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Creature del cielo (1994): non tutti gli angeli sono innocenti

Visto che siamo a giugno, ci tenevo a contribuire con un film molto bello, forse sempre troppo poco ricordato, ma che per temi e trama è perfetto per il “Pride Month”, ancora di più per questa Bara visto che da poco abbiamo ripassato la prima trilogia di Peter Jackson, quella Splatter che ha messo il suo nome e il suo talento sulla mappa geografica.

“Creature del cielo” ha l’enorme sfortuna di essere ricordato come una nota a piè di pagina nella carriera di Pietro Di Giacomo, si perché alla sua uscita tutti rimasero stupiti del fatto che il regista di titoli provocatori e grondanti sangue come Splatters o Bad Taste, potesse essere lo stesso dietro alla macchina da presa di un film tanto delicato. Successivamente con l’enorme successo di Il Signore degli Anelli, questo film è diventato quasi il titolo con cui tranquillizzare i Tolkeniani, che quel pazzarello dalla Nuova Zelanda, potesse essere l’uomo giusto per portare l’Anello a Mordor.

«Che strano destino, dobbiamo provare tanti timori e dubbi per una cosa così piccola» (cit.)

Infatti alla sua uscita “Heavenly Creatures” prese tutti in contropiede, vincendo il Leone d’oro alla 51ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e candidandosi anche agli Oscar, senza portare a casa nessun però, ma tanto per Jackson l’appuntamento sarebbe stato solo rimandato.

Sarebbe interessante capire la vita a casa Jackson, io mi immagino il buon Peter e sua moglie – e storica collaboratrice – Fran Walsh, circondati da modellini di mostri, dischi dei Beatles e romanzi non per forza solo di Tolkien, infatti la storia di “Heavenly Creatures” ricostruisce un fatto di cronaca nera neozelandese fino al midollo, ovvero il passato di Juliet Hulme, prolifica scrittrice di gialli firmati con lo pseudonimo di Anne Perry, che durante la sua gioventù venne condannata per omicidio insieme all’amica Pauline Parker, una storia (vera) che era già stata portata al cinema nel 1971 nel film francese “E non liberarci dal male”, che però si concentrata molto più sui fatti, in particolare sulla cronaca del processo che invece Jackson e Fran Walsh riassumono in due frasette prima dei titoli di coda, prediligendo un approccio diverso, molto più cinematografico se posso dirlo.

Le vere protagoniste della vicenda, Jackson si è impegnato a cercare attrici somiglianti (storia vera)

Per cercare di restare comunque aderente alla realtà, Pietro Di Giacomo ha preteso di dirigere nei veri luoghi della storia, utilizzando delle vere immagini di repertorio della cittadina di Christchurch per l’efficace prologo del film, anche se ha dovuto rinunciare alla casa di Pauline, ridotta ormai in rovine. In compenso proprio dal diario della ragazza, Walsh e Jackson hanno pescato molte delle frasi della voce narrante, un modo efficace di avvicinare il pubblico al punto di vista delle protagoniste, ed è qui che il buon Peter ha menato il suo colpo più duro.

Pietro Di Giacomo sul set di uno dei suoi rari film di cui non esiste una versione estesa da tre ore.

Per la parte di Pauline e Juliet, il regista pescò due creature del cielo al loro esordio cinematografico, per altro assolutamente impeccabili per i rispettivi ruoli, Melanie Lynskey la potete pescare ancora oggi in giro, specialmente sul piccolo schermo intenta a distribuire talento, decisamente più fortuna ha avuto invece Kate Winslet, perché non si parla mai abbastanza della capacità di Jackson di lanciare talenti e di pescare sempre il volto giusto il ruolo.

Absolute Beginners per dirla alla David Bowie.

Ora, partiamo dall’argomento più complicato di “Creature del cielo” che no, non è il suo essere un film perfetto per il “Pride Month”, ma è questo: davvero questo film è stato un cambio radicale di abitudini cinematografiche per Jackson? Ad una prima occhiata non riesco a pensare a due film più opposti nello spirito di “Heavenly Creatures” e che ne so, Meet the Feebles. Eppure anche questa storia contiene un certo grado di provocazione, la ribellione nei confronti delle autorità precostituite che va mano nella mano con lo spirito delle due protagoniste e del loro regista, qualche esempio?

