di Lovecraft non è
certo la sua prosa, in alcuni casi anche piuttosto macchinosa, nelle sue storie
il cosa viene raccontato, supera molto spesso il come ci viene raccontato, per
questo trovo i suoi racconti piuttosto ipnotici nell’andamento. Il “cosa” che ci
viene raccontato, però, è spesso anti-cinematografico, sulla carta puoi cavartela
scrivendo che un orrore è tale da non poter nemmeno essere descritto e allo
stesso modo puoi permetterti di suggerire in modo efficace usando la parola
scritta, geometrie, oppure (come in questo caso) colori che sono impossibili nella
realtà, ma nel momento di raccontare la stessa storia sul grande schermo, con
un media prettamente visivo come il cinema, la faccenda potrebbe diventare
parecchio complicata.
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“Di’ un po’, ti sei laureato davvero alla Miskatonic University, oppure hai comprato solo la maglietta?” |
Ecco perché gli adattamenti dei racconti di Lovecraft che
sono arrivati al cinema lo hanno fatto cercando di essere più fedeli possibili
(con lavori quasi indipendenti come The Call of Cthulhu) oppure abbracciando la via dell’adattamento, i lavori più
Lovecraftiani di sempre sono stati quasi tutti diretti da registi che hanno
dimostrato di aver capito la lezione del solitario di Providence e sono stati
in grado di tradurla in materiale visivo per il cinema, sto pensando ai film di
Stuart Gordon e John Carpenter, da sempre due dei più Lovecraftiani registi in
circolazione.
cinema Horror da sempre, portare al cinema “Il colore venuto dallo spazio”
risulta complicato anche perché il colore ha infettato moltissime pellicole, da
“La morte dall’occhio di cristallo” (1965) passando per “The Blob” (originale e
remake), fino a La Cosa, Annientamento e perché no, anche “La
morte solitaria di Jordy Verrill” direttamente da Creepshow.
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Nicolas Cage dallo spazio profondo. |
Tutto questo per dire che per portare al cinema nel 2020, le
circa ottanta pagine di “Il colore venuto dallo spazio” rispettandole fedelmente,
ha come effetto collaterale quello di ritrovarsi con un film pieno di dinamiche
e di situazioni che al pubblico moderno potrebbero risultare già viste tante
volte e ve lo dico chiaramente: per me è anche l’unico “difetto” (virgolette
più che mai obbligatorie) di questo film, perché Richard Stanley non solo
dimostra di avere una discreta dose di fegato nel decidere di portare al cinema
il più visivo dei racconti di Lovecraft, ma dimostra di aver capito in pieno la
sua lezione, in “Color Out of Space” a contare non è cosa ci viene raccontato,
ma come.
Se avete letto il racconto “Il colore venuto dallo spazio”,
quello che sta per arrivare è un monito inutile, in ogni caso anche se resterò
molto sul vago riguardo al contenuto della trama, per trasparenza lo scrivo
lo stesso: SPOILER (moderati).
dal racconto originale e continua raccontandoci una versione aggiornata della
famiglia Gardner e della loro nuova vita da agricoltori e allevatori di
Alpaca, in una casa isolata poco fuori la cittadina di Arkham nel Massachusetts
immaginario di Lovecraft.
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“Guarda cara, una stella cadente fucsia, esprimi un desiderio”, “Voglio scambiare il mio ruolo con Patricia Clarkson” |
Il timore del vecchio H.P. per la tecnologia, qui si manifesta sottoforma di problemi di natura tecnica con la connessione Wi-Fi di casa (Internet che non
va, ecco una cosa che fa davvero paura!), mentre Stanley aggiunge alla storia l’elemento
esoterico che gli sta molto a cuore, trasformando la figlia Lavinia Gardner (Madeleine
Arthur) in un’adolescente ribelle con la predilezione per la magia Wicca. Il
resto dei personaggi è tutto sommato molto canonico, abbiamo il figlio grande
un po’ toncolo appassionato di quelle sigarettine un po’ storte da fumare
preferibilmente non in pubblico Benny (Brendan Meyer) e l’occhialuto figlio più
piccolo Jack (Julian Hillard) sempre accompagnato dal cane di famiglia Sam.
Richardson) uscita da poco da un intervento grosso e papà Nathan che Nicolas
Cage sceglie di interpretare con occhiali, camicia e quadri e tutti i tick che
vi aspettereste da una delle sue prove, questa volta giustificata da due fattori.
Il primo: i protagonisti della storie di Lovecraft diventano
progressivamente folli con il passare dei minuti, per una gazzella come Cage, un invito a correre. Per quanto riguarda il secondo pare che Richard
Stanley affascinato (come tutti) dalla prova di Nicola in “Stress da vampiro”
(1989) gli abbia chiesto: «Nick, potresti recitare proprio così?» (storia
vera).
