A due anni di distanza dal successo termo globale e anche un po’ nucleare di Jurassic Park, il mondo aveva ormai definitivamente scoperto quel moderno Jules Verne che è stato Michael Crichton, questa è la storia di come Hollywood è tornata all’attacco della sua bibliografia.
Alla sua uscita venne ribattezzato scherzosamente “Jurassic Man”, anche perché la squadra alle spalle era più o meno la stessa, no, non El Senor Spielbergo in persona alla regia, ma il resto della sacra trilogia che ha firmato la nostra infanzia, Kathleen Kennedy a produrre e Frank Marshall questa volta anche in veste di regista, al suo terzo film dopo Aracnofobia e Alive, titolo da cui Marshall si è portato dietro anche lo sceneggiatore di fiducia, John Patrick Shanley, che però qui ha omesso un particolare non da poco del romanzo di Crichton omonimo del 1980, trama del film in arrivo, poi affrontiamo la questione.
La Travicom, società che finanzia l’esplorazione alla base della storia, vuole mettere le mani su alcuni diamanti blu in grado di generare abbastanza energia da alimentare un congegno aerospaziale fondamentale per le comunicazioni e il futuro dell’umanità, che a ben guardare è rappresentato dal fatturato della Travicom. La prima spedizione capitanata da Charles Travis finisce malissimo, per questo la sua collega e fidanzata Karen Ross mette su una seconda squadra, ufficialmente per i brillocchi, ufficiosamente per ritrovare – lei spera vivo – il fidanzato, il dialogo in cui la ricercatrice dice al CEO dell’azienda una roba del tipo «Se scopro che lo fai solo per soldi…» è il momento più di fantascienza di tutto il film, giustificabile con il fatto che la scienziata è bionda e il capoccione è fatto a forma di Joe Don Baker, mitico attore che ci ha lasciati da poco, capace nella sua carriera di passare agilmente da ruoli da duro a super cattivo con lo stesso corpaccione.
Aggiungiamo un tocco di colore, lo zoologo Peter Elliot con il suo aiutante Richard, studiano da anni i comportamenti dei gorilla, partendo dall’intelligentissima Amy, che grazie ad un computer, un bracciale iper tecnologico e la sua capacità di aver imparato il linguaggio dei segni, può “parlare”, facendo di lei il perfetto anello mancante, visto che Amy vorrebbe tornare a casa in Africa da dove è stata portata via anni fa e dove ricorda di aver visto qualcosa, legato ai diamanti tanto ricercati dalla Travicom.
Nel 1980, Michael Crichton utilizzava questo spunto per due ragioni, la prima portare in scena un’avventura africana sulla falsariga de “Le miniere di Re Salomone”, la seconda far dilagare il suo pessimismo cosmico, che somiglia un po’ più al realismo (ricordiamoci che il suo alter-ego cartaceo nel romanzo famosino sui dinosauri che ha scritto, era Ian Malcolm), con “Congo” Crichton non solo voleva sottolineare l’avidità umana, ma mettere nero su romanzo la verità per cui, prosciugando le risorse, la possibilità di vita futura sul pianeta, inevitabilmente precipiterà sempre più vicina allo zero.
Di questa seconda parte allo sceneggiatore John Patrick Shanley pare interessare poco, “Congo” è un film che non ho mai visto al cinema, ma recuperato in VHS consumando la copia ai tempi dell’home video, alla sua uscita, dopo aver collezionato una serie di brutte recensioni, al botteghino andò piuttosto bene, sotto le aspettative della Paramount ma comunque un grosso incasso, 150 milioni di fogli verdi con sopra facce di ex presidenti defunti portati a casa nel mondo, al netto di un budget di 50 milioni, eppure la sensazione che ho sempre avuto, e che continuo ad avere ogni volta che me lo vado a rivedere resta la stessa: casting messo su con i sostituti disponibili.
La storia produttiva del film mi da ragione, non c’è stato modo di convincere Sir Sean Connery a prendere parte alla produzione (storia vera), e anche i primi due candidati per lo zoologo e la scienziata, ovvero Hugh Grant e Robin Wright rifiutarono i due ruoli principali, sostituiti da Dylan Walsh e da Laura Linney.
Rispetto al romanzo poi, alcuni caratteri e comportamenti sono stati slittati, passati da un personaggio all’altro, ma questo era successo anche per Jurassic Park, quindi il grande cacciatore bianco arruolato in Africa, qui non è bianco per niente ma è fatto a forma di Ernie Hudson nei panni del Capitano Monroe Kelly, credo che lo abbiano scelto solo per fargli pronunciare ridendo la frase: «Gande cacciatore bianco, grande sì, ma poco bianco.»