Quando Juliet arriva in Nuova Zelanda dall’Inghilterra, la prima cosa che fa nella nuova classe è correggere il francese dell’insegnante (per altro interpretata da Elizabeth Moody, la mamma di Lionel in Splatters), poi nel corso del film psicologi e preti nelle fantasie di Pauline, fanno tutti la stessa fine, passati a filo di spada dalle creature di creta, modellate dalla ragazze sulle forme dei protagonisti del libro che scrivono a quattro mani, il materiale per quello che loro chiamo “Quarto mondo”, che non è quello di Jack Kirby, ma un luogo da sogno dove possono accedere solo loro due armate di una fantasia galoppante.

«Non è proprio quello di Jack Kirby, però è proprio bello»

Per certi versi Jackson proverà a replicare questa trovata con l’aldilà di Susie in “Amabili resti” (2009), ma qui i muscoli cinematografici del regista erano molto più in forma, infatti il “Quarto mondo” sarà anche piuttosto naif nella sua rappresentazione, popolato di farfalle giganti e unicorni, ma è un luogo immaginario dove le protagoniste possono rifugiarsi, finalmente in pace, finalmente comprese, dove l’arte ha più valore e importanza di religione e morale. Infatti la gioia di vivere delle ragazze si manifesta così, tra dischi di musica lirica del tenore Mario Lanza, cinema (ma non l’orripilante Orson Welles!) e letteratura, che rappresentano il trionfo della fantasia, delle menti illuminate sulla morale della piccola Christchurch, che Jackson porta in scena proprio così, con la joie de vivre delle sue protagoniste e il cinema come arma segreta.

Come da tradizione, il cameo di Jackson nel suo film.

La corte di personaggi e soldati di creta usciti dalla mente delle due giovani scrittrici sono la continuazione degli effetti speciali creati da Jackson nella cantina di casa sua, infatti tutte le maschere e le creature sono state realizzate dal regista, con l’aiuto della neonata WETA, quella che farà poi meraviglie nei successivi film di Pietro Di Giacomo.

«Balliamo?», «Si ma un lento, ho le ginocchia di pongo. Letteralmente»

Quello che rende speciale un film come “Heavenly Creatures” è il modo in cui Jackson non tiene mai ferma la macchina da presa, anche una semplice scena di dialogo con i personaggi seduti attorno al tavolo, sembra sempre il punto di vista delle due protagoniste, con l’inquadratura che si sposta in continuazione mandando in scena momenti gioiosi o cupi in base all’umore, sempre un po’ ballerino delle protagoniste.

Ma la vera forza di “Creature del cielo” è la sua capacità di parlare dei famigerati “temi importanti” (due parole da leggere con voce impostata da veri cinefili) che nel film non mancano, dalla difficoltà di comunicare tra generazioni diverse, passando per l’omosessualità, la solitudine degli adolescenti, la malattia e l’omicidio. Peter Jackson tira fuori una delicatezza che qui davvero, forse non era legittimo attendersi dal regista di Bad Taste, che fa la scelta narrativa migliore possibile, evita di giudicare, di moralizzare, anche solo di sollevare il pubblico ponendolo su un ideale (e consolatorio) piedistallo dalla quale giudicare le azioni delle protagoniste. Sarebbe stato facilissimo etichettare Pauline e Juliet come due ragazze in preda ad una folie à deux (perdonatemi, oggi sono in fissa con le espressioni in francese, sarà per via di

quel croissant a colazione?), lasciando che il pubblico pensi di loro «Vabbè sono due pazze» e chiuderla così, Peter Jackson si gioca le sue carte molto meglio e senza pontificare, mette in chiaro l’ovvio, quello che chi è impegnato a moralizzare di solito non vede, ovvero che le due protagoniste vorrebbero essere solo felici.

