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Creed (2016): il risveglio degli occhi della tigre

In sala abbiamo il settimo capitolo di una saga cinematografica molto amata, che vorrebbe rilanciare il titolo utilizzando nuovi personaggi che si interfacciano a quelli vecchi. No, non è quel film di cui potreste aver sentito parlare come il maggior incasso della storia del Cinema, sto parlando di “Creed” e sapete che c’è? E’ anche un buon film.

Ho avuto un rapporto conflittuale con questa pellicola, sin da quando ho visto il primo trailer mesi fa, per altro anche l’unico che ho visto. A metà visione sono esploso in un educato e morigerato “Ma va cagare vah!!”, tipica espressione francese che serve a indicare quella sensazione che potremmo riassumere: “Qui ci stanno fottendo di nuovo, propinandoci l’ennesimo film pieno di strizzatine d’occhio che serve solo a fare leva sull’effetto malinconia per spillarci i soldi”… Lo sapete che non sono bravo a riassumere!

Ormai lo sanno anche i sassi che non sopporto i film-malinconia, tutti basati sulle strizzatine d’occhio e le gomitate dati agli appassionati, bisogna riconoscere che non è più una moda o una tendenza, ma è una precisa scelta che paga grossi dividenti al botteghino, spero di sbagliarmi, ma temo che anche il nuovo Ghostbusters sarà fatto così. Cosa ci volete fare, sono un residuato bellico di un’altra Era, sono scarso di comprendonio e ho la testa dura, quindi continuo ad amare quelle storie capaci di stare in piedi sulle loro gambe da sole, senza bisogno di fare leva sull’effetto nostalgia a tutti i costi, quelle storie su testoni duri di comprendonio, ma capaci a tira pugni tipo che so… Rocky.

«Sparisco un attimo e poi ricompaio dall’altra parte»

Tra l’uscita americana di fine 2015 e quella italiana di inizio 2016, purtroppo non ho avuto il tempo di incastrare una mini retrospettiva sui film della saga di Rocky, mi sarebbe piaciuto, quindi ora vi beccate la versione alleggerita sui sei film precedenti (a grandi linee) e poi chissà…

Il primo Rocky era come il suo protagonista: di poche parole, a tratti naif, ma con un cuore grande così, un film semplice nella struttura, che comunicava più attraverso le immagini e le azioni che utilizzando le parole (come la maggior parte dei film che piacciono a me), un capolavoro di semplicità ed emozioni talmente grosso da diventare un classico per intere generazioni. Negli anni abbiamo avuto centinaia di film che hanno tentato di replicarne lo schema, ripetendo le dinamiche tra maestro e allievo che insieme superano le differenze, imparano a conoscersi e trovano riscatto nello scontro finale. Pensate a brutte copie tipo Southpaw, giusto per fare un esempio recente, oppure “Ogni maledetta domenica”, “Karate Kid”, “Milion Dollar baby”. Ma lo schema è talmente efficace da funzionare anche in campo non pugilistico/sportivo, pensate a cose come “Kung fu Panda”, “Il discordo del Re”, oppure Whiplash.

I sequel di Rocky hanno tentato di replicare lo schema, partendo dallo sfigatissimo Rocky II (uno dei peggiori della saga secondo me), pian piano prendendo una deriva sempre più figlia del suo tempo, quindi a volte politica (Rocky IV) a volte tamarra (Rocky III).

«É più tamarro Clubber Lang!» , «No! E’ più tamarro Ivan Drago!»

Su Sly Stallone possiamo dire un sacco di cose: è un attore limitato ed è anche un po’ schiavo del suo personaggio, ma di certo non si può dire che non sia umile o dotato di sale in zucca. Nella sua intelligenza, Stallone ha capito che la saga di “Rocky” aveva bisogno di una dimensione più intimista e dimessa, i risultati sono stati a volte scarsi (Rocky V, o come lo chiamo io, “Il Rocky di cui nessuno si ricorda), a volte un po’ più riusciti (“Rocky Balboa” il sesto capitolo, quello che si gioca l’ultima cartuccia dell’atletismo di Zio Sly). Tutta questa (lunga) parentesi per dire che la saga di Rocky ha sempre vissuto di ripetizioni, in questo senso “Creed” si incastra perfettamente nella tradizione e di nuovo, come il suo protagonista, manda a segno dei colpi giusti, mentre altre cose le sbaglia, ma alla fine porta a casa il risultato.

