Questa volta era molto più difficile, la posta in gioco con questo secondo capitolo di “Creed”, da tanti considerato un Rocky VIII apocrifo, era molto più alta e, bisogna dirlo, il risultato finale è davvero nello spirito dei personaggi creati da Sylvester Stallone.
Creed era la prova che Rocky V era una buona idea, ma per funzionare davvero aveva bisogno di qualche aggiustamento, a partire da un regista che avesse voglia di raccontare questa storia come Ryan Coogler e da un allievo di Rocky interpretato da qualcuno che sapesse recitare, in questo senso Michael B. Jordan, oltre ad essere l’uomo con il nome più bello del mondo, è stato la scelta migliore. In più metteteci il nostro Sly che in origine avrebbe dovuto avere solo una particina piccolina, ma man mano il suo coinvolgimento è cresciuto, forse anche troppo, perché, parliamoci chiaro, quella scena lì, era ruffiana quanto volete, giocava su sentimenti facili, vero, però quanto era intenso Stallone?
Mi sono rivisto “Creed” per completare il ripasso di tutti i film della saga, continuo a trovarlo un buonissimo film diretto molto bene e anche se non credo ai premi per la recitazione, Stallone il suo Golden Globe lo ha meritato. Per essere un film che insisteva sul costruirsi una propria “Legacy”, come ripetono spesso nella pellicola, alla fine Adonis Creed ci riusciva solo in parte, perché comunque, citando Robert Balboa junior, Rocky fa una grande ombra, insomma c’era spazio di manovra per migliorare, ma riportare in scena la Transiberiana per il seguito? Il fascino del più iconico, ma anche sopra le righe (fin dal nome e dal look in pieno stile anni ’80) avversario di Rocky è forte, ma poteva funzionare ancora nel 2019 Ivan Drago? Questa volta accompagnato da suo figlio Viktor, colui che nessuno chiamerà mai “Draghetto” visto che è grosso come i monti Urali.
Con Ryan Coogler andato a dirigere il film nominato agli Oscar più controverso della storia di questo premio, il rischio era che Stallone si divorasse con il suo carisma anche questo secondo film e magari anche il nuovo regista appena arrivato, Steven Caple Jr. Eppure, come ormai abbiamo capito da più di quarant’anni, Rocky e Stallone sono uniti e indistinguibili e se i suoi anni da più grande divo del pianeta ormai sono andati, sfogando anche tutto il super ego che si portavano dietro, quello che a zio Sly non è mai mancata è un’umiltà tipica degli atleti, di coloro che sono abituati a conoscere bene i propri limiti.
“Creed II” è l’ennesima prova, per chi ne avesse bisogno, che nella dimensione di un cinema popolare in grado di emozionare e coinvolgere il pubblico, Sylvester Stallone è uno sceneggiatore sottovalutato. Se il primo film vinceva la sua sfida grazie ad una sua prova da attore e al talento di Michael B. Jordan, “Creed II” è un esempio di ottima scrittura. Un film che aveva tre sfide molto complicate a livello di sceneggiatura da affrontare, ognuna di queste avrebbe potuto far sbandare il film e mandarlo definitivamente KO, invece la sceneggiatura di Sylvester Stallone e Juel Taylor, trova l’unico modo per battere tutti gli avversari e andare a vincere, in un trionfo coinvolgente, bello e inatteso, degno del personaggio più famoso di zio Sly.
Questo film è scritto alla grande perché non ha una sola parola fuori posto, mai una di più o una di meno, in certi momenti lascia che siano i pugni e l’azione a comunicare, ma ogni volta trova il modo di vincere la sua sfida, a partire dal protagonista.
Il primo capitolo era la storia del giovane Donnie “Hollywood” Johnson che ereditava il cognome e i pantaloncini a stelle e strisce di papà Apollo, ma, malgrado l’intensità di Michael B. Jordan, risultava molto difficile immedesimarsi con un personaggio nato e cresciuto nella bambagia, caratterizzato da atteggiamenti da vero stronzetto che lo perseguitano anche per tutto il primo tempo di “Creed II”. Sì, certo, alla fine del primo capitolo eravamo di fronte ad un personaggio degno del suo nome, ma Adonis Creed funzionava più che altro perché era amico di quel nostro vecchio amico di nome Rocky, da qui a diventare un personaggio con un carisma comparabile, le scalinate da fare e le galline da acchiappare erano ancora tante.
Questo film prenderà anche i cattivi in prestito dal più esagerato e perfettamente calato nel suo periodo storico film della saga di Rocky, però la struttura è quella di Rocky III, Adonis sarà anche il campione del mondo ora, ma è un ragazzino arrabbiato con un irrisolto paterno che levati, ma levati proprio. Infatti, proprio come un ragazzino scatta alla più basse delle provocazioni da cortile scolastico: “Mio papà è più forte del tuo e lo potrebbe picchiare. Anzi lo potrebbe proprio ammazzare”. Cosa che in effetti ha anche già fatto.