«Caro diario, Cassidy è insopportabile vorrei che morisse per seppellirlo in quella sua bara svolazzante»

Penso sia molto più facile comprenderle Pauline e Juliet, quasi qualunque cosa facciano non va bene, se frequentano dei ragazzi è il male, se stringono amicizia tra di loro, il loro attaccamento viene considerato malsano, ad esempio trovo brillante la scena del padre di Juliet, che fa un lungo giro di parole per non utilizzare l’espressione “omosessualità” e Jackson sottolinea la fine del suo monologo, con un fulmine in sottofondo, come se fosse lo scienziato pazzo di un horror. Anche se poi a ben guardare è la società che le circonda ad essere schiava della morale, infatti sempre il padre di Juliet, viene costretto a lasciare il lavoro in università perché prossimo al divorzio. Jackson da parte sua, riesce a dirigere tutto senza risultare mai morboso, anche quando le due protagoniste condividono la vasca da bagno, non c’è traccia di erotismo, il film ti fa patteggiare così tanto per loro, che diventa automatico per il pubblico capire che quello per loro, è il posto più comodo per riflettere sulle decisioni importanti.

«Non so perché, ma sto pensando al nome Leonardo»

Infatti le scene di sesso del film sono una manciata, Jackson è bravissimo a rendere quasi patetiche quelle con i ragazzi (con Pauline che si rifugia nel “Quarto mondo” in cerca di un minimo di romanticismo) tanto quanto sono delicate quelle tra le ragazze, che comunque non sono la portata principale di “Creature del cielo”, qualunque altro regista avrebbe battuto sull’argomento, Pietro Di Giacomo invece mette in chiaro quanto siano complementari le due protagoniste, mentre da Melanie Lynskey e Kate Winslet riceve in cambio due prove non di certo da esordienti quali erano al tempo.

Da appassionato di cinema, la mia scena preferita di “Heavenly Creatures” resta l’omaggio a “Il terzo uomo” (1949) con le protagoniste terrorizzare e inseguite da Orson Welles, che passa da essere il più orribile degli uomini all’ideale ispiratore del gesto con cui le ragazze, vorrebbero restare per sempre insieme, una gran scena che sottolinea come un film (e in questo caso la paura che può provocarti), come spettatori si finisca per portarselo dietro anche una volta usciti dalla sala.

Il Quarto Mondo Vs. Il Terzo Uomo.

Ma è proprio la lunga attesa per l’omicidio di cui Pauline e Juliet si rendono complici, a chiudere alla grande questo film: le due ragazze divise dai moralismi dei rispettivi genitori, precipitano in una depressione che il regista sottolinea grazie ai toni freddi e scuri della fotografia (curata da Alun Bollinger), poi quando si ritrovano per l’ultima settimana insieme, fantasia e fotografia tornano a rifiorire. L’omicidio, il punto d’arrivo della storia, quello che già tutti conosciamo essendo il film tratto da un vero fatto di cronaca nera, viene spostato sempre un po’ più in là creando la suspence, e anche qui Jackson, che arrivava dall’horror grondante sangue, non utilizza la scena per rimettersi sui binari della prima parte della sua filmografia, non si slaccia il primo bottone dicendo: «AH! Finalmente posso mostrare un po’ di sangue» ma anzi, fa una scelta narrativa estremamente delicata anche qui, ragionando come un vero uomo di cinema sovrappone l’omicidio ad un’altra scena onirica, dai colori seppia come se fosse una vecchia fotografia scolorita, in cui mette in chiaro solo narrando per immagini (e con una versione lirica della classica “You’ll never walk alone”) che l’insano gesto, sarà anche quello destinato a separare per sempre le creature del cielo.

Come passare dal cattivo gusto al buon gusto per la narrazione nella stessa filmografia.

Pietro Di Giacomo è il regista dello spatter e delle grandi battaglie sullo schermo, ma anche quello capace di raccontare con questa classe, senza mai risultare morboso oppure un vecchio moralizzatore, avercene di film in grado di avvicinare il pubblico a temi come l’omosessualità, facendo davvero comprendere il punto di vista dei personaggi in questo modo. “Creature del cielo” sarà anche uno di quei titoli che più o meno vengono sempre fuori verso giugno per il “Pride Month”, ma è ancora un signor film.

«’Tis indeed a miracle, one must feel,
That two such heavenly creatures are real»
Pauline Yvonne Parker, “The ones that I worship”.

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