Lo dico subito: le strizzatine d’occhio ci sono, ma per fortuna sono piuttosto limitate e soprattutto non fanno mai l’errore di strangolare la storia e i nuovi personaggi, solo per fare felici i fans (…Vero J.J.? Prendi appunti grazie). In alcuni passaggi, ho rivisto in “Creed” delle somiglianze con l’altro grande ritorno di un personaggio della nostra infanzia, il ritorno giusto, quello bello e ben fatto di Mad Max: Furiostrada. Ok, sono stato sul vago anche troppo, iniziamo a parlare del film, da qui in poi qualche anticipazione (nota anche come SPOILER… Ma poca roba giuro!).

Adonis “Donnie” Johnson (Michael B. Jordan) è il figlio del grande campione Apollo Creed, ma essendo nato da una notte brava fuori dal letto coniugale, quando lo incontriamo sta facendo a cazzotti (vincendo) in un riformatorio. Gli fa visita Mary Anne Creed (Phylicia Rashad… La signora Robinson! Cavolo ora il revival anni ’80 è completo, manca solo Mr. T!) che lo adotta ufficialmente offrendogli una vita agiata.

«Chi hai chiamato Johnny Storm culo bianco?»

Ma il ragazzo è tormentato, combatte in tornei di boxe clandestini in Messico, poi un giorno molla il suo comodo lavoro di ufficio con la volontà di diventare un pugile professionista e per farlo, c’è un solo posto al mondo dove può andare: Philadelphia. E non certo perché è ghiotto di formaggio spalmabile!

Qui partono tutte le dinamiche che potete attendervi: l’incontro con Rocky Balboa (ovviamente interpretato da Sylvester Stallone, questa era facile, no?), tutta la trafila del “Ti alleno”, “No non ti alleno” è inevitabile, così come l’incontro con la bella vicina di casa di nome Bianca (Tessa Thompson, già vista in Selma), un personaggio che potremmo riassumere con queste immortali parole: “Io c’ho i vuoti, lei c’ha i vuoti e assieme li riempiamo”.

Fino qui tutto come da programma, no? Compresi i momenti classici che strizzano l’occhio ai fans, come l’allenamento con il pollo da catturare, la corsa in tuta grigia e berretto nero e ovviamente il montage musicale, che sta a questa saga come il “Mi chiamo Bond, James Bond” sta a quella di 007. Un montaggio con musica di sottofondo che ci mostra una sfida fisica, da superare con grande pathos scenico, e che rappresenta la prova che ora l’allievo è pronto ad affrontare, ovvero il grande incontro finale. Abbiamo visto la corsa tra Rocky e Apollo in spiaggia (Rocky III), l’allenamento nella nevi Russe (Rocky IV) qui è la volta della corsa delle moto lungo la strada, quando il giovane Creed (ma non chiamate “Small Creed” che si incazza malamente) riesce a superarle, vuol dire che ci siamo.

Heaaaaaaaarts oooon fiiii-iiire, Strooooong de-siiiiiiiiire!

Cosa manca? Lo sfidante, anzi il campione, l’inglese ‘Pretty’ Ricky Conlan (il faccino tenero di Tony Bellew), con la sua storia passata di squalifica (e galera) per possesso di arma da fuoco e la volontà di farsi un po’ di pubblicità mandando al tappeto l’astro nascente, il figlio del grande campione (Apollo Creed) allenato da un altro grande campione (Rocky Balboa).

Togliamoci il dente, le strizzate d’occhio ci sono: si parte dai colori dei pantaloncini di Adonis, passando per il tema musicale di “Rocky” che nel momento di massimo apice del film fa capolino per cinque o sei secondi, ma essendo uno dei più belli della storia del Cinema, era impossibile resistere alla tentazione di non utilizzarlo.

Togliamoci il dente (secondo estratto) i personaggi di contorno: se “Rocky” portava in scena personaggi fantastici (tutti, anche i comprimari, pensate a Paulie), qui tutti quelli che si muovono intorno ad allievo e maestro forse non hanno lo spazio sufficiente per esprimersi a pieno. Bianca svolge bene il compito di “Adriana” di turno e avrei gradito qualche scena in più tra Adonis e sua madre, se non altro, a differenza di quella fetecchia di Southpaw, qui almeno si sono ricordati di creare un minimo di background al pugile avversario, perché se vuoi che la sfida finale funzioni, l’avversario deve essere una vera minaccia.