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“No, sul serio, ho visto tutti quei meme su di te, ti voglio proprio così, uguale uguale” |
Se cercate su questa Bara qualcuno che vi parlerà male del
nipote di Francis Ford Coppola, cascate male perché Nicola è sempre stato uno
dei miei prediletti (e anche del mio cane. Storia vera), quando un regista sa
come utilizzare il suo talento, Nick è l’arma definitiva che vorresti sempre avere
a portata di mano, in “Color Out of Space” è perfetto quando comparendo in tv
come testimone oculare dello strano meteorite precipitato nel suo cortile di
casa, decide di recitare l’intervista televisiva grattandosi la testa in
maniera nevrotica, sembrando subito un pazzo mitomane (ruolo per cui Cage, ammettiamolo,
è anche piuttosto portato).
alla grande e nei momenti giusti, tanto che sfido anche il più accanito dei
suoi detrattori a dirmi che davanti agli orrori che Nathan Gardner è costretto
a far fronte, voi non reagireste nello stesso identico modo. Sul serio, guardate
il film e poi venite a dirmelo. “Color Out of Space” rientra nettamente tra le
migliori prove di Nicolas Cage, perché sta perfettamente a metà tra Mom and Dad e Mandy, ovvero i suoi ruoli recenti più riusciti. Menzione speciale,
quando urla «SLAM DUNK!» scaraventando nel cestino della cucina i pomodori resi
giganti ma disgustosi, per effetto del meteorite caduto dal cielo. Grazie
Nicola, questo mondo appartiene a te e noi siamo tutti tuoi ospiti!
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Nemmeno l’eccentricità si vestirebbe come Nicola (Grazie Maestro!) |
Ma se “Color Out of Space” è un ottimo film, lo dobbiamo
alle soluzioni uscite da sotto il cappello di quel genietto di Richard Stanley
che con questo film sembra un bambino libero di giocare con i suoi giocattoli
Lovecraftiani. Ecco perché il personaggio esterno alla famiglia a cui è
dedicato il prologo e l’epilogo del film si chiama Ward Phillips (Elliot Knight)
che ricorda volutamente (Ho)ward Phillips, un ragazzo che dice di arrivare da Providence e per tutto il film indossa
una maglietta della Miskatonic University, tutto citazionismo gustosissimo che
non appesantisce mai la visione del film. A proposito di citazioni, mi ha fatto
molto ridere il fatto che ad un certo punto Cage in tv si metta a guardare un
film con… Marlon Brando.
cinematografico da più di vent’anni, “Color Out of Space” mantiene
perfettamente in equilibrio il ritmo scoprendo le carte poco alla volta, in un
crescendo che nel finale risulta assolutamente riuscito e coinvolgente, anche
grazie alle ottime musiche di Colin Stetson. La concessione che il regista sudafricano deve fare è unica e
anche piuttosto ovvia: il colore impossibile da determinare per l’occhio umano
del racconto originale, al cinema deve per forza avere una tonalità, quella
scelta da Stanley e dal suo direttore della fotografia Steve Annis è un fucsia acidissimo con punte di azzurro qua e là,
che conferma la capacità di Stanley di sapere ancora come darci dentro con l’uso
esagerato del colore al cinema, questa volta più necessario che mai per la buona
riuscita del film.
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E Stranger Things… MUTO! |
Consapevole di non avere per le mani un budget stratosferico,
Stanley utilizza al meglio le attese e centellina la CGI (poca, ma davvero
buona) per mostrarci gli effetti dello strano colore spaziale rilasciato dal
meteorite precipitato a casa Gardner. Ma quello che riesce meglio a Stanley, è
trovare il modo di rendere personale l’orrore cosmico impossibile da raccontare
per immagini di Lovecraft, per farlo il regista con il cappello decide di fare
la scelta più sensata, portarlo al pubblico attraverso i personaggi.
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Adesso abbiamo capito da dove arrivava il fungo di Super Mario. |
Forse non potremmo capire cosa vuol dire trovarsi davanti ad
un colore impossibile da descrivere, ma ognuno di noi ha tutti i mezzi per
capire la sofferenza di una persona a cui vuole bene, quindi anche se i
protagonisti del film sembrano tanto degli archetipi narrativi visti parecchie
volte in passato, quando accade loro qualcosa di orribile, è impossibile non
risultare emotivamente coinvolti, se poi l’orrore è mostrato con effetti
speciali così orgogliosamente vecchia scuola, il risultato finale non può che
farti venire voglia di aggrapparti ai braccioli.
la visione a nessuno, ma le mutazioni realizzate da Dan Martin strizzano volutamente
l’occhio a quelle del leggendario Rob Bottin (e di certo non è una COSA successa per caso) riuscendo, grazie
all’ottimo lavoro di Richard Stanley, a risultare drammatiche e orribili in parti
uguali.
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Le porte delle percezione sono aperte. |
Gli ultimi venti minuti del film poi sono eccellenti, Richard
Stanley come un perfetto direttore d’orchestra fa filare alla perfezione tutti
i membri della sua orchestra, fotografia, effetti speciali, movimenti di
macchina da presa, montaggio sonoro e le prove di recitazione del cast lavorano
all’unisono per creare sul grande schermo un crescendo di follia e orrore degno
delle ultime pagine dei racconti di Lovecraft, quindi importa davvero
pochissimo il fatto che il colore impossibile da scrivere alla fine sia il
fucsia, davanti ad una dimostrazione così chiara di talento da parte di un
regista che ci dimostra di aver capito davvero Lovecraft, il fucsia non sarà
mai più lo stesso.
“Color Out of Space”
era il film che attendevo di più di questo 2020 ed oltre ad essere ottimo è
anche la conferma di un ritorno di un grande talento come quello di Richard
Stanley che spero non decida di usare i suoi poteri di sparizione un’altra
volta. Pare che il regista con il cappello abbia annunciato di voler restare
dalle parti di Providence, il suo
prossimo lavoro sarebbe l’adattamento di “L’orrore di Dunwich” (1928), non
posso chiedere davvero di meglio!