Non si parla mai di “occhi della tigre”, anche quella era una trovata in puro stile anni ’80 che oggi risulterebbe un po’ pacchiana rispetto alla volontà di realismo del film, però qui Adonis fa gli stessi errori del suo mentore, compreso non dare ascolto alla sua ideale coscienza, quel Rocky che ormai è un po’ Mickey e anche un po’ Paulie, a ben guardarlo. Ma la differenza sostanziale tra di loro non è la paura di rialzarsi dopo una batosta colossale, sta nelle motivazioni: Rocky combatteva per riprendersi qualcosa che aveva perso (il titolo di campione, gli occhi della tigre), Adonis, invece, combatte per qualcosa che adesso ha e, personalmente, questa la trovo una motivazione bellissima, se volete sapere la mia.
Per uno che non ha mai avuto un padre, diventare padre cambia tutto, a Stallone basta scrivere una scena muta, senza parole, solo pugni contro il sacco, per raccontarci di un ragazzino che capisce che non ha più tempo per scapricciare che gli manca il suo papà, perché ha gli occhioni addosso di bambina (che è sorda, quindi quegli occhi li fa lavorare il doppio) con cui non puo permettersi di fare scenate. Quella scena quasi da sola crea un personaggio, da spettatori ci regala finalmente un’occasione per immedesimarci con uno che non era uno scemone ignorante con le mani pesanti come Rocky, uno con cui era facilissimo immedesimarsi, però ora possiamo farlo e proprio per questo anche il suo training montage (il vero marchio di fabbrica di questa saga) diventa appassionate e, lo ammetto, talmente bello che sono riuscito persino a fare pace con il dettaglio che di sottofondo non ci sia più la musica rock, di certo più adatta a Rocky, sostituita da tanto rap come ci si aspetterebbe da Adonis.
No, ma poi, quella scena nel deserto cos’è? No, sul serio, Stallone butta lì un’idea assurda, un posto nel deserto dove i pugili reietti vanno a ritrovare sé stessi, una roba quasi metafisica, per non dire proprio psichedelica che non dovrebbe avere cittadinanza in un film che cerca il realismo a tutti i costi… Invece? Invece, funziona alla grande e ti fa pensare: “Possiamo avere uno spin-off anche su questo? Voglio sapere tutto di questo inferno nel deserto, che ti prepara a tornarci davvero all’inferno del ring!”.
Proprio parlando di realismo, ve lo ricordate il primo Creed, in cui l’altisonante e pacchianissimo nome di Ivan Drago non veniva mai pronunciato, proprio per non fare la figura di quelli che arrivano vestiti da paninari degli anni ’80 ad una festa in cui tutti fanno i rapper cazzuti? Ecco, qui non solo Stallone dà una risposta al mio lungo fantasticare su cosa è capitato ad Ivan Drago dopo la notte di Natale del 1985, ma riesce ad immergere il personaggio e suo figlio nell’atmosfera di questo film, eliminando tutte le trovate esagerate che hanno fatto la storia sì, che andavano bene in piena guerra fredda e come lo fa? Con pochissime parole, un trionfo dello “Show, don’t tell” su cui dovrebbe essere sempre basato il grande cinema, non solo quello d’azione, anche se la capacità di Steven Caple Jr. di rendere la tensione tra personaggi e dei match sul ring, è un’altra bella sorpresa del film.
Ivan torna nella prima scena, dà un cazzotto al figlio che dorme sul divano che potrebbe mandare in coma uno qualunque tipo, io ad esempio, ma per Viktor Drago (Florian Munteanu) è la parte più tenera della sua giornata, forse l’unico momento di contatto con un padre che il massimo che gli dice è roba tipo «Corri forte» mentre lo insegue con un camion per assicurarsi che non rallenti durante i suoi allenamenti… Altro che galline da catturare!
Per Ivan Drago il figlio Viktor è un modo per tornare sotto i riflettori, riportare prestigio al suo nome che ormai in Russia non pronuncia più nessuno, in tal senso Dolph Lundgren giganteggia come se non fosse mai uscito dal personaggio dal 1985, anche se un’enorme fetta di pubblico, forse pensa che sia andata veramente così.
