Ci sono film che riescono ad essere così fuori dalle mode, da sembrare quasi una di quelle “capsule del tempo” che piacciono tanto agli americani, quando sotterri qualcosa con il piano a lungo termine di rispolverarla in futuro, ricordo di un periodo ormai andato.
“Cop Land” ci riporta in pieni anni ’90, quando Hollywood aveva scoperto una nuova generazione di autori formati al videonoleggio o usciti fuori dal cinema Indie più selvaggio, con ambizioni da nuova “New Hollywood” (in sessant’anni non è ancora stato coniato un termine beh, nuovo) le grandi case di produzione hanno dato il via ad una corsa agli armamenti per accaparrarsi questi giovani e promettenti talenti, eroi locali abbastanza talentuosi da risultare giovani promesse, tra i più attivi di tutti i fratelli Weinstein alla Miramax, quindi tra quelli ancora oggi in evidente difficoltà nel parlare del loro mecenate, metteteci anche il sottovalutato James Mangold.
Per certi versi gli anni ’90 sono stati un periodo di nuovo classicismo, qualcuno ha dato il calcio d’inizio alla rivalutazione della cultura nerd, altri hanno stravolto l’utilizzo del termine “Pulp” e Giacomo Uomoro a suo modo ha fatto lo stesso, dopo essersi fatto notare con “Dolly’s Restaurant” (1995), il regista allora poco più che trent’enne ha avuto l’occasione (non dire d’oro, non dire d’oro) d’oro (D’OH!) di scrivere e dirigere un film che aveva già dentro tanto del suo futuro cinema, in equilibrio tra i generi cinematografici muscolari del passato e una carriera al servizio dei grandi divi di Hollywood.
A ben guardare con Tarantino, oltre che la Miramax, Mangold aveva in comune anche la presenza nel cast dei rispettivi film di Harvey Keitel, attore feticcio di Scorsese negli anni ’70 e attivissimo nei ’90, ma a rivederlo oggi “Cop Land” resta una sorta di capsula del tempo non solo per le inquadrature sulla New York in lontananza, con ancora le Torri Gemelle in bella mostra, quanto perché forse è stata una delle prima storie a portarci dall’altro lato del fiume Hudson, dove fino a quel momento ci avevano portato solo le canzone di Bruce Springsteen, in quel New Jersey da sempre sbeffeggiato e considerato come la pattumiera a cielo aperto della Grande Mela, che solo un paio di anni dopo ci sarebbe diventato familiare grazie a “I Soprano”, quindi sia riconosciuto il merito del primato a Giacomo Uomoro, che affidando una parte ad Edie Falco, ha anticipato di poco il suo futuro ruolo di Carmela Soprano nella popolare serie.
In equilibrio tra i Soprano, Martin Scorsese e il cinema Western tanto caro a Mangold, “Cop Land” è arrivato al momento giusto per beccare buona parte del nutrito cast poco prima del disfacimento di molte delle loro carriere, il risultato è un’infilata di facce note o molto note, pizzicate proprio quando erano ancora al loro meglio o addirittura in rampo di lancio: l’odioso rivale in amore Joey Randone con la faccia del futuro regista Peter Berg, il T-1000 in versione baffuta di Robert Patrick, Michael “Superboy” Rapaport quando non solo sembrava una versioni meno impegnativa da gestire di Chris Penn, ma pareva destinato a tutti i ruoli in tutti i film, passando fino ad una delle migliori prove dell’eterno incompreso Ray Liotta (a proposito di preferiti di Scorsese) che è il motivo per cui ho deciso di rivedermi “Cop Land”, per ricordarlo qui sulla Bara ancora una volta.
Fino ad arrivare a Robert De Niro ancora doppiato da Ferruccio Amendola (per i patiti del doppiaggio), quindi ancora il miglior Robert De Niro che oltre a mettere in chiaro quanto Scorsese ci sia in questo film, nel 1997 era ancora uno dei più credibili candidati per il ruolo di miglior attore vivente. Ma il vero colpo dfi fortuna del film, per non dire proprio di genio? Tutti questi grandi nomi, ruotavano attorno ad un Sylvester Stallone da un certo punto di vista inedito, ma lo zio Sly, si merita un paragrafo tutto suo.
Che sia stato IL DIVO degli anni ’80, inutile anche ribadirlo, gli anni ’90 con Stallone non sono stati teneri ne semplici, per motivi personali e per successi al botteghino mancati, la carriera di zio Sly ristagnava in acque basse ma “Cop Land”, pur essendo un film scritto e diretto da James Mangold, quindi una sua creatura a tutti gli effetti, oltre ad uno dei pochi titoli dove Stallone si è limitato a fare l’attore senza mettere mano alla sceneggiatura, resta a tutti gli effetti uno di quei film perfetti per la filmografia di Sly, piena di orgogliosi perdenti, eroi e anti eroi americani pronti alla rivalsa, con la differenza che qui, malgrado fosse chiaro già dal 1976, il mondo si è accorto che Stallone poteva essere anche un convincente attore drammatico, ci sono voluti quasi venti chili di panza messi su per il ruolo, perché i critici con la pipa e gli occhiali distogliessero l’attenzione dai muscoli per concentrarsi sulla sua prova.