«Un, due, tre… Menare! Un, due, tre… Menare!»

Tutti questi difetti ci sono, per fortuna restano limitati (specialmente le strizzate d’occhio che mal sopporto), quello che funziona è tutto il resto, specialmente i due protagonisti, con i loro rispettivi archi narrativi.

Per la prima volta in questa saga, abbiamo un protagonista che come direbbero gli Americani e come gli dice anche ‘Pretty’ Ricky Conlan, è cresciuto con un “silver spoon in hand”… Pensavate davvero che avrei perso l’occasione di citare i CREEDence Clearwater Revival?

Qui assistiamo alla storia di Donnie “Hollywood” Johnson, che abbandona la sua vita agiata nella ricca California, per recarsi nella proletaria Philly, un luogo fatto di scalinate e statue, dove chi lavora sodo e non ha paura dei pugni in faccia piace alla gente del posto (citofonare Allen Iverson per conferma). Esattamente come succede a Max nell’ultimo capitolo della sua saga, siamo di fronte ad un personaggio che deve riconquistarsi tutti i suoi simboli (Per Max giacca e V8, per “Lil’ Creed” i pantaloncini del padre), ma anche il suo nome. A fine film, il personaggio che abbiamo di fronte è Adonis Creed, uno che si è guadagnato il diritto di indossare quei colori e quel nome, il rispetto del suo avversario, del pubblico, del suo allenatore, ma e anche di noi spettatori, dopo questo film non mi dispiacerebbe di vedere un “Creed II”, per il III, il IV e il V poi vediamo come va…

“Creed” funziona, questo lo dobbiamo al regista (sceneggiatore e autore del soggetto) Ryan Coogler, al primo film con una major dopo il suo ottimo esordio “Fruitvale Station” (che consiglio a tutti), da cui proviene anche il protagonista, ovvero Michael B. Jordan.

Indossare i colori di famiglia (occhio viola compreso).

Il nostro Ryan Coogler si è buttato su questo progetto con l’approccio giusto, testa bassa, pedalare, “Umiltè strEordinEria” (Cit.), ma soprattutto ha fatto i compiti, che è sempre una cosa che apprezzo in uno sceneggiatore. L’arco narrativo di Adonis funziona tanto che potrebbe convincere anche in un film dove ad un certo punto ciccia fuori Rocky Balboa e quando il pugile più famoso della storia del Cinema fa la sua comparsata, la storia non cerca di far rivivere allo spettatori i vecchi ricordi, o meglio lo fa, ma è una cosa extra, il l’obiettivo del film è anche quello di portare avanti la storia di Rocky dal punto in cui l’abbiamo lasciata.

Per farlo Coogler non si limita a omaggiare le parti migliori del passato del personaggio (quando scrivo queste cose vorrei avere JJ Abrams sotto le mani per dargli dei sonori coppini sulla testa…), non disdegna nulla, nemmeno le parti peggiori, il Rocky di questo film non è solo invecchiato, è pronto a prendere il ruolo di allenatore di Mickey e quello di coscienza di Paulie (motivo per cui ho amato la scena al cimitero, perché non è solo “Fan Service”… Ciao Sergio!), Coogler non rinnega nemmeno i capitoli meno riusciti della saga (come detto Rocky “Nessuno si ricorda di me” V), raccontandoci cosa è successo a Robert Balboa ed è proprio grazie agli errori di padre, il nostro “Rock” (come si presenta lui… figata!) capisce che Adonis non ha bisogno di un padre, ma di trovare se stesso. Per me questo vuol dire aver capito i personaggi, avere un’idea di dove portarli, bilanciarli bene tra “vecchie glorie” e “nuovi arrivati” raccontando una storia che sta sulle sue gambe e che ogni tanto strizza l’occhio al pubblico… Cavolo cosa non darei per avere J.J. Abrams tra le mani in questo momento!