Un altro personaggio modificato rispetto al romanzo è il contro-finanziatore rumeno Herkermer Homolka, la prova che “Congo” è un film degli anni ’90 consiste nel fatto che ad impersonarlo è il mitico Tim Curry che dove lo metti recita, capace di rendere credibile anche una macchietta di personaggio così, anzi a dirla tutta, chi avrebbe dovuto avere più spazio, si è ritrovato protagonista solo nel notevole prologo.
A Bruce Campbell era stato promesso un ruolo ben più vistoso, magari da protagonista, il suo provino andò così bene che pur di averlo, gli hanno affidato il ruolo di Charles Travis, purtroppo “The King” sarà il Re per tutti quanti noi, ma la Paramount non lo considerava abbastanza divo per un ruolo da protagonista, per questo gli toccò di morire urlando in un prologo da Horror con… Le SIMMIE! Ci siamo arrivati.
“Congo” è un titolo da manuale per lo Scimmiologo DOC che è in me, anche perché i quadrumani del film sono tutti realizzati dal mitologico Stan Winston, responsabile di beh, la maggior parte delle creature più incredibili dell’immaginario, qui non è affatto da meno, Amy è un personaggio che ha parecchi minuti sullo schermo, attorno a lei ruota molta della credibilità della storia o per lo meno, il patto silente fatto tra Frank Marshall e il pubblico.
Amy deve essere più umana degli umani e un po’ meno SIMMIA delle SIMMIE, l’animatronico è talmente riuscito che è ben facile guardarla e pensare: «Voglio cinque Amy da portare a casa!» e allo stesso tempo, la gorilla è al centro di tutti i momenti comici possibili e immaginabili, a partire dalla gag di culto a casa Cassidy.
Impossibile per noi non pensare a come sarebbe applicare la tecnologia parlante ai nostri cani, quindi Amy che vuole “palline verdi” perché è abituata a farsi un Martini o si finge buona quando incontra gli altri gorilla (non per forza nella nebbia) sono tutti passaggi comici e teneri che rendono Amy forse il personaggio più memorabile di tutta la storia, contro Dylan “carisma leso” Walsh e Laura Linney nell’ingrato ruolo de “LSF” (La Scienziata Figa) che crede alle promesse dei CEO, diventa anche facile.
Va detto che “Congo” ha un ottimo ritmo, inoltre a proposito di facce da anni ’90 giuste, mettete pure nella mischia Joe Pantoliano che ci aggiorna sull’instabilità africana e un pretoriano come Peter Jason, che è l’ultima traccia di John Carpenter che resta in questo film, visto che per un breve periodo, il copione è stato proposto anche al Maestro (storia vera), che deve aver rifiutato per proteggermi, cioè vi rendete conto? Un film di John Carpenter con delle SIMMIE, mi avrebbe fatto esplodere il cervello in automatico!
Una delle facce note che ha contribuito a rendere iconico per me questo film è quella di Delroy Lindo, il suo Capitano Wanta resta in scena pochi minuti ma in pochissimo tempo riesce a snocciolare un paio di battute mitologiche, come quando salta su tutto arrabbiato chiedendo «Chi è Kafka? Dimmelo!» oppure ancora meglio, la frase iconica che ogni tanto mi ripeto da solo, una di quelle che fa parte delle mie “Citazioni involontarie”, le frasi prese da film che si utilizzano durante la parlata quotidiana, non ve la riporto nemmeno, ho fatto che metterla direttamente nel titolo del post.
Per il resto “Congo” è un cortocircuito tra buon ritmo, scene d’azione ben coreografate (il salto con il paracadute con Amy in braccio) e momenti in cui è meglio non farsi troppe domande, come ad esempio, sarà lecita la rappresentazione delle tribù locale? Per capirci, quella in cui uno dei rappresentati muore di paura alla vista di Amy, terrorizzato dal mito delle SIMMIE assassine? Mi è sempre sembrata ben oltre lo stereotipo, vabbè, non facciamoci troppe domande.
Anche il finale, per quanto Marshall decida impunemente di sfumare malamente l’inquadratura durante l’attacco dei gorilla albini assassini, l’ultimo atto diventa una lunga tirata con eruzioni vulcaniche e altri momenti in cui è meglio non farsi domande, quando vedi la scienziata, quella logica e pragmatica del gruppo, che imbraccia un fucile laser e inizia ad ammazzare SIMMIE posseduta dallo spirito di Ellen Ripley, va bene così, è una roba stile “Le miniere di Re Salomone” sfornato nel pieno degli anni ’90 e a “Congo”, si vuole bene proprio per quello, non è bello, ma a suo modo ha carattere, e poi ha Amy, quindi va bene così… SIMMIA Power!
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