La storia di “Cop Land” è piuttosto micidiale, la voce narrante del Tenente Moe Tilden (Robert De Niro) ci racconta la storia di Garrison, immaginaria città del New Jersey, la “Sbirrolandia” del titolo, fondata da poliziotti che con il supporto della malavita locale, crearono un posto poco distante da New York dall’altro lato dell’Hudson dove “la merda non poteva toccarli, o così almeno pensavano” (cit.), tutto blu, niente civili, le famiglie dei poliziotti prosperano in una cittadina gestita con il pugno di ferro da Ray Donlan (Harvey Keitel) e i suoi colleghi Sbirri, un posto quasi da sogno in cui il tasso di criminalità è bassissimo, ma non per merito dello sceriffo locale un “vorrei ma non posso” di nome Freddy Heflin (come Van Heflin, l’allevatore Dan Evans nel classico “Quel treno per Yuma” del 1957, grande amore di Mangold che riuscirà a rifare solo nel 2007, in uno di quei remake riusciti che non vengono citati mai), un personaggio che è 50% scemo del villaggio e per l’altro 50% un “Local hero”, citando ancora uno nel Jersey come il Boss Bruce Springsteen.
Heflin da ragazzo ha perso l’udito da un orecchio per salvare l’amore della sua vita, la bella Liz (Annabella Sciorra) che è comunque finita a sposare uno stronzo che però a differenza di Freddy, ha superato le selezioni come poliziotto a New York, un personaggio spezzato quindi, un altro perdente per la filmografia di Stallone che viene guardato dall’altro verso il basso dagli altri poliziotti, tutti tranne che da Gary ‘Figgsy’ Figgis (un Ray Liotta in gran spolvero), che lo etichetta benissimo perché secondo lui il mondo di divide tra i tipi da flipper e i tipi da videogames, Heflin appeso al flipper di Arma Letale è una sveglia analogica in una città di sbirri digitali che fanno il bello e il cattivo tempo.
La trama si complica quando l’altro “Local hero” della storia, Murray “Superboy” Babitch (Michael Rapaport) combina un casino dei suoi, ammazzando due tipi in auto colpevoli di aver cercato di “sparargli” dal finestrino utilizzano un bloccasterzo scambiato dal ragazzo per un fucile, la scena sul ponte è tesissima, tutta sul filo della regia di Giacomo Uomoro e le musiche della colonna sonora di Howard Shore. Superboy è il ragazzo meraviglia del gruppo di sbirri corrotti, la faccia pulita della loro comunità, pare che abbia salvato dai tre ai sei ragazzi (non è chiaro e il suo eroismo è subito messo in discussione), per tenerlo fuori dai guai Robert Patrick infila una mitraglietta nell’auto dei due cadaveri ma viene beccato, il tutto mentre Superboy alle strette, si lancia giù dal ponte o almeno questo è quello che sostiene Harvey Keitel, che però a “Sbirrolandia” è quello che fa il bello e il cattivo tempo.
“Cop Land” avrà tutto il meglio che il 1997 poteva offrire in termini di attori, eppure è un film neo classico, forse l’ultimo colpo di coda del poliziesco vecchia maniera, prima che il cinema archiviasse per sempre le storie di sbrirri, relegandole se va bene a qualche titolo buono per il cestone “Tutto a 0.99 Euro”. Eppure a ben guardarlo è un Western, un Western a tutti gli effetti ambientato in una delle punte più ad Est degli Stati Uniti, un posto dove i personaggi sono così legati alla loro cittadina, da non farsi problemi sullo scommettere sui disgraziati New Jersey Nets, vincitori al primo turno dei playoff della NBA contro i cinque volte campioni Chicago Bulls, per la nuda cronaca: 3-0 Bulls, Nets fuori dai giochi e commento di Michael Jordan alla domanda del giornalista «Come avrebbero potuto fare i Nets per battervi?», «Ci saremmo dovuti addormentare tutti in campo» (storia vera).
“Cop Land” è un film bellissimo che trovo sempre un po’ meglio ogni volta che vado a rivedermelo, nella comunità di “Sbirrolandia” sei considerato l’eroe del posto se chi comanda lo decide, “Superboy” e Heflin non sono poi tanto diversi, solo che il secondo è il vero eroe della storia, che paga il prezzo di una vita passata a far finta che intorno a lui andasse tutto bene, a voltare lo sguardo dall’altra parte, sentendosi sempre meno di quei veri poliziotti che un po’ ammira e che di colpo, si scopre ad odiare perché il distintivo che lui tanto desidera, non fanno altro che utilizzarlo come scudo per coprire i loro loschi affari, sarà per senso di giustizia e rivalsa che Heflin deciderà di agire, con i suoi modi e i suoi (lunghi) tempi però, e qui sta il bello del film.