«Dai ragazzo, domani ci disegniamo sopra la faccia di J.J. Abrams»
Il risultato viene ottenuto grazie ad una regia capace che ogni tanto indugia nella camera a mano che segue i protagonisti (l’inquadratura che io amo chiamare “NuCam”), ma che mantiene la stessa distanza anche durante i combattimenti. Niente macchina da presa piazzata a bordo ring quindi, e dimenticatevi anche le inquadrature patinate di Southpaw. Ryan Coogler a mio avviso ha saputo fare un ottimo lavoro, trovando il giusto mix tra i classici combattimenti che il pubblico si aspetta da “Rocky” e una certa volontà di realismo che non guasta mai.

Era da “The Wrestler” che non si vedeva una  “NuCam” così.

In tutta risposta, i due protagonisti sono totalmente in palla. Ora, io ho un collega americano, ho visto il suo nome nell’indirizzario aziendale e mi è caduto l’occhio per via dell’omonimia con il mio grande mito sportivo. Ecco, quando agli indirizzari aziendali hanno aggiunto le foto, l’entusiasmo ha lasciato il passo alla realtà: più vicino ai 60 che ai 50, 47 chili con camicia e penne nel taschino e occhiali a culo di bottiglia (storia vera), ma soprattutto… Bianco.

Tutto questo per dire che se ti chiami Michael Jordan, un paio di attenzioni le attiri, anche se in mezzo ci metti una “B” puntata. Che il nostro MBJ fosse bravo, si era (intra)visto nella piccola parte che faceva nella più bella serie tv della storia (Ovvero: The Wire), si era visto anche in “Fruitvale Station” ecco, se non fosse stato per quella porcheria di film sui Fantastici Quattro, sarebbe andata molto meglio. Per fortuna, possiamo archiviare l’esperienza come Torcia umana come uno scivolone lungo il percorso, Michael B. Jordan qui è tirato come una lippa, funziona alla grande nelle scene drammatiche e in quelle di Boxe, ma soprattutto è totalmente credibile nei panni di uno con il fuoco dentro. Nella pellicola non si parla di “occhi della Tigre”, ma il Michael B. Jordan di questo film, proprio come Adonis Creed, è all’altezza del suo nome e, credetemi, per un fan di MJ (senza la B) questo è un complimento.

«Senti un po’, ma quella B lì nel mezzo per cosa sta esattamente?»

Ma è inutile girarci attorno, non staremmo qui a parlare di “Creed” se non fosse per un uomo soltanto, quello da cui tutto e cominciato, ovvero: Sylvester Stallone.

Come detto, non ho creduto molto a questo film guardando il trailer, per fortuna la pellicola (che poi è quella che conta) mi ha fatto cambiare idea, tanto che anche se sono una clamorosa pippa in molte cose, specialmente a fare le previsioni, qualche settimana fa mi sono lanciato in un rischioso: “Qui rischiamo Sly Stallone nominato come miglior attore non protagonista agli Oscar”. Quando leggerete questo sarà già notizia vecchia, ma io che vi scrivo dal passato, vi dico che questa notte Stallone ha vinto il Golden Globe, se persino un “Nosfigatus” come me è riuscito ad azzeccare una previsione, è perché Rocky e Stallone sono la stessa persona, con buona pace della finzione cinematografica.

Win, Rocky, Win!

Tornando di nuovo nei panni del personaggio della sua vita, Stallone ci mette di nuovo tutto se stesso, quando parla ad Adonis di suo figlio Robert Balboa, è chiaro che sta pensando a Sage Stallone, che interpretava Robert in “Rocky V” e che purtroppo è morto prematuramente nel 2012. La presenza di Rocky nel film non è solo il contentino per i fans, ma è un altro tassello che va ad aggiungersi alla storia del personaggio. Il bello è che Stallone non fa finta di non essere nato nel 1946 e la storia non fa finta che il tempo non sia passato (posso sfidare JJ Abrams ad un match di Boxe? Posso?), la storia del giovane Creed e anche quella del vecchio Rocky, una non annulla l’altra, siamo di nuovo di fronte al vecchio archetipo narrativo del maestro e dell’allievo, ma funziona e ti ritrovi ad esultare per ogni pugno mandato a segno da Adonis e a tifare per lui quando l’arbitro parte con la conta…

“Creed” non è un film impeccabile, però funziona, ha lo spirito giusto e la voglia di sporcarsi le mani, forse sarà anche vero che nel 2016 non si possa davvero raccontare qualcosa di nuovo, però questo film riesce a rilanciare una saga storica senza furberie, temevo gli occhiolini, per fortuna, invece, sono arrivati gli occhi neri!

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