Se Adonis per metà film è un personaggio con cui è ancora difficile immedesimarsi, uno dei tanti meriti di “Creed II” è quello di prendere la Transiberiana, quel colosso di muscoli e tecnologia che tutto sembrava tranne che umano in Rocky IV e renderlo insieme al figlio Viktor, quasi qualcuno per cui si potrebbe anche patteggiare, il tutto avviene sempre senza sprecare una sola parola. Padre e figlio che corrono per le strade di Philadelphia, che si guardano attorno un po’ schifati, nel vedere le persone che imitano Rocky nella sua celebre corsa sulla scalinata e guardando la città lanciano la loro sfida. Basta una scena per ribaltare tutta la percezione che abbiamo dei due cattivi, che sono arrivati in città per sconfiggere il protagonista vero, ma a ben guardarli sono loro quelli che non hanno niente e hanno tutto da dimostrare contro il campione. Non so come si dica “Rocky Balboa” in russo, credo qualcosa tipo “Ruocky Bualbuoa”, ma in ogni caso i veri “Rocky” del film sono loro due.
“Creed II” è un trionfo dell’azione, del mostrare (quindi del cinema) sulla parola, anche perché capisce che meno a volte è meglio. Trovare facilmente in rete la scena girata, ma non inserita nel montaggio finale del film, in cui Ivan Drago e Rocky fanno a cazzotti nell’atrio dell’ospedale. Stallone, Steven Caple Jr. o chi per loro hanno fatto davvero bene a tagliarla, perché ai due personaggi, basta quello sguardo, senza parole nello stile di questo film, tra di loro sul ring, di nuovo faccia a faccia come nella notte di Natale del 1985, un silenzio che vuole dire guerra.
Stallone aveva in mente di uccidere (a causa dell’AIDS contratta per la sua dipendenza da steroidi) Ivan Drago in una scena scritta, ma per fortuna mai girata di Rocky Balboa, quindi era chiaro che per lui che tutti questi personaggi li conosce benissimo, visto che li ha creati, Drago aveva ancora qualcosa da dire e di certo non come miglior amico del cuore di Rocky. Alla sceneggiatura di Stallone serve pochissimo per mettere in chiaro che Ivan da trent’anni tiene aperte le sue ferite e a pagare il prezzo di tanto odio è Viktor, sì, perché se Adonis ha degli irrisolti paterni, Viktor ha il peso dei fallimenti del padre addosso e combatte per una madre che non ha mai avuto e siccome questa sceneggiatura è un trionfo delle azioni sulle parole, ad interpretarla è nuovamente Brigitte Nielsen che qui riesce a pronunciare meno parole che in tutto Rocky IV, ma dove comunque il dramma della famiglia Drago è palpabile, una roba che dopo lo spin-off sui pugili nel deserto, ne vorresti anche uno intitolato “DRAGO” con protagonisti Viktor e Ivan, solo per sapere come continua la loro storia!
Trasformato Adonis in un personaggio per cui viene finalmente voglia di fare il tifo e dopo aver dato finalmente una continuazione alla storia di Ivan Drago, l’ultima grande sfida di “Creed II” era forse la più complicata, ovvero concludere la storia di Rocky Balboa, quello che sarebbe soltanto uno dei più famosi personaggi della storia del cinema, senza che monopolizzasse il film, insomma non proprio semplicissimo.
Stallone riprende tutte le sottotrame rimaste aperte del suo personaggio, tra lo scontro con Drago e i problemi con il figlio (nuovamente interpretato da Milo Ventimiglia), Sly non ruba mai il palcoscenico dando a tutti quanti non solo una lezione su come si scrivono i film, ma anche una grandissima prova di umiltà. Dovreste saperlo che zio Sly ha dichiarato che questa è l’ultima volta che interpreterà Rocky Balboa, lo so, è tanto che lo dice, ma questa volta sembra davvero quella buona visto che nessuno ringiovanisce, di certo neanche lui, quindi trovo davvero ammirevole che uno dei personaggi più amati nella storia del cinema, si congedi per sempre dal pubblico, nel seguito di un film di cui non è il titolare, con quell’ultima inquadratura in disparte, di spalle mentre si sistema il cappello, quando tutti stanno guardando il vincitore al centro del ring. Tutto questo solo dopo aver dato un ultimo pugno che forse non è il più epico, potente e devastante tra tutti quelli che ha dato sul grande schermo, ma il più sentito di tutti, un Bro-Fist che oltre ad essere il saluto ufficiale di questo blog, è il passaggio del testimone a tutti gli effetti, consegnato ad un personaggio per cui tutti, anche noi vecchi fan di Rocky, ora possono fare il tifo. Una lezione di cinema, una lezione di umiltà. Un film bellissimo.
Grazie di tutto zio Sly e benvenuto Donnie, ora tocca a te! Intanto vi ricordo la rubrica dedicata a tutti i film della saga di Rocky.
Sepolto in precedenza mercoledì 30 gennaio 2019
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