Se fosse un qualunque altro film di Stallone, al primo segno di sopruso zio Sly rimetterebbe tutti al loro posto con un sinistro, una smitragliata e una “frase maschia”, qui invece il percorso di questo eroe Springsteeniano passa attraverso la sua complicata storia con Liz, tutta scandita non a caso da pezzi del Boss: quando il marito, un dei poliziotti corrotti, quasi la sbatte fuori di casa, Heflin corre in suo soccorso e poco dopo ascolta in vinile (perché lui è uno vecchia maniera, un tipo da flipper) la bellissima Drive all night, forse il pezzo più romantico di tutta la produzione Springsteeniana.
Quando poi i due si confrontano sul loro passato e il loro rapporto («Perché non ti sei sposato Freddy?», «Tutte le ragazze migliori erano già prese») il pezzo questa volta è Stolen Car, ma “Cop Land” non è solo la malinconica storia di un perdente che arriva a maledire il suo atto di eroismo (quindi il momento migliore della sua vita), in questo film i perdenti di lusso sono almeno due, il secondo è Figgsy, una delle migliori prove di Ray Liotta.
Figgsy quando non è sbronzo si droga, e quando non fa una di queste due cose, litiga con gli sbirri di Harvey Keitel, perché di fatto è la loro coscienza (colpevole), quello pronto a ricordare loro tutte le colpe come si fa nei film muscolari che piacciono a Mangold, ovvero a brutto muso con i personaggi che si insultano e si urlano in faccia. Il personaggio di De Niro che indaga ha solo questi due scappati di casa su cui fare affidamento, anzi sarà il senso di giustizia di Heflin e la sua voglia di rivalsa («Se quello fa casino il caso è riaperto») ad andare a scoperchiare il nido di serpenti costruito da Ray Donlan e compagni nei sobborghi tranquilli del Jersey, all’ombra della Grande Mela.
Giacomo Uomoro se la gioca tutta così, nel confronto perfetto tra una sceriffo di provincia che crede ancora nella giustizia e dei veri sbirri che invece sono criminali con il distintivo, ogni sortita di Heflin in città oltre l’Hudson sembra il viaggio del ragazzo di campagna nella metropoli tentacolare, lo stesso tipo di contrapposizione che si ottiene facendo interpretare all’eroe del cinema anni ’80, la parte di un perdente sovrappeso, un po’ tondo e sordo da un orecchio, un Rocky Balboa con il sogno del distintivo invece che della Boxe. Sul fatto che Stallone qui, tiri fuori una grande prova circondato da un cast di attori che spesso, sono stati considerati molto più di lui, penso che abbia aiutato nell’immedesimazione, ma è nel finale che “Cop Land” cala la maschera e si rivela per quello che è: un Western contemporaneo.
Heflin e Figgsy, uno sceriffo sordo e un cocainomane sono l’unica speranza di Superboy, non vorrei scomodare il vice sceriffo “Borracho” di Dean Martin in Un dollaro d’onore, ma un po’ Mangold deve averci pensato per forza.
Il finale infatti è una sparatoria in puro stile Western, diretta alla grande, montata meglio e coreografata con l’aggiunta, o meglio la sottrazione del sonoro: un colpo sparato vicino all’orecchio buono regala ad Heflin un mondo fatto di acufene e fischi, in cui i colpi sparati sono tanti, a breve distante e tutti ovattati, perché Mangold ci fa vivere il duello sotto il sole finale, tutto dal punto di vista (l’unico senso che gli resta, visto che il gusto durante una sparatoria serve a poco) del protagonista, la vera resa dei conti, perché lo scioglimento del caso arriva frettolosamente poco prima dei titoli di coda, ma solo perché Mangold deve chiudere la pratica del suo film ambientato nel 1997, fosse stato per lui il suo Western nel New Jersey, avrebbe potuto concludersi tranquillamente come molti film Western, ovvero con la sparatoria finale.
“Cop Land” è un film invecchiato benissimo, una “capsula del tempo” l’ho definito lassù, perché ti fa rimpiangere un periodo andato e che forse funziona ancora così bene perché è un film nato vecchio, che non è per forza qualcosa di negativo anzi, rifacendosi ai canoni del poliziesco vecchia maniera e ancora di più al Western, questo film non è invecchiato perché si rifà ad un cinema che non passa mai di moda, come i film di Stallone o una canzone di Bruce Springsteen, quindi anche per ricordare un’eterna promessa mancata di indubbio talento come Ray Liotta, mi sembrava giusto portarlo su questa Bara.
“Chi è quel uomo che sembra una via di mezzo tra un doberman e Bruce Lee? “
Lei rispose: “Solo un eroe del posto”, “Un eroe del posto” disse lei con un sorriso
“Sì un eroe del posto che un tempo viveva qui”.
Sepolto in precedenza giovedì 9 giugno 2022
Creato con orrore 💀 da contentI Marketing